L’azione meloniana nei confronti della sponda Sud del Mediterraneo sembrerebbe disporre di quell’ambizioso afflato strategico e di quell’assertività che sono spesso e volentieri mancati da parte dei vari governi di Roma. Ma la riuscita è tutta da vedere
Il 6 aprile 2021 Mario Draghi si recò in Libia per la sua prima visita all’estero da Presidente del Consiglio, primo fra i leader europei dopo la formazione del nuovo Governo libico di unità nazionale guidato da Abdul Hamid Dbeibah. L’Italia, dopo un lungo periodo di eclissi iniziato con la riluttante partecipazione alla ‘guerra umanitaria’ contro Gheddafi scatenata nel 2011 da Parigi e Londra (con l’appoggio più defilato degli Stati Uniti), sembrava dunque ambire a contare finalmente di più su uno scacchiere, come quello libico, vitale per i suoi interessi geopolitici.
In quel momento, dopo l’accordo per la costituzione di un Governo di unità nazionale che avrebbe dovuto condurre la Libia a elezioni politiche generali, sembrava che Draghi – complice il ripiegamento di altri partner europei, prima fra tutti la Francia – avesse messo per primo la propria ‘bandierina’ sulla ricostruzione del Paese.
Era però lecito domandarsi se Roma possedesse i mezzi, anche culturali, per una politica così assertiva, considerata la sua storica riluttanza ad assumere impegni al di fuori dei processi multilaterali e la sostanziale mancanza di una chiara elaborazione del concetto di interesse nazionale. Per di più, in presenza di due spregiudicati ‘free rider’ internazionali come Russia e Turchia, disposti a violare ogni embargo e a inviare in Libia truppe e mercenari.
Purtroppo la risposta sembra più negativa che positiva: ben poco ha potuto fare il nostro Paese per garantire la stabilità della Libia, dopo il rinvio ‘sine die’ delle elezioni previste per il 24 dicembre 2021, la proclamazione da parte del Parlamento di Tobruk di un secondo premier nella persona di Fathi Bashaga (appoggiato dal Generale Khalifa Haftar) e i violenti scontri della scorsa estate tra fazioni rivali. Una delle conseguenze di tutto ciò è stato, fra l’altro, l’incremento dei flussi di migranti che ogni giorno si riversano dalle coste libiche verso ilnostro Paese, mentre l’allora Ministro degli Esteri Luigi Di Maio delegava in sostanza all’ENI la nostra politica nei confronti dell’ex Quarta Sponda.
La crisi ucraina e il conseguente shock energetico, causato dalla progressiva riduzione dei flussi di gas e petrolio provenienti dalla Russia, hanno poi costretto Roma a volgersi nuovamente verso l’Africa del Nord al fine di soddisfare le proprie necessità di approvvigionamento: questo, già nell’ultima fase del Governo Draghi e ancora di più con la salita a Palazzo Chigi di Giorgia Meloni. Quest’ultima, dopo essersi recata in Algeria ove ha chiuso importanti accordi per l’incremento delle forniture di gas naturale al nostro Paese, ha visitato la settimana scorsa proprio la Libia assieme ai Ministri degli Esteri Antonio Tajani e dell’Interno Matteo Piantedosi, nonché dell’Amministratore Delegato di ENI, Claudio Descalzi.
La scelta degli accompagnatori anticipava i temi che sarebbero stati toccati durante gli incontri: gli idrocarburi ovviamente, ma anche la partecipazione di Roma alla nuova azione internazionale per la stabilizzazione della Libia(Tajani ne aveva fra l’altro discusso, nelle settimane precedenti, in una serie di visite in Turchia, Egitto e Tunisia) e la scottante questione migratoria.
Pare insomma di assistere, con l’avvento del Governo Meloni, ad una visione più strategica dei nostri rapporti con la Libia: anche se la visita del 28 gennaio si è limitata a conversazioni con il Governo tripolino di Dbeidah, escludendo invece del tutto – forse per la nota vicinanza di Haftar a Mosca – la branca cirenaica. La conclusione fra ENI e la libica NOC di un contratto di circa 8 miliardi di dollari per lo sfruttamento di due lotti offshore, definito ‘storico’ dalla stessa Meloni nel quadro del suo progetto di fare dell’Italia un hub energetico per la commercializzazione del gas nordafricano in Europa, è stata senz’altro il principale risultato della missione: anche se un incontro con Haftar sarebbe valso quantomeno da ‘contro-assicurazione’. La nostra premier, fra l’altro, ha nuovamente fatto menzione a Tripoli di quel ‘Piano Mattei per l’Africa’ che intenderebbe porre in atto per (sono sue parole) “aiutare i Paesi africani a diventare più ricchi”, valorizzando le loro risorse naturali e umane e minimizzando di conseguenza l’afflusso di migranti irregolari nel nostro Paese. Anche se, in Libia, Enrico Mattei non ha mai goduto in vita della stessa popolarità raggiunta in altre capitali africane, date le sue note posizioni terzomondiste, malviste dalla monarchia senussita.
Apparentemente, dunque, l’azione meloniana nei confronti della sponda Sud del Mediterraneo sembrerebbe disporre di quell’ambizioso afflato strategico e di quell’assertività che sono spesso e volentieri mancati da parte dei vari governi di Roma. Sviluppo, questo, assolutamente necessario, se vogliamo interrompere il declino della nostra influenza nell’ex colonia e nei Paesi confinanti, mai così vitale come in questo periodo di perdita, forse definitiva, ma comunque non breve, delle risorse energetiche a basso prezzo garantiteci fino allo scorso anno dalla Federazione Russa.
Che poi questo approccio riesca a evitare certi velleitarismi del passato e consenta un effettivoe durevole riconoscimento dei nostri legittimi interessi in Libia e, più in generale, in Nordafrica, questo è tutto da vedere. Vari osservatori, in effetti, mettono in guardia sulla reale affidabilità di Algeri che, nonostante la retorica filo-Mattei, potrebbe non essere in grado di mantenere i rilevantissimi impegni presi con l’Italia; e suscitauna certa perplessità riguardo alla stabilità dei rapporti con i partner (basti pensare alla recente rottura con la Spagna) e alla sua forte cooperazione militare proprio con la Russia.
La Libia, poi, rappresenta un caso a sé. Il Governo ‘legittimo’ di Dbeibah, infatti, controlla, come noto, solo una parte del Paese e, nonostante le recenti prove di dialogo con Haftar – che hanno fra l’altro favorito il recente, condiviso cambio della guardia alla testa dell’ente petrolifero di Stato– potrebbe essere costretto a tornare sui suoi passi, come testimonia ad esempio la non casuale assenza proprio del Ministro del Petrolio Aoun alla cerimonia di firma dell’accordo italo-libico deciso dal suo Primo Ministro. Sarà certamente vitale, per la Libia ma anche per le ambizioni italiane,che si possa pervenire allo svolgimento, in tempi il più possibile brevi, di elezioni politiche sufficientemente libere e democratiche: cosa di cui, al momento – e nonostante il meritorio volontarismo della nostra premier– è lecito dubitare, salvo un impegno straordinario della comunità internazionale che, al momento, non sembra alle porte.