60 anni fa: guerra sino-indiana. Come allora, Cina e India, su quello stesso confine che corre tra le montagne himalayane, vivono l’eredità geopolitica di quella guerra. L’Asia meridionale precursore di ciò che potrà essere visto all’interno del sistema internazionale in un futuro decisamente prossimo
1962 – 2022: 60 anni da due eventi che, in questo scampolo di anno, parlano alla geopolitica dei nostri giorni. 16 – 28 ottobre 1962: crisi dei missili di Cuba tra Stati Uniti e Russia; 20 ottobre – 21 novembre 1962: guerra sino-indiana.
Oggi, come 60 anni fa, Stati Uniti e Russia si scontrano in un conflitto, potenzialmente nucleare, questa volta in Europa, nella guerra ucraina, e Cina e India, su quello stesso confine che corre tra le montagne himalayane, vivono l’eredità geopolitica di quella guerra.
Il 21 novembre scorso, ricorrevano i sessantanni anni dalla fine della guerra sino-indiana del 1962. Nei passi di montagna dell’Himalaya, al confine tra India e Cina, il 20 ottobre, l’Esercito popolare di liberazione cinese attaccò le forze indiane sul territorio conteso. Lo scontro durò un mese, fino a quando, il 21 novembre, la Cina, vincitrice su di un esercito indiano in evidente inferiorità, annunciò un cessate il fuoco. Il risultato di quelle quattro settimane di combattimenti in alta quota fu che la Cina mantenne il controllo, controverso, di 38.000 km² della regione dell’Aksai Chin, nel Kashmir, estensione dell’altopiano tibetano.
Come 60 anni fa, sul tetto del mondo, la catena montuosa che separa India, Nepal, Bhutan, Cina, è Pechino la meglio dotata in termini di risorse, che oggi significano non soltanto e non tanto armamenti, quanto piuttosto infrastrutture.
Su queste cime scorre la Line of Actual Control (LAC), la Linea di Controllo Effettivo, ovvero la linea di demarcazione che separa il territorio controllato dall’India da quello controllato dalla Cina. Sulla LAC sono schierati -e lo sono oramai da anni, da almeno le ultime scaramucce, che risalgono al 2020- tra i 50.000 e i 60.000 militari cinesi da una parte, e altrettanti indiani dall’altra.
Su questa linea di demarcazione instabile e al centro delle contestazioni, la Cina sta investendo in una presenza militare a lungo termine, ovvero sta conducendo una delle sue campagne di ‘conquista’, più o meno come quella che sta portando avanti a Taiwan, piuttosto che nel Mar Cinese Meridionale, sta militarizzando, rivendicando il controllo dell’area, la sta occupando de facto. E’ la strategia del ‘fatto compiuto’.
Recentemente sono state diffuse immagini satellitari che non raccontano nulla di nuovo, piuttosto aggiornano lo stato di costruzione di una serie di infrastrutture (strade, ponti, un grande eliporto, un radome, quartier generali, guarnigioni, trincee, depositi di armi, ecc…) che testimoniano l’occupazione cinese. E, secondo gli analisti, l’esercito cinese «si sta preparando a combattere se chiamato a farlo».
Nuova Delhi è in evidente difficoltà, in svantaggio infrastrutturale e militare, è sulla difensiva.
Non ci sono (ancora) segnali di conflitto imminente -per quanto sia cresciuto il rischio di un’escalation militare fosse pure accidentale-, piuttosto il tutto è testimonianza, da una parte, della competizione strategica tra le due potenze regionali, con l’ambizione di Pechino di «inscatolare l’India nell’Asia meridionale e limitarne l’influenza all’interno e all’esterno», dall’altra -e soprattutto- della cultura strategica definita ‘parabèllum‘ della Cina, dell’avanzare della sua convinta assertività su aree che ritiene strategiche nei suoi piani di egemonia dell’area, portati avanti, forte della sua pazienza strategica, lentamente ma inesorabilmente.
E’ opinione diffusa nella comunità dell’intelligence, tra gli analisti, e nelle cancellerie di molte capitali non solo occidentali, che la Cina diventerà sempre più assertiva e bellicosa sul quel confine -come in generale-, soprattutto considerando che l’India mantiene con fermezza le sue posizioni e non è per nulla disponibile anche solo a considerare di accettare il dominio cinese o la sistematica violazione del diritto internazionale da parte di Pechino. Così, si ritiene che l’Asia meridionale sia di fatto «precursore di ciò che potrà essere visto all’interno del sistema internazionale». La Cina, proseguono gli analisti, «non solo sta stabilendo saldamente il suo imprimatur nella regione, ma sta anche cercando il dominio attraverso una varietà di strumenti e la dimostrazione di una notevole pazienza e chiarezza strategica».
«La crisi dei confini incomberà sul processo decisionale dell’India per il prossimo futuro», sostiene Sushant Singh, senior fellow presso il Center for Policy Research in India, esperto di affari strategici e internazionali. Decisori politici e i pianificatori militari indiani saranno chiamati a convivere stabilmente in questo scenario costruito da Pechino, al limite, e per assurdo, «anche se l’attuale crisi dei confini fosse risolta». Altresì, nell’ottica di un confine sino-indiano paradigmatico del posizionamento della Cina nei confronti del sistema internazionale, è la comunità globale nel suo insieme che è chiamata a tenere d’occhio quelle vette.
Così, ripercorrere la storia di questo confine conteso, diventa funzionale per provare immaginare il futuro, fare esercizi di anticipazione per gestire gli accadimenti.
In questo percorso ci facciamo condurre da Amitabh Mattoo, considerato uno dei principali pensatori e scrittori indiani di storia moderna e contemporanea, scienze politiche, relazioni internazionali. Docente presso la Jawaharlal Nehru University e professore onorario di relazioni internazionali presso l’ Università di Melbourne. Mattoo, lo scorso settembre, ha realizzato un saggio, dal titolo ‘How not to deal with a rising China: a perspective from south Asia‘, per ‘International Affairs‘, nel contesto del quale, il conflitto del 1962 viene ripercorso, contestualizzato e interpretato alla luce della situazione odierna.
«Il conflitto di confine sino-indiano affonda le sue radici nel passato coloniale. Nel 1913, gli inglesi convocarono un incontro a Shimla in cui i rappresentanti della Cina, dell’India britannica e del Tibet si riunirono per stabilire i confini. L’accordo successivo alla convenzione fu firmato nel 1914». Si tratta dell’accordo di Shimla, che diede vita alla ‘linea McMahon’, la quale separava il Tibet dall’India nel settore orientale. Accordo al quale i cinesi si opposero il 23 gennaio 1959.
«Il confine sino-indiano di 3.488 chilometri era diviso in tre sezioni. La linea Johnsondefinisce il settore occidentale e segna il confine tra Ladakh e Cina. Il settore centraleè la parte relativamente stabile del confine, l’unica parte per la quale India e Cina si sono scambiate mappe e hanno un ampio accordo. La linea McMohan delinea il settore orientale tra l’Arunachal Pradesh indiano e la Cina. I settori occidentale e orientale sono stati costanti punti di conflitto tra i due Stati. La Cina rivendica come proprie parti del territorio indiano in entrambi i settori e ha rifiutato sia l’Accordo di Shimla che la linea McMohan.
Alla fine degli anni ’50, la Cina iniziò la costruzione di strade attraverso l’Aksai Chin(territorio indiano secondo la linea Johnson) per collegare il Tibet con lo Xinjiang. I canali diplomatici e le visite di alto livello, comprese quelle del premier cinese Zhou Enlai in India, non sono riusciti a risolvere il conflitto di confine». E’ così che si arriva alla guerra sino-indiana del 1962, nel corso della quale la Cina annette Aksai Chin.
Quella guerra ha lasciato in eredità alla Cina e all’India la disputa sul confine, così, a tutt’oggi, la Cina continua a rivendicare lo Stato indiano dell’Arunachal Pradesh, mentre Nuova Delhi rivendica il territorio dell’Aksai Chin controllato dai cinesi.
L’altra eredità di quella guerra, è la questione tibetana. La guerra del 1962 ha segnato il destino della questione tibetana «come eterna fonte di tensione nelle relazioni sino-indiane», sottolinea il ricercatore Ivan Lidarev. «Molto prima della guerra, il Tibet iniziò ad affliggere le relazioni tra Pechino e Delhi quando la Cina accusò», formalmente a partire dal gennaio 1959, con la contestazione –infondata secondo i giuristi– dell’accordo di Shimla, «l’India di tentare di minare il suo dominio in Tibet, mentre l’India accusava la Cina di sopprimere l’autonomia tibetana». Dopo una rivolta popolare, nel 1959, il Dalai Lama -il leader spirituale del Paese- cercò rifugio in India. La «presenza del Dalai Lama in India, che la guerra ha reso de facto irreversibile, è una costante tensione per le relazioni sino-indiane e l’incarnazione dello status irrisolto della questione tibetana», commenta Lidarev. «Per Pechino, il governo del Dalai Lama in esilio a Dharamsala ha rappresentato una sfida costante al suo governo in Tibet. Per Delhi è stato un simbolo del rifiuto di Pechino di concedere una reale autonomia al Tibet. Si è anche rivelata un’arma a doppio taglio per l’India. Mentre ha dato all’India la cosiddetta ‘carta del Tibet’ da giocare contro la Cina, l’ha anche inscatolata, poiché Delhi non può controllare il leader tibetano, né cacciarlo per paura della reazione interna e internazionale. Tutto ciò ha garantito continue tensioni tra i due colossi asiatici.
A livello tattico, le relazioni sino-indiane sono state ostaggio degli eventi in Tibet e dei rapporti tra governo cinese e tibetani. Come l’ha definita C. Raja Mohan, “Quando c’è una relativa tranquillità in Tibet, India e Cina hanno rapporti ragionevolmente buoni. Quando le tensioni sino-tibetane aumentano, il rapporto dell’India con la Cina si dirige a sud”. Tuttavia, poiché tali tensioni riflettono i conflitti etnici all’interno del Tibet, gli scontri tra il clero tibetano e le autorità cinesi locali e la politica del Dalai Lama, sono spesso al di fuori del controllo di Pechino e Delhi. Di conseguenza, le relazioni sino-indiane sono diventate difficili da prevedere e più difficili da gestire in tempi di crisi».
«Negli anni ’80, India e Cina, pur non riuscendo a delimitare il confine, iniziarono negoziati su principi reciprocamente accettabili». Negoziati che hanno prodotto anni di relativa calma, come quelli dal 2003 al 2014, ma che comunque hanno lasciato irrisolte tutte le diatribe.
Nel 2014 , prosegue Amitabh Mattoo, il «governo di Narendra Modi è salito al potere con la promessa di migliorare le relazioni con la Cina. Il vertice informale di Wuhan del 2018 è stato ampiamente visto come un potenziale punto di svolta nelle relazioni tra i due Paesi. Al loro secondo vertice informale, vicino a Chennai, nel 2019, i leader hanno concordato di non lasciare che “le divergenze su qualsiasi questione diventino controversie”. Tuttavia, la buona volontà generata dallo ‘Spirito di Wuhan’ e dal ‘Chennai Connect’ è ormai passata alla storia.
Il primo grande confronto era emerso prima di questi vertici informali, a Doklam, nel 2017. Doklam si trova a un punto di congiunzione tra India, Cina e Bhutan. Il rapporto del Bhutan con l’India è stato tradizionalmente profondo e stretto. Nel giugno 2017, la Cina ha avviato la costruzione di una strada vicino al passo Doklam nella regione di Doklam, che ricade all’interno del territorio bhutanese. L’India sostiene le rivendicazioni del Bhutan sul territorio, mentre la Cina afferma che Doklam fa parte del Tibet. Inoltre, la presenza cinese nella regione minaccia il corridoio indiano di Siliguri, spesso descritto come il ‘collo di pollo’. Per decenni, le tensioni in quest’area sono state gestite attraverso canali diplomatici. Pertanto, l’India (nell’ambito dell’operazione Juniper) ha risposto, il 18 giugno 2017, per impedire qualsiasi nuova costruzione. Sia l’India che la Cina hanno pubblicato rapporti storici per sostenere le loro rivendicazioni sul territorio conteso. Il 28 agosto 2017, dopo settimane di trattative diplomatiche, India e Cina hanno concordato reciprocamente di disimpegnarsi; le truppe furono smobilitate e riportate ai loro posti originali. Una settimana dopo, il primo ministro Modi e il presidente Xi Jinping hanno tenuto lunghe discussioni bilaterali a margine del vertice BRICS tenutosi a Xiamen, in Cina. A quel punto, mentre c’erano dubbi sulla sincerità e la longevità della de-escalation, entrambi gli Stati sono riusciti a salvare la faccia».
Dopo tre anni, la più recente e acuta crisi. «Il 15 giugno 2020, al culmine della pandemia di COVID-19, India e Cina si sono scontrate -in maniera quasi medievale, con mazze e pietre- nella valle di Galwan nel settore occidentale,subendo la perdita di diversi militari da entrambe le parti. La situazione di stallo era iniziata a maggio, con la Cina che mobilitava truppe vicino alla valle di Galwan e al lago Pangong Tso. Questa era apparentemente una reazione alla costruzione di strade in India, vicino alla Linea di controllo effettivo, ma era chiaramente in mostra una nuova assertività cinese. A Naku La in Sikkim, infatti, era scoppiata una colluttazione all’inizio di maggio, che aveva portato al primo scontro violento tra le due Nazioni dal 1975.
Da allora, si sono svolti una serie di colloqui diplomatici e militari in vista di un reciproco disimpegno in questo settore, ma l’intransigenza cinese ha impedito ogni possibilità di sfondamento. Tuttavia, sul fronte interno, le passioni nazionali sono state alimentate e le relazioni a livello popolare sono precipitate a un nuovo punto più basso. Il governo indiano ha anche imposto il divieto di una serie di applicazioni web cinesi, inclusa la piattaforma di condivisione video TikTok.
Gli sforzi militari e diplomatici hanno portato ad un graduale allentamento delle tensioni. Le truppe indiane e cinesi hanno iniziato il disimpegno sincronizzato dalle coste settentrionali e meridionali di Pangong Tso nel febbraio 2021.Tuttavia, la situazione non è tornata allo status quo precedente allo scontro ed è improbabile che lo faccia».
«I governi cinese e indiano sono stati molto sensibili alla questione dell’Arunachal Pradesh nel settore orientale. La Cina rivendica l’intero Stato indiano dell’Arunachal Pradesh, con un interesse primario nel distretto di Tawang, che è direttamente radicato nel revisionismo cinese sull’accordo di Shimla e sulla linea McMohan. Il controllo su questo distretto fornirebbe alla Cina l’accesso agli Stati nord-orientali dell’India, che sono attualmente protetti dall’Arunachal Pradesh. Inoltre, Tawang, ospita il secondo monastero buddista tibetano più grande del mondo, il Tawang Ganden Namgyal Lhatse. Il Dalai Lama, dopo essere fuggito dal Tibet attraverso Tawang, ha trascorso del tempo in questo monastero nel 1959. La Cina si è costantemente opposta alle visite di dignitari di alto rango, in particolare il Dalai Lama, in Arunachal Pradesh. A differenza del Ladakh, dove la sua strategia può mirare all’acquisizione di piccoli territori disabitati, nell’Arunachal la Cina ha costruitovillaggi».
L’uccisione di soldati e la cattura di piccoli pezzi di territorio è vista come una forma di conquista cinese molto contemporanea: la Cina annetterà piccoli territori a basso costo e «senza provocare l’India nella misura in cui che potrebbe condurre ad una guerra a tutti gli effetti», afferma Mattoo.
«L’India sta certamente cercando di diversificare e approfondire il suo impegno con Paesi che la pensano allo stesso modo sia all’interno che all’esterno della regione indo-pacifica. Mentre India, Australia, Giappone e Stati Uniti hanno rafforzato il loro coinvolgimento nella rete Quad e Blue Dot (che mira a fornire progetti di sviluppo di infrastrutture di qualità che siano, tra l’altro , aperti e inclusivi, trasparenti, economicamente sostenibili e allineati con Accordo di Parigi 90 ), anche l’India e la Francia stanno rafforzando la loro cooperazione marittima attraverso piattaforme come la Commissione dell’Oceano Indiano».
Rush Doshi, direttore fondatore della Brookings China Strategy Initiative e membro della Brookings Foreign Policy, «definisce il periodo 2008-16 come quello della ‘seconda strategia di sfollamento‘ della Cina. Durante quegli anni, la Cina iniziò a smussare l’influenza degli Stati Uniti nella sua regione e a stabilire la propria egemonia. La grande strategia cinese si è basata sull’‘equilibrio di potere internazionale‘, un equilibrio che si stava spostando a seguito della crisi finanziaria globale del 2008. Questo spostamento si riflette nel modello mutevole della spesa militare della Cina, dalle capacità di negazione del mare al controllo del mare e alle capacità anfibie. In termini economici, la Cina ha lanciato “una politica economica offensiva che avrebbe consentito alla Cina di costruire le proprie capacità economiche coercitive e consensuali sugli altri”, insieme a una strategia politica per sviluppare le proprie istituzioni alternative. La BRI e l’Asian Infrastructure Investment Bank guidano questo cambiamento di politica. Gli investimenti infrastrutturali e la diplomazia economica della Cina non sono motivati da interessi puramente economici, ma con l’obiettivo di sviluppare una ‘leva economica’, che potrebbe alterare i modelli di interdipendenza tra gli Stati, influenzare la loro politica interna e modellare il quadro delle attività economiche globali. Allo stesso modo, Mahendra Lama descrive l’approccio della Cina nell’Asia meridionale come una ‘politica avanzata’ guidata da un triplice approccio basato sul “fare l’ingresso locale attraverso punti di ingresso strategici, coinvolgere il Paese vicino a livello nazionale nei settori economici fondamentali e in altri settori, e collaborare a livello regionale con le organizzazioni regionali”.
L’attenzione del Presidente Xi Jinping al‘ringiovanimento nazionale‘ e a una ‘comunità di comune destino‘ nei suoi recenti discorsi allude a una Cina assertiva, che cerca di alterare l’attuale paradigma della politica internazionale, a partire dalla sua periferia.
Ci sono anche preoccupazioni che, man mano che la Cina cresce al potere, il suo principio della politica di una sola Cina si espanderà al punto in cui i territori ‘contesi‘ vengono rivendicati in modo aggressivo. Le regolari scaramucce tra India e Cina, a partire dalla crisi di Doklam del 2017, riflettono questa realtà mutevole. Mentre entrambi i Paesi hanno messo in atto diversi meccanismi per negoziare e discutere questioni di confine, tra cui una serie di misure di rafforzamento della fiducia, gli insediamenti vicino all’Arunachal Pradesh, la situazione di stallo a Doklam e il confronto nella valle di Galwan testimoniano tutti un cambiamento nel tattiche della Cina».
Amitabh Mattoo conferma: «l’Asia meridionale fornisce un precursore di ciò che può essere visto all’interno del sistema internazionale». La Cina «non solo sta stabilendo saldamente il suo imprimatur nella regione, ma sta anchecercando il dominio attraverso una varietà di strumenti e la dimostrazione di una notevole pazienza e chiarezza strategica». «La Cina èsempre più riluttante a tollerare uno sfidante regionale, specialmente uno che ha aspirazioni extraregionali o sta stabilendo uno stretto rapporto con il suo rivale globale: gli Stati Uniti. La Cina diventerà sempre più assertiva e bellicosa poiché l’India rimane riluttante ad accettare il dominio cinese o ad accettare la sua sistematica violazione di importanti norme internazionali. Una strategia che cerca di rafforzare un’India democratica, militarmentee diplomaticamente, può offrire la possibilità di preservare la stabilità e rafforzare le norme internazionali nell’Asia meridionale e oltre. C’è anche la necessità di fornire un’alternativa all’assistenza cinese e, imparando da loro, impegnarsi con coerenza. Ancora più importante, lo sviluppo di una risposta coerente alla Cina richiede pazienza e impegno strategici».