Un mese dopo il 43° anniversario della rivoluzione sandinista, l’arresto del vescovo Rolando Álvarez è l’ultimo atto di un percorso di repressione del dissenso che nel corso dell’ultimo anno ha messo a tacere la quasi totalità degli oppositori, politici e sacerdoti in testa. La ‘diplomazia del silenzio pubblico’ del Vaticano al lavoro. Timori per un’escalation di Ortega e per la presenza russa nel Paese
All’alba di venerdì 19 agosto, un mese dopo il 43° anniversario della rivoluzione sandinista, la Polizia federale del Nicaragua, ha preso d’assalto la casa del vescovo Rolando Álvarez, nel nord del Paese, arrestando uno dei più importanti critici del Presidente Daniel Ortega. Monsignor Álvarez è stato posto agli arresti domiciliari presso la casa dei genitori, nella capitale, Managua. Cinque sacerdoti e due seminaristi che erano con lui nella sua residenza, a Matagalpa, sono stati rinchiusi a El Chipote, famigerata prigione dove sono stati imprigionati più di 100 oppositori del Presidente.
L’accusa contro il vescovo non è stata formalizzata, il governo ha diramato un comunicato nel quale si accusa il vescovo di «attività destabilizzanti e provocatorie». Due settimane fa, la Polizia aveva circondato la sua residenza, sostenendo che Álvarez era sotto inchiesta per presunta sponsorizzazione di gruppi antigovernativi violenti. Accusa che il vescovo nega.
Rolando Álvarez, capo della diocesi di Matagalpa, è il leader cattolico più critico del Nicaragua e quello più perseguitato dalla dittatura.
L’arresto di Monsignor Álvarez è l’ultimo atto di un percorso di repressione del dissenso che nel corso dell’ultimo anno ha messo a tacere la quasi totalità degli oppositori del governo di Ortega, politici -compresi sette politici che avrebbero dovuto candidarsi alla presidenza lo scorso novembre- e sacerdoti in testa, oltre aver chiuso centinaia di gruppi della società civile, nonché università e media, non ultime le radio cattoliche.
‘Washington Post‘ definisce quella di Ortega «una delle più intense ondate di repressione nell’emisfero». Perchè se è vero che il rapporto tra la Rivoluzione Sandinista e la Chiesa cattolica è sempre stato particolarmente‘difficile‘ -si pensi al rapporto aspro negli anni ’80-, e nell’ultimo periodo la faida tra Ortega e i leader religiosi di un Paese che è a maggioranza cattolica è sempre più violenta -le relazioni tra Ortega e la Chiesa si sono inasprite dopo che il governo ha represso le proteste a livello nazionale nel 2018, provocando battaglie di strada che hanno provocato più di 360 morti, secondo i gruppi per i diritti umani-, è anche vero che questa è l’immagine della repressione alla quale è stato sottoposto il Paese, o meglio, tutti gli oppositori del regime.
Tutto è iniziato il 19 luglio 1979. La piazza del Palacio Nacional de Managua è «piena di guerriglieri appena scesi dalle montagne, con i fucili verso il cielo, esultanti e scapigliati» è «il ritratto imperituro dell’allora neonata Revolución Sandinista», l’impresa «che rovesciò la dittatura somocista e aprì un capitolo decisivo nella storia di questo Paese assoggettato dai caudillos e dai dittatori». Così ricostruisce l’inizio della Rivoluzione Sandinista Wilfredo Miranda Aburto, giornalista nicaraguense, co-fondatore di ‘Divergentes‘ e collaboratore di ‘El País‘. «Oggi, a 43 anni di distanza, quel mazzo di principi (benessere sociale, democrazia, pluralismo politico, sviluppo, tra gli altri) non è nemmeno appassito: è polvere da molti anni».
Tra quei guerriglieri pieni di grandi ideali che sconfissero Somoza, vi era Daniel Ortega. Ora, oltre quattro decenni dopo, Daniel Ortega e la moglie Rosario Murillo «hanno consolidato una dittatura familiare in Nicaragua (‘Daniel e Somoza sono la stessa cosa!’ gridavano le persone nelle proteste del 2018) che questo 19 luglio 2022 conclude il suo percorso verso un modello di partito unico e totalitario. Con più di 190 prigionieri politici -compresi personaggi storici della rivoluzione che vengono torturati nel carcere di El Chipote, come Dora María Téllez-, quasi 200.000 esiliati e 355 assassinati dalle loro forze di Polizia e paramilitari, la coppia presidenziale celebra un anniversario che hanno trasformato in una festa elogiativa personale», prosegue Aburto.
Daniel Ortega divenne il capo della giunta di ricostruzione nazionale che prese il controllo del Paese nel 1979, e, nel 1984 vinse le prime elezioni presidenziali libere nella storia del Nicaragua. Nel 1990 è stato messo fuori gioco.
«Ortega è tornato al potere nel 2006, grazie a un patto politico con l’ex Presidente corrotto Arnoldo Alemán, con il quale ha negoziato un tetto del 35% dei voti per essere dichiarato Presidente. Non appena inaugurò il suo ritorno alla presidenza, il caudillo sandinista ricevette enormi quantità di petrodollari dal defunto leader venezuelano Hugo Chávez per rafforzare il suo potere, che, a quel tempo, portava con sé un ideale subdolo e molto poco decifrabile: la perpetuazione in potenza. Così ha regalato alla Chiesa cattolica la criminalizzazione dell’aborto terapeutico, ha falsificato ripetute frodi elettorali per ampliare il suo raggio di influenza e ha cementato un’alleanza corporativa con il grande capitale. Mentre parallelamente divorava tutte le istituzioni del Nicaragua, fino a non lasciare in piedi nessuna manifestazione di autonomia, se non la cieca obbedienza agli ‘ordini dall’alto’», afferma Aburto.
Il Paese, dal punto di vista macroeconomico ha retto, almeno quanto bastava per avere la fiducia del Fondo monetario internazionale, «ma la povertà, la disoccupazione e la disuguaglianza non sono mai migliorate strutturalmente. Il Paese camminava in contemporanea al progetto personalista Ortega-Murillo. Quella che era una democrazia imperfetta si trasformò in un ‘regime ibrido‘ autoritario. Così rimase e Ortega mise la moglie, nominata vicepresidente, in prima linea nella successione costituzionale. Fino a prima del 2018, la coppia presidenziale credeva che tutto fosse pronto per la loro tranquilla perpetuazione al potere, con Murillo che a un certo punto avrebbe assunto la presidenza».
Le cose andarono diversamente. Il punto di svolta è rappresentato delle proteste sociali del 2018 che«hanno scosso il regime e l’insolita repressione da parte di Polizia e paramilitari ha generato il rifiuto popolare. Un rifiuto di quella violenza di colpi letali che ha causato il più grande spargimento di sangue in Nicaragua dal dopoguerra. Il ‘regime ibrido‘ è diventato una dittatura sanguinaria, che uccide, tortura e commette crimini contro l’umanità. Incapaci di ascoltare la richiesta nazionale di democrazia, per un pacifico cambio di modello attraverso le elezioni, gli Ortega-Murillo hanno cominciato a chiudersi, a barricarsi nel loro complesso presidenziale e residenziale chiamato El Carmen. Per loro, il potere non è negoziabile, appartiene a loro, ispirato da una convinzione divina che Ortega sia il ‘prescelto’. Hanno deciso di rimanere al potere con la forza, a prescindere da qualsiasi cosa… nemmeno i valori ‘socialisti, cristiani e solidali’ che dicono -falsamente- di professare».
Così sono stati messi a tacere gli oppositori e costruito«un quadro giuridico per la repressione de facto. Totalmente isolate dalla comunità internazionale, le elezioni generali si sono svolte nel 2021. L’opposizione ha cercato di contestare il potere alle urne, ma la coppia presidenziale ha arrestato tutti i suoi oppositori. Da allora, il totalitarismo si è intensificato, perseguitando e dando la caccia a tutte le voci critiche, inclusi oppositori, femministe, giornalisti, avvocati, difensori dei diritti umani, ambientalisti, scrittori, musicisti, vescovi, parroci, suore, utenti di Twitter, organizzazioni della società civile(più di 1.000 data) e persino i propri militanti che li criticano. La voce dissenziente è un crimine nel Nicaragua degli Ortega-Murillos. La recente ripresa di manu militari su cinque sindaci dell’opposizione pone fine all’ultima scappatoia istituzionale che l’opposizione aveva, e consolida la transizione al modello del partito unico, come a Cuba e in Corea del Nord, a meno di quattro mesi dalle altre elezioni locali senza garanzie».
Secondo un sondaggio CID-Gallup dell’ottobre 2021, alla viglia delle elezioni di novembre nel corso delle quali Daniel Ortega e la moglie sono stati confermati alla presidenza, solo il 19% degli interpellati avrebbe confermato la fiducia a Ortega.
«Tutti gli ideali sollevati dalla Rivoluzione sandinista sono stati seppelliti dalla coppia presidenziale: quattro decenni e tre anni dopo, hanno imposto in Nicaragua un’altra dittatura uguale o peggiore di quella dei Somoza. Un Paese che pensava di aver conquistato la libertà e che non avrebbe mai più avuto prigionieri politici, oggi è un governo totalitario che consolida un regime a partito unico, in cui a El Chipote viene torturata ogni voce critica.È la rivoluzione rapita… e trasformata in tirannia. Si governa con il fucile alla tempia».
In questa situazione, la vicenda di Monsignor Álvarez ha attirato l’attenzione internazionale sulla persecuzione della Chiesa cattolica da parte di Ortega. Conseguenza forse imprevista e che potrebbe trasformarsi in un grave problema per il regime, in quanto finale di una situazione che si è sviluppata negli anni. Quando i vescovi cattolici hanno iniziato chiedere giustizia, il governo Ortega li ha accusati di fomentare un colpo di Stato. Diversi sacerdoti e un eminente vescovo, Silvio Báez di Managua, sono andati in esilio.
«Vivere pubblicamente la fede ha trasformato i cattolici in criminali agli occhi del regime di Ortega-Murillo», scriveInés San Martín, giornalista argentina e capo dell’ufficio di Roma di ‘Crux‘.
Papa Francesco «è rimasto in silenzio sullo stato delle cose in Nicaragua fino a domenica» 21 agosto, poche ore dopo l’arresto del vescovo Álvarez. «Al termine dell’Angelus, il pontefice ha chiesto “un dialogo aperto e sincero”, senza nominare il prelato».
Il silenzio del Papa sulla situazione in Nicaragua, che dura dal lontano 2019, quando erano da poco iniziate le proteste popolari, spiega Martín, appartiene alla‘diplomazia del silenzio pubblico‘, che dietro le quinte vede la diplomazia vaticana attiva. «Diverse fonti vicine alla situazione hanno confermato che la Santa Sede si è mossa per intervenire a favore del vescovo Álvarez. Ma la situazione è ancora più difficile di quanto sembri», afferma Martín. «I vescovi del Paese, in particolare il vescovo Álvarez, il vescovo Silvio José Báez (ausiliario di Managua costretto all’esilio da papa Francesco nel 2019) e il cardinale Leopoldo Brenes di Managua, sono forse le voci più credibili. Ortega ha bisogno di metterli a tacere».
Al ‘bisogno’ politico, si potrebbe perfino aggiungere un ‘bisogno personale’ della moglie di Ortega, secondo Wilfredo Miranda Aburto. «Una fonte legata all’ambiente presidenziale mi ha detto che la visceralità contro Álvarez è dovuta non solo alla sua posizione critica nei confronti del governo, ma anche alle preghiere di esorcismo del monsignore. Il rito fa arrabbiare la coppia presidenziale, principalmente il vicepresidente Murillo. È una donna molto superstiziosa a causa delle sue convinzioni esoteriche».
Il Vaticano, secondo quanto riferisce Inés San Martín, in questa situazione ha fondate ragioni per «temere un’escalation di Ortega», a danno del clero ma anche dei fedeli e più in generale dell’intera popolazione. «La Chiesa in altri Paesi dell’America Latina, come Cile e Brasile, ha subito la repressione di regimi dittatoriali in situazioni in cui la Chiesa era l’unica voce dell’opposizione».
Il Vaticano, poi, deve non solo essere attento alle conseguenze di qualsiasi sua azione, ma anche ponderare tutte le possibili mosse del regime e le relative conseguenze. «È impossibile sapere che tipo di provocazione sarebbe per i fedeli vedere in carcere il vescovo Álvarez e, a sua volta, quale reazione da parte del governo potrebbe suscitare. Eppure, al di là del suo voto di obbedienza, il Vaticano ha poca influenza sul vescovo». Mentre l’influenza del vescovo sui nicaraguensi è molto forte. Afferma Wilfredo Miranda Aburto: «Gli Ortega-Murillo devono calcolare che imprigionare un monsignore così amato, soprattutto nelle montagne settentrionali del Nicaragua, potrebbe sfuggire di mano nonostante lo stato di polizia imposto. Il vescovo non solo mette in dubbio la repressione dopo le proteste sociali del 2018, ma ha anche guidato grandi proteste contro una concessione mineraria nel comune di Rancho Grande, al punto che il governo ha dovuto revocarla. Álvarez ha passato anni a resistere a questa dittatura in cui il culto della personalità delinea Ortega come un semidio eterno».
Quello che sta accadendo in Nicaragua è qualcosa che non dovrebbe riguardare solo il Vaticano o i cattolici che si preoccupano per il proprio futuro, afferma Inés San Martín. «Se l’unica voce forte, chiara e, almeno a questo punto, libera, dell’opposizione viene ‘calmata‘» dallo stesso Vaticano, «Ortega si sentirà inarrestabile e incoraggiato». L’obiettivo della copia Ortega-Murillos, secondo gli osservatori più attenti degli ambienti cattolici del Paese, è quello di epurare i critici religiosi perché non si conciliano con il loro desiderio di una Chiesa muta, indolente e se possibile anche complice. L’approvazione, o almeno il silenzio della Chiesa è un fattore che la copia presidenziale evidentemente considera molto importante in un Paese cattolico come il Nicaragua.
Altresì, la Santa Sede guarda anche alle conseguenze geopolitiche. L’impunità con cui Ortega «ha represso il suo stesso popolo, sta già avendo un effetto domino nei Paesi vicini, come El Salvador, Panama e Guatemala, dove i leader sembrano ogni giorno allontanarsi sempre più dalla democrazia. Se 30.000 nicaraguensi sono fuggiti in poche settimane nel 2018, quale sarebbe il numero di migranti e rifugiati se l’intero subcontinente cadesse preda di regimi oppressivi?», prosegue Inés San Martín.
«E poi c’è anche la Russia da considerare: mentre il mondo si concentra sull’invasione dell’Ucraina da parte di Vladimir Putin, si presta poca attenzione alla sua crescente impronta in America Latina, incluso in Nicaragua, dove l’esercito fa affidamento su armi e mercenari russi», senza considerare che un numero crescente di armi tendono a ‘scomparire’ e a cadere nelle mani di bande organizzate. «L’osservatore permanente del Vaticano nell’Organizzazione degli Stati americani è finora l’unico funzionario della Santa Sede che ha espresso pubblicamente preoccupazione per questo problema».
Secondo Martín, Papa Francesco e la diplomazia vaticana potrebbero ritenere che c’è ancora tempo e spazio per «poter prevenire un’escalation», o forse si stanno preparando «ad affinare la loro attenzione». Fuori di dubbio il fatto che in uno dei Paesi più cattolici dell’America Latina, la preoccupazione del Vaticano si esprima in azioni presenti o in gestazione.
«Esiliare o imprigionare Álvarez con la forza è una mossa rischiosa, ma è coerente con il messaggio esemplare che gli Ortega-Murillo hanno imposto: niente e nessuno è al di sopra di loro, nemmeno un vescovo con il Santissimo Sacramento nelle sue mani, perché in Nicaragua lo Stato, la legge e la religione sono loro; come in Corea del Nord, è l’eucaristia dell’unico partito con il proprio vangelo di repressione», afferma Wilfredo Miranda Aburto.
Al momento la situazione sembra congelata, il timore derivante dalla presenza russa, con armi e uomini sul terreno, aggiunto al timore per una rivolta violenta della popolazione, potrebbe lasciare il Paese nel limbo molto a lungo.