E’ prematuro valutare se queste proteste contro l’obbligo, per le donne, di indossare l’hijab, cambieranno significativamente la politica iraniana, ma potrebbero farlo, perchè la generazione che è in strada non vuole solo abolire questa legge, bensì sta mettendo in discussione il regime; è il regime che vuole cambiare

Dopo che da circa 10 giorni l’Iran è sconvolto da proteste antigovernative, tra gli osservatori internazionali c’è chi parla di rischio caduta per il regime iraniano.

L’Iran non è nuovo a manifestazioni di questo genere, ma quelle in corso non sono le ‘solite manifestazioni‘. Queste proteste, afferma Sajjad Safaei, ricercatore presso l’Istituto Max Planck di Antropologia Sociale in Germania, «segnano un cambiamento significativo: è la prima volta dalla Rivoluzione islamica del 1979 che un ampio spettro di partiti e organizzazioni della società civile hanno apertamente chiesto la fine delle leggi obbligatorie sull’hijab e delle pattuglie di polizia che fanno rispettare tali leggi. Il problema ha anche suscitato reazioni da una gamma molto ampia di personalità politiche e religiose di spicco, celebrità e atleti». Si, perchè, come afferma Alex Vatanka, direttore del Programma Iran e ricercatore presso l’Iniziativa Frontier Europe presso il Middle East Institute, a differenza di qualsiasi altro momento dal 1979 in poi, una generazione di giovani iraniani, «si sta ora mobilitando intorno all’opposizione alle regole obbligatorie dell’hijab non solo per sfidare questa unica legge, ma l’intero dogma socio-religioso draconiano della Repubblica islamica e fino a che punto si spinge per imporre i suoi valori alla società». Conferma Sajjad Safaei: i manifestanti, oltre a protestare contro il velo obbligatorio, «stanno anche incanalando altre lamentele represse nei confronti delle élite dominanti iraniane, come la cattiva gestione di un’economia che vacilla sotto le sanzioni statunitensi, una crisi di legittimità politica esacerbata dalla legittimità imperfetta delle elezioni presidenziali del giugno 2021 e dal crescente soffocamento delle libertà civili». I manifestanti non chiedono solo giustizia per Mahsa Amini. Chiedono anche i diritti delle donne, i loro diritti civili e umani, per una vita senza una dittatura religiosa.

Certo, sono molti a non escludere che anche questa volta la mobilitazione popolare venga soffocata nel sangue, in linea con quanto è sempre accaduto e con i metodi abituali del regime, e che la transizione dell’Iran dalla teocrazia alla democrazia sia ancora lontana da venire, ma di certo questa rivolta, se anche venisse repressa con successo -e lo sarebbe solo per un breve lasso di tempo-,lascerà il segno, i manifestanti, infatti, «hanno già raggiunto ciò che sarebbe stato impensabile non molto tempo fa. D’ora in poi, sarà più costoso per il governo iraniano punire le donne per qualcosa che la stragrande maggioranza degli iraniani non considera un reato». Ed è qui che la frattura tra il regime e la popolazione pone le basi perchè nell’azione del regime nulla sia più come prima.
Intanto, i circoli più intransigenti degli Stati Unitisostengono che «la morte di Amini, e la risposta della società iraniana ad essa, dovrebbero alterare in modo permanente il modo in cui il mondo esterno interagisce con i funzionari iraniani».
Ai più appare prematuro valutare se queste proteste cambieranno significativamente la politica iraniana.

Andiamo per ordine. Le manifestazioni sono iniziate sabato 17 settembre, scatenate dalla morte, il giorno prima, della 22enne Mahsa Amini, deceduta in ospedale tre giorni dopo essere stata arrestata dalla polizia della moralità(‘gashte ershad’), a Teheran, e portata in un‘centro di rieducazione‘ per non aver rispettato le regole dell’hijab dello Stato: una ciocca di capelli usciva dal velo, la ragazza non se ne era accorta. Afghanistan post 15 agosto 2021 a parte, l’Iran è oggi l’unico Paese al mondo in cui esiste una legge sull’uso obbligatorio dell’hijab.
Dal giorno dei funerali di Mahsa, le grida di ‘Donna, Vita, Libertà’ sono risuonate in tutto l’Iran, nelle strade affollate da giovani -donne, tantissime, ma anche tanti uomini- in protesta.

Il ‘caso Amini‘, non è un incidente isolato, bensì è la punta visibile di un iceberg di ingiustizia,umiliazione e oppressione abitualmente sentita da innumerevoli donne iraniane «intercettate dalla polizia di moralità (o pattuglie di orientamento)incaricata di far rispettare l’articolo 638 del codice penale islamico: rifiutarsi di conformarsi alla concezione statale di ‘hijab islamico‘ negli spazi pubblici è un reato punibile con fustigazione,incarcerazione o multa».
La storia di Amini ha riportato alla ribalta l’apparato disciplinare iraniano, dove la polizia morale è una forza dell’ordine con accesso al potere, alle armie ai centri di detenzione, e hanno il controllo dei‘centri di rieducazione‘ introdotti di recente.
I centri, spiegano gli osservatori, si comportano come strutture di detenzione, dove le donne -in qualche caso anche uomini- vivono la carcerazione per non aver rispettato le norme statali sulla modestia. All’interno delle strutture, alle detenute vengono impartite lezioni sull’Islam e sull’importanza dell’hijab, e quindi costrette a firmare l’impegno di rispettare le norme statali sull’abbigliamento prima di essere rilasciate.
Il primo di questi stabilimenti è stato aperto nel 2019, ha affermato Hadi Ghaemi, direttore esecutivo del Center for Human Rights in Iran con sede a New York, aggiungendo che «dalla loro creazione, che non ha alcuna base in alcuna legge, gli agenti di questi centri hanno arbitrariamente arrestato innumerevoli donne con la scusa di non rispettare l’hijab forzato dello Stato». Le donne «vengonoquindi trattate come criminali, ammonite per il loro reato, fotografate e costrette a seguire un corso su come indossare un vero e proprio hijab e la moralità islamica», ha aggiunto Ghaemi.

L’Iran aveva dettato alle donne come dovevano vestirsi molto prima dell’istituzione dell’attuale Repubblica islamica. Nel 1936, il sovrano filo-occidentale Reza Shah vietò l’uso del velo nel tentativo di modernizzare il Paese. Molte donne hanno resistito. Quindi, il regime islamico, che ha rovesciato la dinastia Pahlavi dello Scià, ha reso obbligatorio l’hjiab nel 1979, la norma è diventata legge solo nel 1983. Contestualmente è stata istituita una task force con tutti i poteri di un’agenzia delle forze dell’ordine, la polizia morale, che, appunto, ha il compito di garantire il rispetto delle regole.
Nel corso degli anni, sono emersi numerosi movimenti anti-hijab, che spesso portano a ondate di arresti e persecuzioni. Tra questi movimenti Girls of Revolution Street nel 2017.
Un sondaggio condotto da un centro di ricerca collegato al Parlamento, nel 2018, ha mostrato che c’è stata una diminuzione del numero di persone che credono che il governo dovrebbe far rispettare l’obbligo del velo. E un rapporto del 2014 dell’agenzia di stampa degli studenti iraniani aveva mostrato un aumento del 15% di coloro che credono che l’hijab non dovrebbe essere obbligatorio.

Alex Vatanka, direttore del Programma Iran e ricercatore dell’Iniziativa Frontier Europe, presso il Middle East Institute di Washington, spiega chel’opposizione all’obbligo di indossare il velo, esprime «una di una lunga lista di lamentele pubbliche».

Da parte del regime, «l’uso obbligatorio dell’hijab è diventato una cartina di tornasole non negoziabile per chiunque professi fedeltà alla Repubblica islamica. Nella sua messaggistica ideologica, il regime cerca sempre più di ritrarre l’‘hijab‘ come un pilastro della Repubblica islamica, senza il quale l’ordine politico sarebbe a rischio». Una questione di principio, insomma, per il regime. Per i manifestanti il primo punto di una lunga lista programmatica di riforma del Paese e, alla fin fine, cambio di regime.
Spiega Vatanka che l’hijab pilastro della Repubblica islamica, «non era qualcosa che i khomeinisti che presero il potere nel 1979 si erano originariamente impegnati a fare, né faceva parte del patto politico che avevano stretto con coloro che sostenevano la rivoluzione. L’uso obbligatorio dell’hijab è stato sancito dalla legge solo nel 1983,quando i khomeinisti si sono resi conto che era un modo efficace per controllare socialmente, e quindi politicamente, l’irrequieta società iraniana.
I regimi totalitari e autoritari cercano di regolare gli affari sociali attraverso una serie di regole di base che applicano a un costo elevato. Si tratta di esercitare il controllo politico con mezzi diversi. In tal senso, è corretto affermare che l’uso obbligatorio dell’hijab è un pilastro della Repubblica islamica.
Una volta che l’uso obbligatorio dell’hijab sarà sfidato e potenzialmente revocato», pensa il regime, «gli oppositori passerannoa contestare le altre politiche care del regime, come la sua posizione anti-USA o anti-israeliana o la sua incessante difesa del concetto di ‘supremo capo’».

Tra la classe dirigente, «questa politica ha sempre avuto sia sostenitori che oppositori. Questi ultimi non credono che ci sia alcuna disposizione religiosa nel Corano che lo prescriva. Sostengono che il concetto di hijab sia menzionato sette volte nel Corano. Tuttavia, non si tratta di velo obbligatorio, ma piuttosto di separazione e modestia delle donne.Interpretazioni religiosecosì diverse esistono dall’inizio del regime, quando figure di spicco come l’ex giurista Mohammad Beheshti e l’ex teologo Mahmoud Taleghani hanno rifiutato l’uso obbligatorio dell’hijab».

«Nell’attuale Iran, ci sono pochissimi religiosi che rifiutano apertamente l’hijab» e «ci sono religiosi che sostengono il regime ma suggeriscono che la flessibilità nell’applicare l’hijab è nell’interesse del Paese», e però questi non sfidano apertamente Khamenei sulla questione.
E Khamenei ha impostato la risposta di Teheran alla campagna anti-hijab, «dicendo che le donne che organizzano le proteste sono state‘ingannate‘ dai governi stranieri. Né Khamenei né Raisi sembrano interessati ad ammettere che la società iraniana è il motore del movimento anti-hijab e che non è, in fondo, guidata da una cospirazione straniera. In questo contesto, la leadership del regime ha perseguito una triplice strategia per contrastare le richieste del movimento. In primo luogo, negano l’esistenza di una richiesta popolare nella società iraniana, in particolare tra la fascia demografica più giovane, di fare dell’indossare l’hijab una questione di preferenza personale. Successivamente, cercano modi per scoraggiare il pubblico e gli attivisti anti-hijab; e poi, limitano lo spazio di dibattito tra la classe politica e quella impiegatizia su questo tema per mantenere la chiarezza e l’uniformità delle politiche».

«Nel corso della storia della Repubblica islamica», prosegue Alex Vatanka, «le politiche del regime hanno spesso messo l’uno contro l’altro sostenitori e oppositori, ma raramente ciò è sfociato in una vera e propria violenza tra questi due gruppi. Questa è la realtà che l’Iran deve affrontare oggi, poiché il Paese sperimenta sempre più casi di sostenitori del regime e del movimento anti-hijab impegnati in alterchi fisici per le strade». E questo non è un fenomeno limitato alla sola Teheran, ma si è verificato in tutto il Paese. Fu Khamenei a incoraggiare per la prima volta i suoi sostenitori a‘sparare a volontà‘ contro chiunque resistesse al regime e alle sue politiche. In parole povere, i cittadini pro-regime possono intervenire e usare la violenza per affrontare tutto ciò che ritengono non rispetti le regole dell’uso dell’hijab. Ciò, afferma Vatanka, mostra «come i calcoli politici di Khamenei sul modo migliore per controllare la società stiano erodendo il ruolo del clero e fornendo munizioni agli elementi più radicali in Iran. Il pericolo, ovviamente, è che ci sia una violenta contro-risposta all’applicazione pesante della legge sull’hijab».

«Il potenziale per un conflitto sociale più profondonon può essere ignorato. Secondo uno studioindipendente del 2020, il 72% degli iraniani è contrario all’uso obbligatorio dell’hijab. Al contrario, solo il 15 percento lo sostiene. Si possono immaginare le possibili tensioni e violenze che potrebbero scoppiare su questo tema a livello di strada una volta che il governo Raisi lancerà la sua campagna per far rispettare pienamente la legge sull’hijab, come ha promesso di fare il Presidente.

In definitiva, Khamenei teme che qualsiasi allentamento delle rigide leggi socio-religiose dell’Iran possa invitare a richieste di ulteriori cambiamenti, che vede come un vaso di Pandora. Inoltre, Khamenei non è incline a cedere alle pressioni, di certo non quando si tratta di attivisti di base, che liquida come sempliciotti che sono caduti vittime della propaganda e delle macchinazioni occidentali.
La questione dell’applicazione dell’hijab riguarda soprattutto il mantenimento del massimo controllo politico e la neutralizzazione degli oppositori. Poiché l’opposizione all’uso obbligatorio dell’hijab aumenta e la campagna contro di esso prende slancio, c’è un rischio reale di violenza tra sostenitori e oppositori. Ciò rende più difficile per Khamenei mantenere l’uniformità politica su questo tema, cosa che desidera e che è stato finora in grado di ottenere all’interno dei ranghi del regime. In particolare, i religiosi anziani saranno spinti a prendere una posizione più chiara e a non oscurare le loro posizioni reali, come radicate nelle loro interpretazioni religiose della legge della sharia. Ciò potrebbe diventare una fonte di allargamento del divario tra gli ulema (‘studiosi religiosi’) in Iran, in particolare tra i sostenitori del clero e gli oppositori del regime».

«La violenza che ha portato alla morte di Amini non è stata casuale. È parte integrante dell’atteggiamento del leader supremo iraniano Ali Khamenei nei confronti di qualsiasi dissenso politico», convinto da sempre che la repressione violenta spingerà i manifestanti a ritirarsi. Ora, «le sue scelte politiche stanno non solo aggravando la cruda rabbia pubblica contro la Repubblica islamica», «ma la sua insistenza sull’uso obbligatorio dell’hijab sta dividendo la classe religiosa islamica».
E allora, perché concentrarsi sull’applicazione di una politica così altamente impopolare? Nella mente di Khamenei, sostiene Vatanka, scendere a compromessi con il popolo iraniano su di un punto, scatenerà una cascata di altre richieste di cambiamento, dalla politica interna a quella estera. Ecco perché Khamenei, ha dato ordine di reprimere il movimento ‘anti-hijab‘. «Negli ultimi mesi, il regime è stato irremovibile nell’usare la violenza e pene detentive più dure per scoraggiare quella che chiama la ‘grande sedizione‘ dietro la campagna anti-hijab. Ha persino incoraggiato i membri del pubblico pro-regime a prendere in mano la situazione e ad affrontare coloro che sfidano le regole sull’hijab obbligatorio in pubblico. Ciò ha creato nuove controverse e linee di frattura nella società, separando la minoranza che sostiene l’uso obbligatorio dell’hijab dalla maggioranzache si oppone e che la vede come una violazione fondamentale dei diritti umani fondamentali».
C’è dell’altro, per altro in linea con la narrativa del governo. Il «regime di Teheran ha cercato disperatamente di collegare il movimento anti-hijab ai servizi di intelligence stranieri».

Le prime ondate di proteste –nel 2019, 2021 e più recentemente quest’anno- sono state alimentate principalmente da rimostranze economiche, spiega a ‘CNN‘ Esfandyar Batmanghelidj, fondatore e CEO della Bourse & Bazaar Foundation di Londra, questa natura economica delle proteste sarebbe stata, secondo Batmanghelidj, uno dei motivi principali per cui le proteste non sono passate ad altri segmenti della società. La protesta in corso «è diversa, perché ciò che le persone chiedono davvero è un tipo più significativo di cambiamento politico», aggiungendo che questo movimento ha reso più facile «generare solidarietà tra diversi gruppi sociali».

Così, afferma Sajjad Safaei, queste proteste rappresentano «il primo movimento di protesta della classe media emerso in Iran dal Movimento Verde all’indomani delle elezioni presidenziali del 2009, ampiamente contestate. Ma ci sono differenze importanti tra i due.
Primo, in termini di dimensioni: non vi è alcuna indicazione che le proteste in corso si siano avvicinate minimamente al numero di persone scese in piazza nel 2009. Inoltre, i manifestanti del 2009 erano di età diverse, mentre gli attuali protagonisti sono prevalentemente giovani». «Provengono principalmente dalle giovani generazioni che potrebbero aver sentito parlare solo del Movimento Verde. All’epoca sarebbero stati bambini o adolescenti», secondo il sociologo e attivista pro-riformista Mohammadreza Jalaeipour. «Sono senza paura, diretti e coraggiosi, ma anche arrabbiati», «non sono monarchici. Vogliono libertà e democrazia».
«Un’altra caratteristica distintiva delle proteste in corso è la presenza di giovanissime donne in prima linea. In molte proteste, le donne sembrano essere più numerose degli uomini e non sembrano temere di essere viste senza l’hijab, anche in presenza delle forze di sicurezza.
Ci sono stati molti scontri tra le forze di sicurezza e i manifestanti e diversi manifestanti sono già stati uccisi. Ma la repressione non è stata così grave come l’ultimo round di proteste per l’aumento dei prezzi del gas nel novembre 2019».

I leader iraniani, afferma Sajjad Safaei, «spesso si vantano, giustamente, che, in una regione piena di instabilità, sono stati in grado di proteggere i cittadini iraniani dalla sicurezza esterna e dalle minacce militari come lo Stato Islamico e i rivali regionali del Paese. Ma la morte di Amini ha dimostrato che, fintanto che le élite iraniane al potere insisteranno nel far rispettare l’anacronistica reliquia rivoluzionaria dell’hijab obbligatorio, il rapporto dello Stato con i suoi cittadini continuerà a degenerare. Finché lo Stato tratta alcune ciocche di capelli come motivi legittimi per derubare una donna e la sua intera famiglia del senso di sicurezza, la sua legittimità pubblica sarà sempre a rischio e l’establishment politico iraniano sarà sempre sull’orlo di una crisi di sicurezza. Ecco perché le élite al potere iraniane farebbero bene a fare concessioni sulla questione dell’hijab, se non per il bene del popolo iraniano, almeno per il proprio bene».

E qui si evidenzia il rischio che potrebbe derivare da una brusca destabilizzazione del regime, se non addirittura caduta, che alcuni ipotizzino possa alla fine portare questo movimento di protesta. Tale rischio lo sintetizza così Karen Kramer, Direttore pubblicazioni del Center for Human Rights in Iran: «Se l’Iran dovesse precipitare nel caos, il risultato più probabile sarebbe un ulteriore caos in tutto il Medio Oriente. La stabilità interna è indissolubilmente legata alla stabilità regionale: in tutta la regione, Stati deboli e falliti hanno alimentato attori substatali distruttivi, movimenti transnazionali radicali e conflitti interstatali. I continui disordini interni in Iran potrebbero portare alla frammentazione lungo linee etniche, religiose e ideologiche e a un violento conflitto interno che aprirebbe la porta a guerre per procura tra rivali regionali e a ulteriori conflitti tra grandi potenze nella regione. Tutti i conflitti vicini, in particolare quelli in Iraq, Libano, Siria e Yemen, dove l’Iran è già invischiato, sarebbero esacerbati».