“La COP27 avrà probabilmente successo nell’affrontare alcuni obiettivi di adattamento e ripristino ecologico, mentre molto probabilmente potrebbe esserci un ritardo negli accordi di riduzione delle emissioni più contrastanti”. Intervista a Miguel Angel de Zavala (Universidad de Alcalá)

 

Non ha usato mezzi termini il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, in un margine con la stampa alla vigilia della COP27, la Conferenza internazionale sul clima che da oggi fino al 18 novembre si terrà a Sharm el-Sheikh in Egitto: “La COP27 deve essere il luogo in cui ricostruire la fiducia e ristabilire l’ambizione necessaria per evitare di condurre il nostro pianeta oltre il precipizio climatico. Tutti i report delineano un quadro chiaro e preoccupante. Le emissioni continuano a crescere a livelli record. Invece di scendere del 45% entro il 2030, le emissioni di gas serra aumenteranno del 10%. Le temperature aumenteranno di ben 2,8 gradi entro la fine del secolo”.

Secondo i rapporti dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) per mantenere il riscaldamento globale al di sotto di 1,5°C, il mondo dovrebbe ridurre le proprie emissioni del 43%,rispetto al 2019, anno in cui le emissioni globali di origine antropica sono state 52,6 miliardi di tonnellate equivalente di CO2 (GtCO2eq). Se si volesse restare al di sotto dell’aumento di 2°C, soglia oltre la quale i cambiamenti del clima avrebbero conseguenze catastrofiche su società ed ecosistemi, le emissioni globali al 2030 andrebbero ridotte del 27%.

“La COP27 di Sharm el-Sheikh deve salvaguardare gli obiettivi sul clima fissati alla COP26 di Glasgow. Già questo sarebbe un successo, perché al G20 abbiamo visto una forte propensione a fare marcia indietro” ha messo in chiaro l’inviato italiano per il clima, Alessandro Modiano. Riecheggiano ancora le parole conclusive del presidente della conferenza per il clima di Glasgow, Alok Sharma: “Il grado e mezzo è vivo, ma il suo battito è flebile”. In quell’occasione, l’obiettivo principale riguardava le emissioni, e in particolare un accordo che consentisse di contenere l’aumento delle temperature globali medie sotto gli 1,5 °C rispetto ai livelli pre-industriali, soglia da non superare per non incorrere in effetti avversi per l’umanità. Ma a Glasgow non fu possibile trovare un accordo definitivo, e oggi alla COP egiziana l’obiettivo è diventato contenere l’aumento delle temperature entro 2 °C rispetto ai livelli pre-industriali, e «lavorare sodo per mantenere vivo l’obiettivo» degli 1,5 °C.

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Va ricordato che, nel concreto, il Patto Climatico di Glasgow comprendeva un serio impegno nella riduzione delle emissioni di metano, nella diminuzione progressiva dell’uso del carbone oltre che nella lotta alla deforestazione era sembrato un compromesso a ribasso, ma comunque promettente. Gli Stati si impegnavano inoltre nell’aggiornamento delle Nationally Determined Conditions (NCDs), ossia del documento in cui ciascun Paese mettere nero su bianco un piano – che si impegna ad attuare – per diminuire le proprie emissioni nazionali inquinanti. Di 193 Paesi, solo 24hanno trasmesso una nuova versionedelle proprie NDCs dopo la conferenza di Glasgow. Rispetto a ottobre 2021, alla vigilia della COP27 solo 39Paesi hanno consegnato versioni aggiornate dei documenti. Non solo, le nuove versioni non sono minimamente sufficientiper raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni stabiliti nel 2015 dagli accordi di Parigi.

Stando al documento di sintesi preparato per la discussione alla COP27 dall’UNFCCC (la convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici), sulla base dei documenti presentati, se anche tutti i Paesi realizzassero tutti gli impegni sottoscritti nelle NDCs, l’impatto sarebbe, al massimo, di una riduzione delle emissioni del 3,6%entro il 2030. Le previsioni più pessimistiche prevedono emissioni quasi inalterate, 0,3% in meno rispetto ai livelli del 2019 al massimo. ‘Meglio di niente’ verrebbe da dire, eppure – si legge nel report – “nonostante qualche progresso rispetto alle versioni precedenti di questo rapporto, le informazioni qui contenute implicano con urgente necessità o un aumento significativo del livello di ambizione delle NDCs da qui al 2030 o un significativo superamento degli obiettivi delle NDCs, o una combinazione delle due cose. (…) Se le emissioni non saranno ridotte entro il 2030, dovranno ancora più sostanzialmente venir ridotte più avanti”.

‘Se non ora quando’ è l’obiezione immediata se si considera che, per la fine del secolo, ci si attende un innalzamento dellatemperatura del pianeta di 2,5°C, in un intervallo che va da 2,1°C a 2,9°C, ben oltre le stime degli accordi di Parigi. A confermarlo, un rapporto del Programma Ambientale dell’Onu (UNEP), dal titolo ‘La finestra che si sta chiudendo’ che certifica come le politiche attualmente in corso porteranno a 58 GtCO2eq le emissioni annue nel 2030, mentre la realizzazione degli impegni finora presentati porterà a una riduzione che sarà di 3 o 6 GtCO2eq. Così mancherebbero ancora 15 GtCO2eq per avere una probabilità del 66% di mantenere il riscaldamento globale al di sotto dei 2°Ce 23GtCO2eq per stare al di sotto di 1,5°C. Se le cose rimarranno come sono adesso la temperatura del pianeta salirà di 2,8°CSe si farà una parte o tutto quello che ad oggi si promette di fare il riscaldamento globale a fine secolo sarà comunque cresciuto di 2,6°Co 2,4°C rispetto all’era preindustriale. In pratica, sarà quasi impossibile contenere le temperature entro i +1,5°C e senza una inversione di rotta con le politiche attuali a fine secolo ci sarà un aumento della temperatura di 2,8°C. Ma se anche le temperature dovessero salire da 1,7 a 1,8°C al di sopra dei livelli del 1850, metà della popolazione mondiale così come la biodiversità potrebbero essere esposte a livelli di calore e umidità pericolosi per la vita.

Ecco perché è importante l’analisi delle strategie a lungo termine dei diversi Paesi. L’UNFCC – in un altro rapporto– approfondisce quelle di 62 Paesi che rappresentano il 47% della popolaIone globale, l’83% del PIL globale e il 69% dell’energia che viene consumata ogni anno. Il rapporto indica che le emissioni di questi Paesi potrebbero diminuireentro il 2050 di circa il 68rispetto ai livelli del 2019. Per quanto questa possa sembrare una buona notizia, viene anche sottolineato che molti di questi obiettivi rimangono incertiperché dipendono da decisioniche dovrebbero venire prese entro il 2030 e che finora non sono state prese.

Nell’ottica della mitigazione, Modiano è convinto che “la COP27 sarà di transizione rispetto a quella dello scorso anno” quando sono stati fissati i target di mitigazione che “ora occorre mantenere”. Un obiettivo, quest’ultimo, “per noi acquisito anche se, in realtà, in ambito G20 è stato rimesso in discussione. L’Italia e l’Ue sono ferme su questo punto e sul fatto che vi siano allineate tutte le politiche e anche gli Ndc”, anche perché al centro del tavolo europeo resta il pacchetto ‘Fit for 55’ per il taglio delle emissioni del 55% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990. Al di fuori dell’Europa – evidenza Modiano – “le discussioni sono ancora in corso e c’era l’intenzione di puntare a qualche risultato prima o durante la COP27”.

La crisi ucraina ha causato una crisi energetica che molti temono possa rallentare gli sforzi della decarbonizzazione e la lotta alle emissioni, e, come noto, una transizione vera e propria non avviene dall’oggi al domani. In caso di emergenza, si è visto addirittura fare passi indietro (seppur momentanei) come dimostra il caso della Germania. Il punto nodale sarà distinguere il breve dal lungo termine, come afferma Modiano: “Nel breve periodo, dato che la stessa Ue è stata costretta ad adottare decisioni non perfettamente in linea con gli obiettivi, ma ha anche sottolineato ai massimi livelli che ciò non implica un discostamento dalla traiettoria seguita in termini di contrasto al cambiamento climatico”.

Gli sforzi maggiori non possono, tuttavia,  ricadere sulle spalle dei Paesi più poveri e soprattutto sulla loro capacità di transizione: “Quando parliamo di paesi in via di sviluppo e in particolare dei più vulnerabili, dobbiamo però essere pronti a utilizzare strumenti che non possiamo utilizzare con chi è in grado, invece, di affrontare un processo di decarbonizazione”.

Nel mezzo, tuttavia, quei Paesi che, pur emettendo meno CO2, rischiano di essere i più vulnerabili alla crisi climatica e che si battonoper ricevere finanziamenti da 100 miliardi l’anno dai Paesi più sviluppati. Trattasi del ‘loss and damage’, dossier, quest’anno, ancor più spinoso dato che l’evento si terrà in Africa, uno dei continenti più poveri e più colpiti dall’emergenza climatica. “Immagino che in Egitto si potranno fare passi avanti su questo fronte, considerando anche le pressioni internazionali” ha detto Alessandro Modiano, l’inviato italiano per il clima.

All’interno del più ampio capitolo dell’’adattamento’, a Glasgow, la COP26 aveva iniziato un complesso negoziato affinché i Paesi più ricchi (e spesso rei delle più elevate emissioni inquinanti) si impegnassero in aiuti economici concreti per la ricostruzione e il sostegno a paesi che affrontano catastrofi climatiche, dagli eventi meteo intensi alla siccità. Su questo passaggio spingono chiaramente centinaia di Paesi in via di sviluppo, ma resta complessa la questione dell’identificazione e quantificazione dei danni e dei collegamenti relativi alla crisi del clima. E, oltre tutto, quale forma dovrebbe prendere questo risarcimento, se uno strumento finanziario o un fondo internazionale. A questo riguardo, COP27 potrebbe essere l’occasione per conoscere più a fondo il Fondo italiano per il clima che destina 840 milioni di euro all’anno per i prossimi cinque anni, di cui 40 a fondo perduto. “È il nostro contributo al fondo da 100 miliardi all’anno per aiutare i paesi in via di sviluppo a decarbonizzare previsto nell’Accordo di Parigi. I decreti attuativi sono alla Corte dei Conti, contiamo di cominciare utilizzarlo nelle prossime settimane”, ha ribadito Modiano.

La linea di tendenza esposta a COP27 sarà importante anche per gli investimenti (anche esteri) per esempio su fonti come il gas naturale. A Glasgow, diversi Paesi, Italia compresa, hanno sottoscritto l’impegno ad interrompere gli investimenti pubblici internazionali in progetti per l’estrazione e la produzione di combustibili fossili entro la fine del 2022. Dieci Paesi (Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Paesi Bassi, Spagna, Svezia, Gran Bretagna e anche Italia) del gruppo ‘Export Finance for Future’, hanno preparato una dichiarazione congiunta per chiedere di fermare i finanziamenti a progetti fossili in Paesi terzi. L’Italia, però, avrebbe anche chiesto di rendere meno stringenti i limiti per i prestiti che vengono erogati dalle agenzie per le assicurazioni all’export, come l’italiana Sace.

Nell’ambito dell’adattamento, scelte cruciali sono attese anche per affrontare i rischi anche dal punto di vista sociale e della salute: siccità, incendi non mancano di avere effetti sulla la sicurezza alimentare ed idrica delle popolazioni colpite.

“Il nostro pianeta è sulla buona strada per raggiungere punti di svolta che renderanno il caos climatico irreversibile”, ha ammonito Guterres, sottolineando che “è tempo di un patto storico tra economie sviluppate ed emergenti” in cui “le prime mantengano l’impegno preso a Parigi e compiano uno sforzo aggiuntivo per ridurre le emissioni in linea con l’obiettivo di 1,5 gradi”. L’alternativa è la catastrofe climatica resa ancor più pericolosa da un panorama geopolitico sempre più teso, dalla guerra in Ucraina, alla conseguente crisi energetica, alimentare ed economica fino alla sotterranea, ma sempre più evidente spaccatura del mondo, anche nell’ottica di uno scontro più a lungo termine tra l’Occidente e un fronte ‘autocratico’ sempre meno collaborativo. Cina e India, peraltro, non parteciperanno.

Cosa attendersi, allora, da COP27? Lo abbiamo chiesto a Miguel Angel de Zavala, Professore di Ecologia dell’Universidad de Alcalá.

 

Professor de Zavala, il grido di allarme del Segretario generale ONU Antonio Guterres prima della COP27 è stato forte: “Il pianeta è sulla buona strada per un caos climatico irreversibile”. Molti osservatori sostengono che la strada per arrivare ad un accordo sia in salita. Cosa aspettarsi, dunque, dalla COP27?

Sarà interessante vedere se il “mantenere in vita 1,5°C” della COP26 regge o se, in alternativa, le aspettative vengono attenuate o definitivamente abbandonate. In caso contrario, mantenere questo obiettivo richiede obiettivi annuali responsabili per ciascun Paese.

Un report diffuso dall’Unep e chiamato The Closing Window relativo alle emissioni sostiene che siamo lontanissimi dagli accordi di Parigi, sarà quasi impossibile contenere le temperature entro i +1,5°C e senza una inversione di rotta con le politiche attuali a fine secolo ci sarà un aumento della temperatura di 2,8°C. Ci sarà la riconferma degli impegni presi a Glasgow, sia nella decarbonizzazione sia nella lotta alle emissioni?

La COP 27 sarà un test per gli accordi e le prestazioni della COP26 per ciascun paese e ulteriori riduzioni specifiche delle emissioni sono improbabili e non sarebbero credibili. Più probabilmente ci sarà un focus sull’adattamento con accordi su soluzioni per affrontare i rischi climatici e aumentare la resilienza. C’è molto spazio per progredire a questo scopo; ad esempio, rendendo accessibili sistemi di allerta climatica in tutto il mondo attraverso sistemi di allerta precoce entro i prossimi cinque anni e promuovendo soluzioni naturali legate al ripristino dell’ecosistema.

Cosa si deciderà per i fondi per l’adattamento, quei 100 miliardi all’anno che si sarebbero dovuti mobilitare già nel 2020 e quello per le perdite e i danni (loss&damage)?

Questa COP27 dovrebbe indicare l’ingiustizia climatica come un tema chiave e una grande opportunità per lo sviluppo sostenibile nelle regioni svantaggiate. È anche una grande opportunità di investimento ed espansione per i paesi e le società più compromessi con la transizione ambientale e la decarbonizzazione. In pratica questo significa acquisire influenza anche su queste regioni, cosa fondamentale dal punto di vista geostrategico. Quindi, in teoria c’è spazio per soluzioni e accordi vantaggiosi per tutti.

C’è rischio greenwashing?

Il concetto di ecologia si è notevolmente degradato rispetto alla sua originaria definizione scientifica sia per la strumentalizzazione di ideologie diverse che per interessi economici disparati. È assolutamente necessaria una scienza rigorosa indipendente per avere una solida comprensione della vulnerabilità, quindi le politiche sono adattate a uno schema credibile costi-benefici. Questi costi e benefici devono integrare variabili biofisiche e sociali come i rischi per la salute emergenti e gli impatti sui servizi ecosistemici diversi dalla regolamentazione del carbonio (es. ciclo dell’azoto o dell’acqua) o gli interessi di benessere delle comunità locali. Progettare politiche globali e locali solo in termini di teoria economica è diventato sia scientifico che eticamente obsoleto.

Antonino Guterres ha dichiarato: “La guerra in Ucraina sta mettendo l’azione climatica nel dimenticatoio”. Sei d’accordo? Quale impatto ha avuto e avrà il conflitto in Ucraina su COP27? C’è maggiore consapevolezza delle necessità (anche strategica) di ridurre la dipendenza dai combustibili fossili?

In uno scenario di “Tragedy of Commons”, il fatto che un attore esegua una strategia di “ordine dalla forza” (ad esempio una guerra industriale) è sicuramente una cattiva notizia. Fondamentalmente, mostra che può ottenere un guadagno maggiore (es. aumento della crescita economica o nuovi territori) senza incorrere nei costi (riduzione delle emissioni). Questo indebolisce qualsiasi motivazione per raggiungere il consenso per gli altri giocatori. Questa situazione costringe anche i paesi dell’UE a muoversi verso misure di mitigazione più conservative, ad esempio abbassando gli standard della tassonomia verde che ha un forte impatto sull’esemplarità e sulla leadership dell’UE nella transizione verde. Ma paradossalmente, questo effetto potrebbe invertire a lungo termine perché sono diventati evidenti i rischi di dipendenza energetica e quindi può essere una spinta per la transizione verso energie pulite alternative.

“Vogliamo che tutti vengano” alla COP27 “con uno spirito differente. I tempi sono cambiati, le emergenze diventano sempre più evidenti. Non possiamo più permetterci di perdere tempo. Tutti devono essere all’altezza del momento e devono abbandonare l’approccio da nemici e da ‘vincitore che piglia tutto’ che ha dominato questo processo troppo a lungo. Bisogna che l’equità e la giustizia climatica siano diffuse nel mondo. E questa è la miglior garanzia che questo processo sopravviva e consegua risultati”, ha detto il rappresentante speciale egiziano alla COP27 di Sharm el-Sheikh, Wael Aboulmagd. In un mondo che sembra avviarsi ad una nuova ‘guerra fredda’, le tensioni tra l’Occidente e il fronte guidato da Russia e Cina (che non parteciperà così come l’India) rischiano di bloccare la cooperazione internazionale in tema ambientale?

La Cina può svolgere un ruolo importante nella transizione ecologica a causa degli elevati costi ambientali locali della loro rapida crescita e della loro dipendenza dall’energia fossile. Ha anche importanti interessi nel continente africano. In teoria la cooperazione internazionale sulle questioni ambientali può creare molti scenari “win-win” per l’attività economica tra i principali attori. Resta da vedere se altre dimensioni strategiche (es. risorse militari o naturali) tra Stati Uniti, Russia e Cina pesino maggiormente nella bilancia.

A Glasgow, diversi Paesi hanno sottoscritto l’impegno ad interrompere gli investimenti pubblici internazionali in progetti per l’estrazione e la produzione di combustibili fossili entro la fine del 2022. Dieci Paesi del gruppo ‘Export Finance for Future’, stanno preparando una dichiarazione congiunta per chiedere di fermare i finanziamenti a progetti fossili in Paesi terzi. La crisi economica, la recessione, l’inflazione mineranno e faranno fare passi indietro Stati, investitori e imprese negli investimenti green e su ESG?

Questo sarà probabilmente un processo a lungo termine perché i Paesi che hanno o hanno accesso alle energie fossili non saranno entusiasti di questo tipo di accordi e richiederanno una proroga. Eppure nel lungo periodo è una tendenza inevitabile a causa della scarsità di risorse e dell’aumento dei costi di estrazione (oltre agli impatti ambientali).

Greta Thumberg ha annunciato che non parteciperà a COP27. Non sono mancate, inoltre, le polemiche per alcuni sponsor dell’evento (ad esempio, Coca Cola) e le proteste per i diritti umani non rispettati in Egitto. Come consideri queste reazioni negative?

Probabilmente porteranno più attenzione sull’evento e sulla propria agenda, che è probabilmente l’obiettivo.

A COP27, farà il suo debutto internazionale la nuova Premier italiana, Giorgia Meloni, che ha dichiarato di voler trasformare la crisi energetica in un’opportunità di sviluppo, rendendo il Belpaese un “hub energetico europeo”. Intanto, però, il suo governo dà l’ok alle trivellazioni nel Mar Adriatico. Quale sarà l’impatto di Meloni a COP27? E come valuti la presentazione italiana di un Fondo per il clima da 840 milioni all’anno per 5 anni, 800 dei quali concessionali, gli altri a fondo perduto?

Tra le altre dimensioni, sarà una prova di quanto il nuovo governo sia allineato alle politiche dell’UE. È anche un rafforzamento degli sforzi dei singoli Stati per ottenere influenza internazionale.

In che modo le elezioni di midterm potrebbero cambiare le politiche USA in tema di ambiente?

Certamente le elezioni di medio termine possono fungere da referendum sulla performance del presidente in carica e del partito in carica che storicamente tendono a perdere terreno. Se questa perdita fosse troppo elevata, potrebbe implicare una pressione aggiuntiva per le politiche ambientali USA di Biden più (localmente) controverse.

È più ottimista per la COP27 in Egitto o per la COP28 a Dubai? Perché?

La COP27 avrà probabilmente successo nell’affrontare alcuni obiettivi di adattamento e ripristino ecologico, mentre molto probabilmente potrebbe esserci un ritardo negli accordi di riduzione delle emissioni più contrastanti. Se l’evoluzione della guerra in Ucraina e le emergenti tensioni geostrategiche si fossero significativamente allentate, la COP28 sarebbe un lasso di tempo migliore per affrontare questi problemi contrastanti. Altrimenti, ci sarebbe probabilmente una progressione molto lenta su questioni significative.