Europa priva di una ‘cultura di guerra’. Non riesce più a considerare la violenza come un mezzo legittimo per garantire determinati tipi di interessi. E, quanti americani possono immaginare cosa significherebbe una terza guerra mondiale?
Ieri, 5 dicembre, è scattato l’embargo quasi totale sul petrolio russo. Contemporaneamente molti governi europei (Francia e Germania in testa) hanno iniziato a preparare la popolazione alla possibilità di interruzioni di corrente controllate nel caso in cui le forniture di energia entrino in crisi. E’ la conseguenza della guerra in Ucraina e della decisione di procedere al disaccoppiamento dell’Europa dalla Russia in fatto di energia. Così, l’inverno 2022-2023 sarà il primo grande test di resilienza dell’Europa.
‘Resilienza’, cioè, capacità di ‘resistere agli urti senza spezzarsi’, ‘resistere e reagire’, fondamentalmente: capacità di farsi ‘giunco’, piegarsi senza spezzarsi, adeguarsi con flessibilità, elasticità.
Ma attenzione: il problema non è soltanto dell’Europa, anche gli Stati Uniti sono disabituati a sopportazione e guerra. Insomma, è l’Occidente nel suo insieme che non è più capace a ‘pensare‘ la guerra.
A mettere a rischio la capacità di resilienza, in Europa come negli States, è la disabitudine a sopportare il dolore e a ‘pensare’ la guerra, è l’idea stessa di ‘pace’.
Due pensatori, tra gli altri, pongono il problema. Lo fanno contemporaneamente da due tra le più autorevoli testate americane.
Stephen Wertheim, storico, specializzato in politica estera e ordine internazionale degli Stati Uniti dalla fine del XIX secolo ad oggi, e analista della grande strategia americana contemporanea, considerato tra i 50 migliori pensatori del mondo nell’era del Covid-19, co-fondatore e Director of Grand Strategy del think tank Quincy Institute for Responsible Statecraft, e ora Senior Fellow nell’American Statecraft Program presso il Carnegie Endowment for International Peace, dalle colonne del ‘New York Times‘ si chiede: «quanti americani possono davvero immaginare cosa significherebbe una terza guerra mondiale?».
Alexis Carré, analista politico, è 2022-23 Thomas W. Smith Postdoctoral Research Associate del programma James Madison, presso la Princeton University. Nei suoi studi si occupa di guerra e democrazia liberale. Premiato con il Raymond Aron Prize for Research 2021 per la sua ricerca ‘Guerra e diritto: la rifondazione del liberalismo contro la rivoluzione conservatrice in Leo Strauss e Raymond Aron‘, su ‘Foreign Policy‘ denuncia la «mancanza di cultura militare del continente» europeo.
Poche settimane prima che la Russia invadesse l’Ucraina, quando da mesi si preconizzava la guerra, l’European Council on Foreign Relations (ECFR) ha realizzato, attraverso Datapraxis, AnalitiQs e Dynata, un sondaggio dell’opinione pubblica in Finlandia, Francia, Germania, Italia, Polonia, Romania e Svezia. Annotando che il «successo di qualsiasi strategia incentrata sulle sanzioni dipenderà dalla disponibilità degli europei a fare sacrifici economici», la ricerca condotta ha rilevato che «Polonia, Svezia e Romania sono gli unici Paesi esaminati in cui gli intervistati disposti a sostenere tutti i principali oneri della difesa dell’Ucraina (inclusa la minaccia di un’azione militare russa) sono più numerosi di quelli che non lo sono». I «cittadini francesi e tedeschi sono tra i meno disposti a sopportare questi fardelli, suggerendo che ritengono che i rischi di farlo superino i benefici».
Precisano ulteriormente gli analisti del sondaggio: «Solo in Polonia la maggior parte degli intervistati è disposta ad accettare i rischi di una recessione economica, prezzi dell’energia più alti, attacchi informatici, crisi dei rifugiati e aggressione militare russa per difendere l’Ucraina. In Germania, Francia, Italia e Finlandia, una pluralità di intervistati ritiene che non valga la pena farlo se ciò comportasse il rischio di una recessione economica. Sembrano principalmente sostenere sanzioni che danneggeranno la Russia ma non danneggeranno loro».
Annotazione ulteriore: i dati dell’indagine «rivelano anche un divario generazionale». Il quadro è a macchia di leopardo, ma, in sintesi, generalmente si può dire che i giovani sono meno disposti, rispetto a quelli di età superiore ai 60 anni, a che il loro Paese difenda l’Ucraina» se ciò comportasse i rischi che abbiamo detto. Fatti che per la gran parte si sono verificati, si stanno verificando, a partire dalla crisi energetica.
Quella descritta da ECFR è quella che Alexis Carré definisce come incapacità dell’Europa di pensare al conflitto: «Putin sapeva che, nonostante la sua forza materiale, l’Europa era incapace di abbracciare la possibilità di un conflitto aperto». Le motivazioni sono morali e filosofiche.
Il graduale riarmo dell’Europa, accelerato dalla guerra in Ucraina, mostra che i leader (militari e politici)europei sono consapevoli che «i conflitti militari ad alta intensità e persino le guerre più importanti sono una possibilità reale per il continente». E però «hanno commesso l’errore di credere che sarebbe bastata una risposta materiale a quelle minacce». Gli armamenti sono solo un aspetto del problema dell’Europa, e chiaramente non il più importate, infatti, la NATO dispone già di mezzi militari di gran lunga superiori alla Russia, ma le «armi di cui dispone l’Europa non possono diventare una minaccia per nessuno finché le società democratiche del continente non dimostreranno capacità e determinazione a farne uso». E qui sta il problema del quale si occupa Carré, richiamando a supporto l’attualità del pensiero di Raymond Aron, filosofo politico e sociologo francese.
Aron, afferma l’analista, «identificò l’eccessiva avversione al conflitto come un prodotto patologico della moderna politica democratica: “La più grande debolezza delle democrazie è spingere troppo oltre lo spirito di compromesso. Cioè credere che tutto si possa risolvere con un compromesso. Ogni volta che le democrazie si sono confrontate con regimi autoritari, hanno sempre pensato che gli uomini al comando fossero sufficientemente ragionevoli da preferire un buon compromesso a una cattiva guerra”».
Il che fa dire a Carré che le democrazie «spingono troppo oltre lo spirito di compromesso perché tendono a considerare la violenza come il male più grande. La violenza può essere il male più grande solo se il bene primario garantito dalla politica è la conservazione della vita in quanto tale, piuttosto che continuare a vivere in un certo modo che definisce la propria comunità e contrastare le minacce a quel modo di vivere poste dai propri nemici».
Qui entra in scena l’Unione Europea. «L’interpretazione dominante dell’Unione europea concepisce l’azione politica come consistente semplicemente nell’applicazione di norme universali e di imperativi globali. Assistendo all’inizio di questa Europa, Aron ha espresso subito allarme su come la nuova politica dei diritti umani abbia influenzato il rapporto tra disciplina civica e democrazia: “La moralità civica mette al di sopra di ogni altra cosa la sopravvivenza, la sicurezza della comunità. Ma se la morale occidentale è diventata la morale del piacere, della felicità individuale, piuttosto che virtù civiche, allora la sopravvivenza è in dubbio. Se non rimane più nulla dei doveri del cittadino, se gli europei non hanno più la sensazione di dover essere pronti a lottare per conservare l’opportunità di godere dei loro piaceri e della loro felicità, allora, davvero, siamo insieme brillanti e decadenti”».
Specularmente, la «stragrande maggioranza degli americani oggi non è abituata a sopportare le difficoltà per le scelte di politica estera, per non parlare della perdita di vite umane e ricchezza che porterebbe un conflitto diretto con la Cina o la Russia», sostiene Stephen Wertheim.
Il motivo è anagrafico, afferma lo storico: per la gran parte di vita adulta «della maggior parte degli americani di oggi, gli Stati Uniti hanno dominato il mondo, essenzialmente incontrastati e senza controllo. Qualche anno fa era ancora possibile aspettarsi un futuro geopolitico favorevole». All’improvviso ora «gli Stati Uniti affrontano la prospettiva reale di combattere avversari abbastanza forti da causare danni immensi agli americani».
Il post-11settembre è stato occupato dalle così dette ‘guerre per sempre’, ma «una vera guerra di grande potenza sarebbe qualcos’altro, mettendo gli Stati Uniti contro la Russia o persino la Cina, la cui forza economica rivaleggia con quella americana e il cui esercito potrebbe presto farlo. Questa triste realtà è arrivata con sorprendente rapidità. Da febbraio, la guerra in Ucraina ha creato un grave rischio di conflitto USA-Russia. Ha anche portato un’invasione cinese di Taiwan in prima linea nei timori americani e ha aumentato la disponibilità di Washington a rispondere con la forza militare. Si chiama Terza Guerra Mondiale».
Mentre il grande conflitto di potere incombe di nuovo, sottolinea Wertheim,«coloro che hanno assistito all’ultimo stanno scomparendo. Circa l’1% dei veterani statunitensi della seconda guerra mondiale rimane in vita per raccontare le proprie storie. Si stima che entro la fine di questo decennio ne rimarranno meno di 10.000». Il che significa che il giacimento di memoria della guerra si sta esaurendo, e in un momento in cui crea il danno maggiore.
L’Unione Europea, secondo Alexis Carré, ha convinto gli europei sul fatto che fosse in atto e irreversibile un «processo in continua espansione di discussione, produzione e scambio pacifici», «ha fatto sembrare che la pace fosse il risultato inevitabile di una maggiore discussione e di un maggiore scambio». Così gli europei non sono più capaci di concepire che gli uomini possano perseguire «obiettivi incompatibili», né riescono più a«considerare la violenza come un mezzo legittimo per garantire determinati tipi di interessi».
L’idea di ‘conflitto’, secondo Carré, è finita per sembrare, agli europei, «il prodotto di cause accidentali», un fatto determinato, per esempio, dalla «cattiva comunicazione che poteva essere presto superata». «La globalizzazione era l’integrazione europea a caratteri cubitali. I successi politici ed economici della Germania, il Paese più potente d’Europa, sono stati a lungo fondati su questa comprensione della globalizzazione. Questo è uno dei motivi per cui svegliare l’Europa dal suo letargo politico può essere particolarmente difficile». Gli«europei hanno reso la guerra un oggetto impensabile. Ma un oggetto impensabile non cessa necessariamente di esistere». «Gli europei non saranno in grado di capire la guerra, e ancor meno di contrastarla, finché continueranno a vedere gli altri come vedono se stessi».
Dopo due guerre mondiali, l’Europa «ha condannato l’uso della forza -di cui essa stessa, ovviamente, non era più capace- come vestigia di un’altra epoca, quella del nazionalismo e dell’imperialismo. Lo stesso sviluppo economico dell’Europa sembrava dimostrare che la forza militare era inutile e immorale». Il concetto di una economia salvifica ha, secondo l’analista, ulteriormente peggiorato la situazione. L’Europa ha «tratto la conclusione che lo sviluppo economico avrebbe prodotto effetti simili ovunque. Si aggrappava alla speranza che la Cina, la Russia o la Turchia si unissero presto, ciascuna al proprio ritmo, alla comunità delle società liberali e democratiche man mano che le loro economie si integravano maggiormente in un mondo globalizzato».
La disposizione pacifica degli europei (il singolo cittadino) e dell’Unione europea (l’istituzione), ha retto bene fin tanto la protezione fornita dagli Stati Uniti era garantita e stabile. Poi il quadro internazionale è cambiato. Washington ha volto l’attenzione verso la Cina e il Pacifico. Gli «europei devono ora fare i conti con questo nuovo stato di cose».
«Come ci si può aspettare che gli europei ripristinino la fiducia nella propria capacità di sforzo militare e di sacrificio?». Secondo Carré, il passaggio fondamentale sarà la riflessione da parte dell’intera comunità degli europei sul bene comune. Il che significa che i cittadini europei dovranno avere la capacità di andare oltre i «diritti che le persone condividono come esseri umani e sugli interessi che le persone perseguono come individui». «La prima responsabilità delle élite europee è ora quella di descrivere chiaramente ai cittadini del continente la situazione in cui si trovano e le responsabilità che comporta per ognuno di loro, se vogliono preservare la possibilità delle società libere in cui vivono».
Una tale discussione richiede all’Europa di «riformare il modo in cui pensa ai fini della democrazia stessa. Le speranze a lungo termine dei regimi del continente dipendono dal fatto che le persone abbandonino l’umanitarismo egoista che li ha portati fino ad ora a dissimulare la loro riluttanza a governarsi politicamente. La sempre crescente possibilità di guerra dovrebbe ricordare al mondo che la deliberazione collettiva ci dà la possibilità di formulare obblighi politici di nostra creazione. E che il rifiuto di tali obblighi per il bene dei diritti umani sempre più estesi non ci libera dal fardello della politica, ma ci espone inconsapevolmente al rischio di diventare soggetti di una volontà straniera e ostile.»
Stephen Wertheim, guardando gli Stati Uniti parla della necessità di «uno sforzo nazionale di recupero storico e immaginazione, prima di tutto per consentire al popolo americano di considerare se desidera entrare in una grande guerra se arriva il momento della decisione».
Qui ci sono differenze strutturali rispetto all’Europa. La principale è la consapevolezza che vi è stata nei primi anni del dopoguerra dei rischi di un coflitto. «Evitare un conflitto tra grandi potenze non è certo una nuova sfida per gli Stati Uniti. Nel 1945, gli americani avevano vissuto due guerre mondiali. Il Paese era emerso trionfante ma sobrio dalle sue ferite. Anche se le guerre hanno spinto gli Stati Uniti alla leadership mondiale, i leader e i cittadini americani temevano che una terza guerra mondiale potesse essere tanto probabile quanto oggi sembra impensabile. Forse questa è una delle ragioni per cui è stata evitata una catastrofe». La consapevolezza che al tempo c’era e che per quattro decenni ha guidato l’agire dei presidenti americani del dopoguerra che «si sono resi conto che la prossima guerra calda sarebbe stata probabilmente peggiore della precedente. Nell’era nucleare, “saremo un fronte di battaglia”, disse Truman. “Possiamo aspettarci la distruzione qui, proprio come gli altri Paesi durante la seconda guerra mondiale”».
«I leader statunitensi hanno riconosciuto che se gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica si fossero affrontati direttamente, le armi nucleari avrebbero devastato il continente americano. Il terrore nucleare è diventato parte della vita americana, grazie a uno sforzo mirato da parte del governo per preparare il Paese al peggio». Il terrore nucleare ha improntato le decisioni politiche così come la cultura, a partire dalla filmografia. «Lo spettro della guerra su vasta scala ha tenuto sotto controllo le superpotenze della Guerra Fredda». Gli USA hanno condotto la loro politica estera alla luce del terrore nucleare, dalla Corea alla crisi dei missili cubani.
«Ma la memoria non è mai statica. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica e il passaggio delle generazioni, la seconda guerra mondiale fu riformulata come un trionfo morale e non più come un ammonimento». Negli anni ’90 una«nuova generazione, personalmente non toccata dalla grande guerra di potere, ha rimodellato il passato, riverendo i propri anziani, ma semplificandole esperienze spesso varie e dolorose dei veterani».
«In questo contesto, la doppia lezione delle guerre mondiali -chiamare l’America a guidare il mondo ma avvertirla di non esagerare- si è ridotta a un’esortazione risoluta a sostenere e persino espandere il potere americano. I presidenti iniziarono a invocare la seconda guerra mondiale per glorificare la lotta e giustificare il dominio globale americano». Tutti i presidenti, di qualsiasi parte politica, lo hanno fatto.
Così, «perché soffermarsi sugli orrori del conflitto globale in un momento in cui nulla del genere sembrava nemmeno possibile? Con la Russia post-sovietica che vacillava e la Cina povera, non c’erano più grandi potenze da combattere per gli Stati Uniti».
«Non era solo una grande guerra che sembrava superata. Così come la necessità di pagare costi significativi per le scelte di politica estera. Da quando la guerra del Vietnam ha sconvolto la società americana, i leader si sono mossi per isolare il pubblico americano dai danni di qualsiasi conflitto, grande o piccolo: la creazione di una forza di soli volontari ha eliminato la leva; la potenza aerea ha bombardato obiettivi da altezze sicure; l’avvento dei droni ha permesso di uccidere tramite telecomando. La morte di oltre 7.000 membri del servizio nel post-11settembre -e circa quattro volte di più per suicidio- hanno devastato famiglie e comunità, ma non sono state sufficienti a produrre un contraccolpo in stile Vietnam». Le guerre siano costate «l’enorme cifra di 8 trilioni di dollari e oltre, i pagamenti sono stati spalmati su decenni e passati al futuro.
«Non doversi preoccupare degli effetti delle guerre-a meno che non ti arruoli per combatterle- è quasi diventato un diritto di nascita dell’essere americano. Quel diritto di nascita è giunto al termine. Gli Stati Uniti stanno entrando in un’era di intensa rivalità tra grandi potenze che potrebbe degenerare in una guerra convenzionale o nucleare su larga scala. È tempo di pensare alle conseguenze». Da una parte la Russia, dall’altra la Cina.
Una serie di recenti giochi di guerra tenuti da vari think tank, sottolinea Stephen Wertheim, «ci aiuta a immaginare come sarebbe: in primo luogo, una guerra che, probabilmente, durerà a lungo e andranno molte vite. Svariate simulazioni, tasselli che si combinano in modo diverso, ma variasse, «quello che non cambia quasi mai è che è un casino sanguinoso ed entrambe le parti subiscono terribili perdite», riferisce lo storico aver commentato un partecipante a questi giochi. E poi, ci sono le conseguenze economiche, che peseranno sull’opinione pubblica, oltre che sui decisori politici. Una guerra «con la Russia o la Cina probabilmente danneggerebbe gli Stati Uniti su una scala senza precedenti nella memoria vivente della maggior parte dei cittadini». Come reagiranno questi cittadini? Intanto questi cittadini devono essere informati circa la posta in gioco del grande conflitto di potere nell’era nucleare e cibernetica. Poi sarà indispensabile che decisori politici e cittadini si pongano l’interrogativo.
Gwendolyn Sasse, senior fellow del Carnegie Europe e direttrice del Centre for East European and International Studies (ZOiS) di Berlino, è intervenutain queste ore per porre la questione relativa all’idea di una fine negoziata della guerra ucraina.
Necessità di negoziazione che ha acquistato forza soprattutto con il viaggio, scorsa settimana, del Presidente francese Emmanuel Macron a Washington, per l’incontro con Joe Biden. «Macron ha parlato non solo della necessità di negoziati, ma anche di concrete garanzie di sicurezza per la Russia all’interno di un futuro ordine di sicurezza europeo. Macron ha fatto esplicito riferimento all’allargamento verso est della NATO come inaccettabile per la Russia». Questo mentre l’opinione pubblica in alcune parti dell’UE è sempre più contraddittoria: da una parte afferma il sostegno all’Ucraina, anche attraverso l’assistenza militare, dall’altro si esprime in favore di una maggiore diplomazia. Questo dimostra la necessità che nel dibattito pubblico faccia ingresso la discussione sulla questione specifica, ma soprattutto sul tema ‘guerra‘, in Europa come negli Stati Uniti.