Il Regno Unito si lascia alle spalle la ‘nuova età elisabettiana’: si è infatti concluso il lungo addio – alla presenza di Capi di Stato, teste coronate e dignitari da tutto il mondo (tranne pochi esclusi)- alla Regina Elisabetta II, a dieci giorni dalla sua scomparsa, annunciata dalla Famiglia reale, facendo scattare l’imponente piano per renderle omaggio, il ‘London bridge is down’.

“Per tutta la mia vita e con tutto il mio cuore cercherò di meritarmi la vostra fiducia”, aveva promesso Elisabetta nel giorno della sua incoronazione. “Dichiaro davanti a voi che tutta la mia vita, lunga o breve che sia, sarà dedicata al vostro servizio”, promise ancora principessa, il giorno del suo 21esimo compleanno. Così è stato e ciò spiega perché i britannici hanno vissuto queste giornate di lutto con molta intensità, facendo lunghe code pur di dare l’ultimo saluto al suo feretro su cui erano poggiati la corona di Sant’Edoardo, lo scettro e il globo d’oro, quegli stessi simboli del potere temporale di cui è stata ‘spogliata’ a Windsor prima della tumulazione.

Una vita al servizio delle istituzioni. Per dare le proporzioni, ha regnato per 70 anni, 7 mesi e due giorni di. Lo scorso giugno Elisabetta ha superato la longevità del re di Thailandia, Bhumibol Adulyadej, rimasto al trono per 70 anni e quattro mesi, dal 9 giugno 1946 al 13 ottobre 2016. Solo il re Luigi XIV ha regnato più di lei (più di 72 anni tra il 1643 e il 1715). Dal 1952, Elisabetta ha visitato 117 Paesi, altro record per un sovrano britannico, e ha fatto più di 150 visite nei paesi del Commonwealth. Ha percorso 1,7 milioni di chilometri, di cui 48 mila solo nel 2002, anno del suo giubileo d’oro che ha segnato i 50 anni sul trono. Secondo il Daily Telegraph, la regina ha percorso l’equivalente del giro della terra 42 volte prima di interrompere i viaggi all’estero nel novembre 2015 all’età di 89 anni. Il suo tour all’estero più lungo è stato di 168 giorni (dal novembre 1953 al maggio 1964) durante i quali ha visitato 13 Paesi.

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Durante il suo regno, ha condotto circa 21 mila impegni, ha approvato con “assenso reale” circa 4 mila progetti di legge e ha ricevuto un gran numero di dignitari come parte di 112 visite di Stato.

A Buckingham Palace si sono tenuti oltre 180 ricevimenti in giardino, a cui hanno partecipato oltre 1,5 milioni di persone. Ha conosciuto 15 primi ministri, da Winston Churchill (1952-1955) a Liz Truss, che è appena succeduta a Boris Johnson.

Numeri record che rendono plasticamente l’idea dell’impegno profuso da Sua Maestà in sette decenni di storia britannica e mondiale. SecondoRichard Newbury, saggista e storico britannico: “La stabilità si basa sulla consapevolezza che in precedenza si è sempre adattata ai cambiamenti. Di fatto rappresenta la continuità che collega la discontinuità della politica partitica. Per quasi trecento anni ci sono stati il governo di Sua Maestà e l’opposizione di Sua Maestà. La politica riguarda il confronto e gli interessi particolari. Il Parlamento istituzionalizza la divisione e il conflitto. La Corona rappresenta l’unità nazionale e istituzionalizza la sua cooperazione e il suo consenso. È comprensibile, in quanto ognuno può capire e identificarsi con una famiglia sul trono. Il Parlamento presenta la vita politica come una guerra; la monarchia come un circolo familiare”. Forse proprio la sua familiarità, così come la sua dedizione al servizio del proprio Paese l’hanno legata così tanto ai sudditi, e non solo.

Pur rispettando in maniera ineccepibile le prerogative del monarca indicate da Walter Bagehot, ossia di “essere consultato, incoraggiare, ammonire”, pubblicamente non ha mai derogato dal silenzio suggerito dalla costituzione non scritta, celando sempre le proprie idee dietro la maschera sorridente della regalità, marchio anche del ‘soft power’ così come della ‘geopolitica’ che man mano hanno aiutato il Regno Unito a riposizionarsi nel mondo, dopo la fine dell’Impero britannico.

Qual è l’eredità di Elisabetta II? Cosa ne sarà del Regno Unito e del Commonwealth dopo la fine della nuova ‘età elisabettiana’? Lo abbiamo chiesto ad Alessandro Torre, Professore di Diritto costituzionale nell’Università di Bari oltre che Presidente del Devolution Club – Associazione per il dialogo costituzionale. Autore del manuale edito da ‘Il Mulino’ ed intitolato ‘Regno Unito’, le collane «Nuovi studi di Diritto Pubblico Estero e Comparato» (Maggioli) e «Il Monitore Costituzionale» (Liberilibri). 

Professor Torre, si conclude il lungo addio britannico alla Regina Elisabetta II, dieci giorni dopo il ‘London Bridge is down’. Folle di inglesi nelle strade ‘to pay the tribute’ alla Sovrana e per accompagnarla nell’ultimo viaggio. Centinaia di capi di Stato e dignitari hanno presenziato al funerale. “Per tutta la mia vita e con tutto il mio cuore cercherò di meritarmi la vostra fiducia”, prometteva Elisabetta nel giorno della sua incoronazione. Così è stato. Qual’è l’eredità di questa figura? La sua dedizione al servizio della nazione?

Anche i più antimonarchici le riconoscono una grande importanza. Se anche ci fossero detrattori, sono una minoranza trascurabile.Fuori di dubbio, lascia in eredità un grande rispetto per le istituzioni del suo Paese. Un aspetto che, tra l’altro, traspare anche in Re Carlo III, come ha già lasciato intendere nei suoi primi discorsi.

Parlerebbe di ‘nuova età Elisabettiana’ che va a concludersi?

Assolutamente sì per il più lungo periodo di regno ed assomiglia al periodo di Giorgio III che durò dal 1760 al 1820. Un primato superato da Elisabetta II e che ha caratterizzato un’epoca così come si parla ancora dell’’Epoca Vittoriana’. È normale per alcuni monarchi il cui Regno ha avuto un lungo corso, attraversando diverse fasi di trasformazione costituzionale.

Il giorno della sua incoranazione, Winston Churchill disse alla radio: “Un periodo di prosperità ci attende perché la storia insegna che governati dalle nostre regine siamo sempre stati capaci di imprese straordinarie”. L’essere donna è stato un valore aggiunto per il Regno e per il rapporto tra Elisabetta è il popolo britannico?

In questo, non mi oriento molto. Quello che conta è la persona e, certamente, come persone, le donne che hanno retto il Regno hanno lasciato un’impronta formidabile. L’essere donna ha aggiunto un elemento di reverenza in più, ma non determinante.

Elisabetta II arriva al trono in un momento di forte riassestamento internazionale dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, all’inizio della Guerra Fredda. Sebbene non preparata fin dalla nascita a prendere le redini del Regno, è comunque riuscita negli anni a costruire un rapporto di forte comunione con i sudditi, maturando con loro, guidandoli. Come ci è riuscita?

C’è un’analogia molto curiosa riguardo alle modalità con cui sono andate al trono le tre regine più importanti della storia moderna britannica: Elisabetta I diventò regina perché prima di lei l’erede designato al trono venne meno e quindi si ritrovò all’improvviso sul trono; lo stesso si può dire di Vittoria. Sembra che le regine arrivino tutte un po’ per caso, giovani, ma poi diventino punti di riferimento fondamentali. Con Elisabetta II, l’effetto è tutto incommensurabile perché tutti siamo nati e vissuti con lei lì, con una monarchia che sembrava eterna. Ha vissuto il Dopoguerra, la ricostruzione e la creazione dello Stato sociale, la crisi delle risorse degli anni ‘60, quindi la ‘devolution’ e il ‘thatcherismo’, poi la grande svolta del conservatorismo, mentre andava in crisi l’Impero.

“Il ruolo della regina, come potere imponente, e di un’utilità incommensurabile. Senza la regina, l’attuale governo inglese cadrebbe e non potrebbe esistere. Spesso, quando si legge che la regina ha passeggiato per il grande prato di Windsor o che il principe di Galles ha assistito a un derby, si potrebbe pensare che si stia prestando un’attenzione eccessiva o un’importanza esagerata a delle inezie. Ma non è così ed è opportuno spiegarlo”. Con queste parole l’economista liberale Walter Bagehot, primo direttore della celebre rivista The Economist, presentava nel suo English Constitution, il ruolo e i compiti della Corona nel Regno Unito: la consultazione, l’incoraggiamento e l’avvertimento. Con il suo silenzio magistralmente gestito, Elisabetta ha assolto a questi compiti in modo impeccabile?

Per quanto riguarda la consultazione, sappiamo poco perché i colloqui settimanali tra il Premier e la Regina sono sempre stati coperti da molto riserbo, pare ci siano dei diari, ma probabilmente verranno distrutti: non si sa, dunque, cosa ci sia scritto riguardo ai consigli che la Regina dava ai vari Primi Ministri. ‘Avvertire’ è una funzione che, nell’ottica di Bagehot, meno viene utilizzata e meglio è: quindi, la parsimonia è stata sempre la via maestra. Si può dire che la monarchia ha ceduto molto al potere del Primo Ministro.

Si è quindi limitata soprattutto all’incoraggiamento?

Direi di sì.

Notava l’intellettuale britannico Anthony Burgess “il potere della regina deriva dal suo sapere e dalla sua autorità morale”. Anche per questo la scomparsa di Elisabetta II lascia un grande vuoto, sia nel Regno Unito sia nel mondo?

Assolutamente sì, autorità morale che tutti le riconoscono unanimemente.

La longevità l’ha aiutata ad acquisire questa ‘autorità’?

Va detto che l’autorità è divenuto qualcosa di molto relativo nell’esercizio del potere monarchico, ma certamente ha saputo gestire il suo ruolo con grande capacità.

Il rispetto delle istituzioni, del proprio dovere, senza far prevalere il privato sul pubblico, anche quando gli scandali familiari (dal divorzio chiacchierato del figlio Carlo alle accuse di pedofilia contro Andrea, passando per la rottura tra il nipote Harry e la famiglia reale) occupavano le prime pagine dei giornali…

Con Elisabetta II, l’autorità morale nel pubblico e nel privato hanno certamente coinciso.

I 70 anni di Regno hanno visto grandi cambiamenti. Elisabetta ha, secondo Lei, modernizzato la monarchia, è riuscita a portarla nel XXI secolo? Oppure ha prevalso la tradizione?

La tradizione ha certamente avuto un ruolo importante, ma è altrettanto riuscita ad aprire il rapporto con la Nazione. Già la Guerra aveva aperto molti punti di contatto con la Nazione, ma era un momento molto particolare ed Elisabetta aveva potuto contare anche su un Primo Ministro come Winston Churchill, un fedelissimo supporter della Regina. In quel caso, possiamo dire che fu più lui ad ammonire la Regina piuttosto che viceversa.

Con Churchill, Elisabetta ebbe quella che gli storici definiscono una ‘special relationship’ tanto da concedergli anche i funerali di Stato nel 1965, lui che, peraltro, era stato il vincitore della Seconda Guerra Mondiale. Perché?

Fu Primo Consigliere visto che il suo ultimo governo andò dal 1951 al 1955, ancor prima aveva governato il Regno Unito al successo nella Guerra, pur venendo da una carriera politica precedente caratterizzata anche da fallimenti. Certo è che Elisabetta intravide in lui un politico di grande statura.

Nel corso dei decenni, il rapporto tra Elisabetta II e i primi ministri pare, stando ai rumors, altalenante, quantomeno non sempre roseo. Pur immaginando la Regina mossa da uno spirito più conservatore, sembra che abbia avuto una maggiore sintonia con i premier laburisti. Sono solo dicerie o c’è qualche fondo di verità?

Non credo ci fosse una regola fissa in questa alternanza di sintonia che la Regina può aver avuto con i primi ministri. Molto spesso, hanno pesato la considerazione politica del loro ruolo, ma anche la sintonia personale. Ad esempio, è ormai risaputo che con Margareth Thatcher i rapporti non è che fossero molto cordiali.

Cosa le divideva di più? Una divergenza ideologica? Un diverso temperamento? Oppure l’essere entrambe donne, quasi coetanee?

Solo dopo la caduta della Thatcher, i rapporti si rasserenarono. La vulgata racconta la Thatcher come troppo didattica nei confronti della Regina: pare che il suo intercalare nel rivolgersi ad Elisabetta fosse ‘Maestà Lei dovrebbe capire che…’ e che questo mettesse in difficoltà la Sovrana.

I contrasti pare si verificassero anche su dossier molto concreti: viene spesso citata, a questo proposito, la questione delle sanzioni al Sudafrica colpevole dell’apartheid, sulle quali la Regina fosse favorevole e Thatcher contraria.

Sì, certo, ma la Thatcher tentava di mantenere dei rapporti non conflittuali col Sudafrica, provando a sorvolare sulla segregazione razziale. Tuttavia, appena lei lascia la guida del governo, avviene un cambio di passo. La Regina sicuramente può aver influito su questo: non dimentichiamo che pare che Mandela fosse l’unico a potersi rivolgere a lei chiamandola quasi per nome. In questo senso, c’era una stima molto forte.

Ma è possibile che anche la visione economica di Margareth Thatcher – quindi, il pugno di ferro contro i minatori, contro i sindacati, cosi come il neoliberismo – fosse poco condivisa da Sua Maestà?

La Regina non si è mai espressa, ma da quello che possiamo intuire, non lo condivideva molto. Così come mal digeriva l’approccio arcigno thatcheriano nei confronti dell’Unione Europea. Io mi trovavo nel Regno Unito in quel periodo è tutto ciò che avvenne in quegli anni lo ricordo molto bene: un’atmosfera veramente cupa.

E sulla Guerra delle Falcklands?

Fu un’operazione molto forte di protezione, di rivendicazione di sovranità della Corona. Fu un momento di grande riscoperta dello spirito nazionale. Non so fino a che punto la Regina abbia partecipato a questo, ma fu di sicuro della Thatcher la decisione, come prevede la prassi istituzionale.

Chiusa la breve parentesi di John Major, si aprì, negli anni ‘90, il capitolo dell’allora giovane Primo Ministro Tony Blair. Si dice che verso il Premier laburista, Elisabetta II avesse un approccio quasi ‘materno’, di profonda stima. Molto si specula ancora oggi sul ruolo che Blair svolse nel corso della ‘crisi’ della morte della Principessa Diana Spencer. La vulgata è che sia stato proprio il Primo Ministro labour ad esortare la Regina a tornare a Londra per rendere omaggio a Lady D. Concorda con questa narrazione dei rapporti tra Queen Elizabeth e Blair?

Al momento della morte di Diana, la credibilità e il consenso della monarchia, con il suo approccio inizialmente rigido, visse un momento di crisi. Quella di Diana è divenuta una tragedia popolare, vissuta con grande coinvolgimento anche da Blair.  Credo sia stato il momento di minore consenso nei confronti della monarchia così inflessibile rispetto ad un dramma collettivo. Questo è stato un evento particolare, ma Blair non ha certo utilizzato l’approccio così perentorio che potremmo attribuire a Churchill. Probabilmente, con Blair c’è stata molta affinità anche perché è stato un grande riformatore: il Labour portò la ‘devolution’, ha prodotto l’Atto sui diritti fondamentali, ha posto le premesse per la creazione della Corte Suprema. Ha introdotto tante di quelle riforme che questo potrebbe aver positivamente impressionato la Regina. Ma l’atteggiamento della Regina è un aspetto sempre poco conosciuto è considerato nelle analisi. Per esempio, mi trovavo ad Edimburgo nel mese del 2014 quando si votò per il referendum della Scozia: la Regina non si espresse mai sulla questione, ma l’unica dichiarazione che pronunciò, in modo del tutto neutrale, fu all’uscita dalla messa: ‘Mi auguro che gli scozzesi votino per il meglio’.

Il massimo, appunto, dell’imparzialità, come, peraltro, imposto dalla Costituzione, anche per rappresentare l’unità nazionale. Su questo punto, però, i critici le rimproverano di non esser riuscita a rendere sorde le sirene dell’indipendenza, proprio a lei che era figlia di una scozzese e che è sempre stata molto legata a Balmoral dove, peraltro, le circostanze hanno voluto che si spegnesse. Forse il giudizio andrebbe ricalibrato, o no?

La Regina non è responsabile di questo. Le critiche alla monarchia ci sono sempre state in alcune parti del Regno: se prendiamo, ad esempio, l’Irlanda del Nord, si sa che tutti i deputati che fanno queste critiche appartengono al partito separatista, cioè allo Sinn Fein, e hanno sempre rifiutato di prestare giuramento alla monarchia. Quindi, degli atteggiamenti ‘repubblicani’ sono presenti nel Regno Unito, però non sono rivolti alla persona in quanto tale, piuttosto delle istituzioni e nel modo in cui si intende l’appartenenza al Regno Unito da parte di coloro che invece desiderano una situazione diversa. La Regina non c’entra, tutto dipende dall’atteggiamento della classe politica. Il secondo aspetto riguarda il fatto che, proprio nel 1952, quando Elisabetta andò al trono, fu fatto ricorso da parte scozzese perché ritenevano fosse illegittimo il titolo di ‘II’ per Elisabetta in quanto, secondo loro, non c’era mai stata una ‘I’, che era stata Regina solo per l’Inghilterra, prima dell’unione tra i due Regni. Il ricorso venne respinto, ma è un esempio di come ci fossero già delle preclusioni alla monarchia, a prescindere da Elisabetta.

Riguardo al rapporto con l’Unione Europea, sappiamo che il Regno Unito è sempre stato con il freno a mano tirato rispetto ad una maggiore integrazione. Nel 2016, però, quella riluttanza si è trasformata nella Brexit, il divorzio ‘traumatico’ da quell’organizzazione nata sulle rovine della Seconda Guerra Mondiale e che, in quanto tale, anche la Gran Bretagna, con la sua resistenza al nazifascismo, aveva contribuito a fondare, sebbene con obiettivi diversi. Posto che non sapremo mai quale fosse la sua opinione al riguardo, quali erano i rapporti con David Cameron che propose quel referendum e come pensa abbia vissuto quello strappo una Regina che ha fatto del dialogo e della fratellanza tra i popoli i capisaldi della sua ‘geopolitica’, del suo soft power?

Probabilmente quello di Cameron è stato visto come un azzardo e credo che il Primo Ministro abbia pagato il prezzo della dipendenza dagli orientamenti dei suoi partner di governo precedente con i liberal-democratici. La promessa del referendum fu figlia di un populismo con delle sfumature anche anti-monarchiche.

Boris Johnson ha per certi versi soffiato su questo vento populista, solleticando la nostalgia per una Gran Bretagna di nuovo imperiale…

Diciamo che sulla decisione di forzare i tempi con il Parlamento ha influito anche il fatto che la Regina sia stata indotta a sciogliere anticipare forzatamente il Parlamento. C’e da dire che, per etica costituzionale, il Primo Consigliere del Sovrano è il Premier. Johnson, nel caso specifico, ottenne la chiusura del Parlamento per 15 giorni affermando che questo fosse necessario per riorganizzare il discorso pubblico. In realtà, perché si avvicinava una seduta del Parlamento che avrebbe messo in difficoltà il Primo Ministro su un atto riguardante la chiusura della Brexit. La Corte suprema si è pronunciata non mettendo in discussione la prerogativa della Sovrana, ma il consiglio fuorviante del Premier. Tutto sommato, il gioco del potere di Johnson si è molto basato su fraintendimenti e forzature su cui la monarchia poteva fare poco.

Anche perché Elisabetta si è sempre attenuta al principio per cui ‘Il Re regna e il governo governa’…

Esatto.

Ci è sempre riuscita o, come sostiene qualche detrattore, ha a volte influenzato, anche indirettamente, l’azione politica?

Non credo molto in questa tesi. L’ultimo periodo in cui il Sovrano ha provato a recuperare il suo potere personale sulle questioni di Stato è stato nella prima parte del Regno di Giorgio III, un tentativo a cui il Parlamento si oppose. Dopodiché, il potere del Sovrano ha subito un processo di erosione che è diventato quasi totale: in definitiva, certi poteri quali ottenere lo scioglimento del Parlamento, prolungare la durata dello stesso, la proposta di legge, non riguardano più il Monarca bensì il Primo Ministro.

Tornando alla Brexit…

Non credo che le possa aver fatto piacere una rottura così forte: non dimentichiamo che la grande scommessa sull’organismo sovranazionale che portasse la pace tra i popoli era di Churchill, tra i maggiori sostenitori di questo progetto. Nonostante le difficoltà che creò la Francia per l’ingresso britannico, penso si possa dire che abbia sempre guardato all’Europa con favore. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, nonostante il grande sostegno profuso dal Commonwealth alla Gran Bretagna, i rapporti con esso iniziarono a diradarsi con la ‘decolonizzazione’. Ecco che, in un certo senso, fu utile nel senso di un bilanciamento dei rapporti con i Paesi che riconoscevano la Regina capo di Stato. Non a caso la Regina ha sempre fatto discorsi nel senso di rafforzare questi rapporti.

Non a caso, lo storico e saggista Sam Knight, sul ‘New Yorker’, in occasione del giubileo di platino per i 70 anni di Elisabetta, scrisse che il Commonwealth “è un’eredità di Elisabetta”, nonostante nel corso dei decenni l’Impero britannico sia andato sfaldandosi, con oltre 38 colonie che hanno optato per l’indipendenza. Queen Elizabeth ha per certi versi guidato il Regno mentre andava ridimensionando il suo ruolo nel mondo.

Sì, ma era la storia che stava andando avanti, quindi non si poteva continuare con alcuni rapporti di ‘antico regime’ della Corona su popolazioni così diverse. Il problema non riguardava tanto la monarchia quanto la condotta dei governi che hanno fallito, nonostante i principi costituzionali importati dalla tradizione britannica.

Perché ci sono percezioni così diverse della Corona britannica tra, per esempio, da una parte, Canada, Nuova Zelanda e Australia, e i Paesi africani dall’altra?

I primi sono compenetrate nella cultura di common law di origine inglese e continuano ad essere molto legate al Regno Unito, nonostante, per esempio, in Australia, siano presenti delle pulsioni repubblicane.

Nel 2011, Elisabetta II fece visita in Irlanda cento anni dopo che l’ultimo sovrano inglese vi aveva messo piede. La questione dell’Irlanda del Nord è stata un altro grande capitolo del Regno di Elisabetta, dallo scontro religioso alla guerriglia dell’IRA, ma anche gli Accordi del Venerdì Santo… una ferita che, forse, non si è mai rimarginata nel cuore della Sovrana che perse un familiare molto amato, Lord Mountbatten.

La questione non è ancora del tutto chiusa da parte della comunità cattolica. Non credo che ci sia molto cordoglio lì per questa scomparsa. Non dimentichiamo, però, che esistono partiti fortemente unionisti e che il dramma dell’Irlanda del Nord è proprio l’esistenza di due nazionalismi contrapposti: il nazionalismo cattolico separatista e quello protestante unionista.

Nei 70 anni di ‘Nuova età elisabettiana’, il mondo è cambiato – dalla Guerra Fredda alla globalizzazione – ed anche il Regno Unito ha cambiato pelle. Qual’era la visione della Regina Elisabetta II rispetto al nuovo ruolo del Regno Unito nel mondo?

Il Regno Unito continua ad avere un ruolo di prestigio, fonte di ispirazione, è un pilastro dell’Occidente e continua ad avere una relazione speciale con gli Stati Uniti. Non stupisce, in questo senso, il mancato invito alla cerimonia funebre di Vladimir Putin e di altri dittatori.

Il lutto per la morte della Regina Elisabetta – ha scritto pochi giorni fa il ‘Times’ – “ci costringe a riflettere su chi siamo”. La stessa testata, in occasione degli 80 anni della Sovrana, scrisse: “Grazie Maestà per non aver mai permesso alla maschera reale di scivolarle dal viso”. Elisabetta II è stata “la nostra (per i britannici) maschera”, si è spinto ad affermare il filosofo Roger Scruton. È d’accordo?

Un Regno che sembrava eterno, mai messo fondamentalmente in discussione, è stato tutto sommato in grado di mobilitare le forze positive della nazione. Lo scorso giugno, in occasione del Giubileo di Elisabetta, sono state davvero grandiose, non solo dal punto di vista ufficiale, ma anche non ufficiale, con tanti banchetti nelle piazze, bus scoperti, bandiere ovunque… insomma l’identificazione con la monarchia è apparsa molto forte. Poi ci sono momenti, come il passaggio da un sovrano all’altro, che fanno cadere delle certezze emotive o anche istituzionali, e questo è salutare in un Paese. Anche se non c’è una Costituzione scritta, non credo che la monarchia verrà messa in discussione.

Il 2 giugno 1969 nella sua prima intervista televisiva al presentatore TV, David Frost, il successore di Elisabetta II dichiarava che “il servizio alla patria significa concedersi al popolo, specialmente se sei ben accetto, ma anche quando non lo sei. Se senti di poter fare qualcosa, anche se il popolo pensa che il tuo intervento non sia utile, ma tu ti credi nel giusto, allora sei al servizio della patria”. Alcuni britannici sono convinti che Carlo III sia il Re giusto per portare la monarchia nel futuro. Su alcuni temi, inoltre, è stato pioniere: pensiamo solo alla battaglia in difesa dell’ambiente. Lui stesso ha già annunciato che la sua vita cambierà, nel rispetto del nuovo ruolo assunto, nel solco dell’esempio materno oltre che in ossequio al precetto costituzionale. Che idea si è fatto a tal proposito, tenendo conto anche dei pochi discorsi pronunciati dal nuovo Sovrano in questi giorni, ma al netto dei pregiudizi creati dal gossip e dalle dichiarazioni di Lady Diana, peraltro mai smentite? In altre parole, che Re sarà Carlo III? E la monarchia resta solida?

Questo lo vedremo. Credo che Carlo abbia un’arma a doppio taglio tra le mani: da una parte, da tempo, non essendo il regnante, ha avuto modo di esprimersi su varie questioni, quindi si sa già come la pensi e ha potuto influire attraverso quelle lobby che vanno nella direzione del suo impegno etico. Adesso, però, è Sovrano, ma, pur non potendo esprimersi, i sudditi già conosco il suo pensiero e, dunque, un cambio della monarchia sarà oggettivo: il silenzio di Elisabetta II su alcune questioni ora verrà sostituito da un Sovrano che vedremo se seguirà il suo stile, ma che certamente in passato ha reso noto il suo pensiero.

La sua vicenda personale, il cosiddetto ‘spettro di Diana’ e la connessa percezione della Regina consorte Camilla, peseranno sulla considerazione del nuovo Sovrano?

Non credo…

I 70 anni di Regno di Elisabetta non si cancellano, Carlo III lo sa. Tuttavia, i britannici sono più elisabettiani o più monarchici?

Penso che per i britannici non sia facile abbandonare l’adesione alla monarchia e, nonostante la breve durata del Regno di Carlo III, toccherà ai giovani far dimenticare alcune cose.

Indimenticabile il ‘we’ll meet again’ rivolto dalla Regina Elisabetta alla nazione in pieno lockdown per la pandemia di Covid-19 che poi ha colpito lei stessa oltre che l’attuale coppia reale. La crisi pandemica ha contribuito a consolidare il rapporto tra il popolo e la monarchia?

Certo. Anche tutti i messaggi rivolti alla Nazione della Regina riguardavano questioni private che venivano raccontate ai sudditi – la morte di Diana, della Regina madre – ha testimoniato un avvicinamento tra la Sovrana e il Paese.

I nuovi mezzi di comunicazione l’hanno in questo aiutata?

Sì, ma non sempre, come dimostra l’esempio dei tabloid quando morì Diana.

Il Premier di Antigua e Barbuda, Gaston Browne, ha già annunciato che entro tre mesi sarà indetto un referendum per decidere se diventare repubblica, pur rimanendo membro del Commonwealth. Sulla stessa linea sono Giamaica e Belize, che come le Barbados non dimenticano il duro passato coloniale britannico. Con Carlo III, il Regno Unito sarà sempre più (dis)unito e il Commonwealth perderà pezzi?

Intanto bisogna vedere cosa faranno gli scozzesi sotto l’egida della Brexit: non credo si avventureranno molto. Sul  Commonwealth, Carlo III vuole proseguire nel solco della tradizione, ma la questione è che sono sempre meno i Paesi che riconoscono la Regina/il Re come capo di Stato e che riconoscono l’autorità del Comitato giudiziario sovranazionale del Regno Unito per dirimere alcune intricate questioni provenienti da questi Paesi. Questo comitato formato da giudici è il garante dell’applicazione della common law in tutto il Commonwealth e, nella sala dove si riunisce, le bandierine degli Stati che lo riconoscono sono sempre di meno. Bisogna dire che, soprattutto i piccoli Stati, hanno convenienza a rimanere nel  Commonwealth, non solo per l’aspetto economico, ma anche per l’afflato di fratellanza che caratterizza un’organizzazione che, come dice il nome, mette al centro il ‘bene comune’, lo stare insieme.

Quale sarà la ‘convivenza’ tra Re Carlo III e la neo-Premier, Liz Truss? Per entrambi inizia un nuovo capitolo…

Non saprei, anche perché si tratta di una trasformazione molto recente.

L’esser divenuto Re ad oltre 70 anni è un vantaggio per Carlo? Sua madre arrivò al trono a soli 26 anni, con tutto da imparare. Il figlio sarà facilitato?

Sì, ma non dimentichiamo che Elisabetta è stata 70 anni Regina e quindi ha avuto modo di fare molta esperienza.

Il Regno Unito è una monarchia costituzionale, ma anche una democrazia molto forte. Da costituzionalista, ritiene che la monarchia sia una garanzia per la democrazia?

Può esserlo, però non necessariamente. Pensi alle monarchie europee. C’è il Belgio, l’Olanda, ma anche la Spagna che, poco tempo dopo l’entrata in vigore della Costituzione del ‘78, subisce un tentativo di colpo di Stato franchista, bloccato dal Re che fa arrestare i generali che stavano già mandando i carri armati verso Madrid. Garanzia può esserlo anche un Presidente della Repubblica. Quello che conta è il ruolo costituzionale di colui che è a capo dello Stato e rappresenta l’unità del Paese, oltre che i valori della Costituzione, che, nel caso del Regno Unito, non esiste.