I due presidenti a Sochi per un bilaterale che dal grano ucraino e dai fertilizzanti russi, esportati grazie all’accordo promosso da Erdogan, guarda al Medio Oriente. L’operazione in Siria che Erdogan vuole condurre si inserisce in quello che è il suo progetto nel Medio Oriente: un ritrovato pragmatismo spinto dalla crisi economica che la Turchia sta attraversando
A Sochi, sul Mar Nero, il Presidente turco Recep Tayyip Erdogan e il Presidente russo Vladimir Putin, si sono incontrati per un bilaterale con al centro delle discussioni, gli ultimi sviluppi sulla scena internazionale, ma in particolare la guerra in Ucraina e i progressi sullo sblocco del grano. A margine, ma tutt’altro che di secondo piano, la cooperazione energetica tra i due Paesi, compreso il progetto di centrale nucleare in corso ad Akkuyu, la Siria, e, se anche non nell’agenda ufficiale, la questione droni, quelli che Putin vorrebbe poter costruire direttamente sul suolo russo, e che sarebbero fondamentali nella guerra ucraina.
Per quanto attiene al grano, fino ad ora l’accordo per portare via dall’Ucraina il grano, attraverso il corridoio del Mar Nero, sta funzionando bene. Sembra prendere corpo la possibilità che l’accordo venga prorogato. Il che, per altro, è anche nell’interesse della Russia, visto che insieme al grano ucraino parte quello russo, nonché i fertilizzanti e altri prodotti, schivando le sanzioni imposte dall’Occidente. La dichiarazione di Dimitry Peskov, il portavoce del Cremlino, nel corso di un incontro, nei giorni scorsi, con i giornalisti, che l’accordo sarà rinnovato alla scadenza dei 120 giorni, depone a favore della stabilità dell’intesa.
Erdogan, anche in considerazione del buon clima che si è creato sul grano, non ha abbandonato la speranza di poter imbastire un negoziato tra Russia e Ucraina per giungere a un cessate il fuoco.
Altri due temi, però, sono quelli che stanno più a cuore ai due presidenti. La Siria è il chiodo fisso di Erdogan, i droni quello di Putin.
Negli ultimi mesi, il Presidente turco ha ripetutamente minacciato un intervento militare nel nord della Siria -il quarto- mirato a sottrarre al controllo dei curdi siriani dello Ypg le aree di Tal Rifat e Manbij, e costituire un’area cuscinetto di 30 km di profondità. Un territorio che Ankara gestirebbe tenendo lontani i separatisti curdi e costruendo case per favorire il ritorno dei profughi siriani, attualmente in Turchia. Un progetto rimasto in sospeso, l’area cuscinetto che Ankara pretende per la propria sicurezza non è mai stata completata, e Manbij e Tal Rifat sono rimaste sotto il controllo di Ypg. Erdogan vuole assolutamente ottenere l’OK da Mosca e Teheran per la sua operazione.
Per Erdogan questo sarebbe un risultato importante in vista delle elezioni del 2023,con i sondaggi che al momento lo vedono in svantaggio rispetto a possibili altri candidati.
La Russia, che controlla anche lo spazio aereo siriano, non ha alcuna intenzione di dare ad Erdogan il via libera per un attacco in Siria, Un ‘no‘ ribadito da Putin a Teheran lo scorso 19 luglio, durante il trilaterale Russia-Iran-Turchia, e sulla stessa linea l’Iran.
«I nostri sforzi sforzi diplomatici possono essere rivolti ad altri ambiti, a partire dall’energia», ha detto Erdogan lo scorso lunedi, mentre l’Agenzia di Stato per il Nucleare russa, Rosatom,riceveva un totale di 5 miliardi di dollari per portare a termine la centrale nucleare di Akkuyu, nel sud della Turchia. Altri 15 miliardi saranno trasferiti nelle prossime settimane. Akkuyu sarebbe cosi’ la prima centrale nucleare turca, uno dei più grandi impianti al mondo, costruito in gran parte con i soldi di banche russe come Sberbank e Sovcombank. La Russia copre con il proprio gas il 45% del fabbisogno annuale della Turchia e le compagnie turche hanno in vigore contratti che garantiscono ogni anno forniture per 31.75 miliardi di metri cubi di gas. Nei primi 2 mesi del 2022 la Russia ha fornito il 38% dei 13 miliardi di metri cubi importati dalla Turchia e il 34% dell’energia elettrica della Turchia è generata da impianti a gas.
Numeri che rivelano una dipendenza da parte della Turchia, cui è al momento impossibile trovare alternative e che fanno dell’energia una buona arma per i diplomatici al tavolo.
Il chiodo fisso di Putin si chiama: Bayraktar,drone Bayraktar. Questo drone, capace di compiere missioni di ricognizione e di attacco, è prodotto dalla Turchia ed il drone che sta usando anche l’Ucraina.
La Russia si è già rivolta all’Iran per l’acquisto di droni funzionali alla guerra in corso, ma la necessità è quella di produrli in proprio sul suolo russo. Per Putin il benestare di Erdogan è assolutamente fondamentale, in quanto il «Presidente di Baykar, Kerim Has, ha escluso che la sua azienda possa fornire droni alla Russia, un’azione che certamente causerebbe problemi con la Nato, alleanza di cui la Turchia fa parte», come riporta il ‘Domani‘. E oltre al benestare Putin ha bisogno della cooperazione della Turchia nella prima fase di produzione.
Sul tavolo, così, lo scambio: droni a Putin, in cambio del via libera di Putin a Erdogan per l’operazione in Siria.
L’operazione in Siria si inserisce in quello che è il progetto di Erdogan nel Medio Oriente.
Indubbiamente la striscia di sicurezza di 30 Km, con la preventiva ‘pulizia’ dai miliziani Ypg», l’ala siriana del Pkk, con cui Ankara è in guerra dal 1984- è il disegno di anni della Turchia. Ma è importante anche in riferimento al ritrovato pragmatismo della Turchia in Medio Oriente, ed esprime «il senso di vulnerabilità che c’è dietro a questo».
«La Turchia ha trascorso gran parte dell’ultimo decennio cercando di espandere la propria influenza e rifare il Medio Oriente a propria immagine. Ciò ha creato un’importante linea di battaglia tra il Paese e i suoi rivali che si estendeva dalla Libia alla Siria e al Mediterraneo orientale», spiega Asli Aydıntaşbaş, senior policy fellow del programma Wider Europe all’European Council on Foreign Relations (ECFR).
All’inizio del 2021, la Turchia era isolata in Medio Oriente, e il Partito per la giustizia e lo sviluppo (AKP), il partito di Erdogan, causa i problemi economici del Paese era debolissimo. «Dalla metà del 2021, la Turchia ha tentato di normalizzare le sue relazioni con i Paesi del Medio Oriente. Questo cambiamento è stato guidato dalla politica interna turca, dall’emergere di un Medio Oriente multipolare e dall’intensificarsi della competizione geopolitica», prosegue l’analista.
«Erdogan rimane politicamente vulnerabile in patria, con un’economia in deterioramento e l’opposizione in testa ai sondaggi. La sopravvivenza del suo governo ora dipende dagli sforzi per bilanciare le grandi potenze e trarre finanziamenti dagli ex rivali nel Golfo».
A marzo c’è stata la svolta nelle relazioni con l’Arabia Saudita, determinata dalla rinuncia turca ad occuparsi del caso dell’omicidio del giornalista saudita Jamal Khashoggi nel consolato saudita a Istanbul. A quel punto «Erdogan ha visitato la capitale saudita, dove è stato fotografato in un abbraccio ben coreografato con il principe ereditario Mohammed bin Salman. Pochi mesi dopo, Mohammed bin Salman ha fatto il viaggio ad Ankara».
Era l’inizio della fine della politica assertiva condotta per un intero decennio dalla Turchia. In quel precedente decennio, «Ankara ha sostenuto le propaggini dei Fratelli musulmani in tutta la regione, ha sostenuto le rivolte arabe, ha condannato pubblicamente le politiche interne degli stati del Golfo e ha ampliato le sue attività militari in Siria e Iraq. Nel Mediterraneo orientale, la diplomazia delle cannoniere turche l’ha contrapposta a un blocco composto da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto e Israele».
«Le recenti aperture di Ankara a Riyadh fanno parte di uno sforzo più ampio per migliorare i suoi rapporti con gli ex rivali in Medio Oriente», afferma Asli Aydıntaşbaş. «Erdogan intende adeguare questi rapporti alla nuova realtà sia nella regione che -cosa più importante per lui- nella politica turca. Ora accetta che “dobbiamo entrare in un nuovo processo con i Paesi della regione con i quali condividiamo la stessa fede, le stesse idee. Questo non è un processo per aumentare i nostri nemici, ma per conquistare amici”.
«Come sostengono Julien Barnes-Dacey e Hugh Lovatt dell’ECFR, «gli Stati del Medio Oriente sono sempre più determinati a ridurre la loro dipendenza dall’Occidente e diventare più autosufficienti. Pertanto, in una regione sempre più multipolare, la Turchia non può permettersi di essere una potenza senza partner diversi dal Qatar. Né vuole essere un satellite dell’Occidente. E la trasformazione della Turchia in uno Stato di sicurezza nazionale sotto Erdogan probabilmente la lascia senza un modello di democrazia islamista per cercare di esportare nelle monarchie del Golfo. L’obiettivo principale di Ankara in Medio Oriente è ora quello di impegnarsi in un atto di equilibrio geopolitico che rafforzi l’economia turca e protegga il più possibile i suoi interessi di sicurezza».
«Questo perché, in vista delle elezioni generali nel 2023, Erdogan si concentra principalmente sulla protezione del regime. Dopo due decenni al potere, si trova di fronte a una reale prospettiva di sconfitta elettorale. Ha bisogno di rilanciare l’economia assediata della Turchia in ogni modo possibile. E questa causa sembra meglio servita da un ritorno alle relazioni transazionali con le monarchie del Golfo. Ad esempio, la Turchia potrebbe richiedere finanziamenti dagli Stati del Golfoper prevenire una crisi a breve termine della bilancia dei pagamenti o un’altra svalutazione della valuta. Inoltre, la Turchia dovrebbe trovare più facile andare d’accordo con le altre potenze mediorientali rispetto a una volta, perché le assomiglia sempre più».
Asli Aydıntaşbaş ritiene che ci si debba preparare anche all’eventualità di un cambio di potere ad Ankara. Anche se c’è da riconoscere che nell’arco di pochi mesi -da marzo 2021 ad oggi- la Turchia ha fatto passi da gigante in fatto di stabilizzazione delle relazioni con i Paesi arabi. La Turchia ha aperto canali con Israele, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita. «Lavorando attraverso contatti diplomatici e di intelligence, Ankara ha tentato di attenuare le sue controversie di lunga data con tutti loro. La velocità con cui ciò ha fatto ha sorpreso molti politici europei».
Con l’Europa non è andata così liscia, c’è voluto un po’ più di tempo e lavoro.
«Per l’Amministrazione Biden e i governi dell’UE, le mosse assertive e revisioniste della Turchia nel proprio vicinato sono state una fonte di instabilità regionale. I leader occidentali, compreso Biden, hanno generalmente tenuto a debita distanza la loro controparte turca». La politica di de-escalation non ha migliorato immediatamente i rapporti con l’Amministrazione Biden «ma, col tempo, Washington ha preso atto degli sforzi di Ankara per abbattere le barriere con altri governi mediorientali. Un impulso significativo per l’immagine della Turchia è stato il suo sostegno all’Ucraina, attraverso la vendita di droni armati al Paese e il suo lavoro per impedire alle navi militari russe di entrare nel Mar Nero. Erdogan alla fine si è assicurato un incontro con Biden e i leader dell’UE al vertice della NATO di luglio, dopo aver accettato di revocare il veto della Turchia alle domande di adesione alla NATO di Svezia e Finlandia».
La mossa della Turchia verso la de-escalation, afferma Aydıntaşbaş «può essere stata accelerata da un senso di isolamento in un ordine mondiale multipolare sempre più competitivo, ma è anche guidata dal desiderio di Erdogan di affrontare i suoi problemi interni. Ora affronta la più grande sfida politica del suo tempo al potere, con un’economia a brandelli e il sostegno al suo partito ai minimi storici»
Secondo l’analista ECFR, ci sono dei buoni motivi per mettere in dubbio le sue possibilità di vincere le elezioni del 2023
I motivi vanno dai rifugiati, all’organizzazione dell’opposizione, alla questione curda.
«Con i siriani che rappresentano circa l’80% dei circa cinque milioni di rifugiati in Turchia, la politica siriana di Erdogan sta aumentando la tensione politica interna». «L’opposizione è stata sempre più esplicita sulla questione dei rifugiati, criticando la precedente politica della porta aperta del governo e la gestione della guerra siriana in modo più ampio.»
«Conosciuti da tempo per la loro inefficienza e frammentazione, i partiti di opposizione turchi sono ora uniti e, nonostante le loro differenze ideologiche, hanno formato un’alleanza elettorale volta a sconfiggere Erdogan, simile alla coalizione anti-Netanyahu in Israele e all’alleanza anti-Orban in Ungheria. Ciò rappresenta una sfida crescente al dominio di Erdogan sulla politica turca».
«La Turchia ha subito un declino economico caratterizzato da un’inflazione alle stelle e un calo del tenore di vita. Secondo una ricerca di Metropoll, il 66% degli elettori turchi non crede più che Erdogan possa aggiustare l’economia. Le statistiche ufficiali mostrano che l’inflazione ha raggiunto il 78,6 per cento a giugno. Ma la cifra reale è probabilmente superiore al 150 per cento, come riportato da ENAG , un watchdog indipendente. La Turchia sta ora affrontando la prospettiva di un’altra crisi valutaria mentre si avvia verso la campagna elettorale»-
«Dal 2018, la Turchia ha subito un declino economico, caratterizzato da un’inflazione alle stelle e un calo del tenore di vita. Secondo una ricerca di Metropoll, il 66% degli elettori turchi non crede più che Erdogan possa aggiustare l’economia. Le statistiche ufficiali mostrano che l’inflazione ha raggiunto il 78,6 per cento a giugno. Ma la cifra reale è probabilmente superiore al 150 per cento, come riportato da ENAG , un watchdog indipendente. La Turchia sta ora affrontando la prospettiva di un’altra crisi valutaria mentre si avvia verso la campagna elettorale.»
«Non sorprende che il declino economico della Turchia sia iniziato nel 2018, l’anno in cui il Paese si è ufficialmente trasformato in una presidenza esecutiva che ha concentrato il potere nelle mani di Erdogan. Da allora l’indipendenza delle istituzioni economiche turche, comprese la banca centrale e le agenzie di regolamentazione, si è rapidamente deteriorata. La maggior parte degli economisti incolpa questo decadimento istituzionale, così come le politiche economiche non ortodosse di Erdogan, per la difficile situazione economica della Turchia».
Le casse statali della Turchia sono vuote. Andando contro la saggezza economica convenzionale, Erdogan ha a lungo sostenuto che gli alti tassi di interesse sono la principale causa dei problemi economici del Paese. Quindi, invece di consentire alla banca centrale di aumentare i tassi per controllare l’inflazione, il governo ha utilizzato le sue riserve di valuta estera per cercare di stabilizzare i mercati, vendendo le riserve attraverso le banche statali. A giugno, le riserve nette di valuta estera della banca centrale turca si sono attestate a $ 7,38 miliardi, il livello più basso degli ultimi due decenni»,
In caso di vittoria dell’opposizione alle elezioni del 2023, il nuovo governo di Ankara potrebbe tentare di orientarsi verso l’Europa e quasi certamente cercherà di ripristinare le relazioni della Turchia con l’UE e gli Stati Uniti. Ma, inevitabilmente, i legami economici e le questioni di sicurezza regionale assicureranno che la politica estera della Turchia si concentri sul Medio Oriente.
Una coalizione composta dagli oppositori di Erdogan, probabilmente proseguirebbe sulla via della normalizzazione con i regimi mediorientali. I principali partiti di opposizione -CHP e Good Party- danno priorità al secolarismo come caratteristica primaria delle relazioni esterne della Turchia. Hanno a lungo criticato la politica del governo in Medio Oriente, inclusa la sua simpatia per i Fratelli Musulmani e la sua ingerenza nei conflitti in Libia, Siria ed Egitto. Nel 2017 Kilicdaroglu ha definito i Fratelli Musulmani una “organizzazione terroristica” e ha accusato Erdogan di incontrare i suoi rappresentanti.
Indipendentemente da chi vincerà le elezioni, le questioni mediorientali -comprese le guerre in Libia, Yemen e Siria e la crisi alimentare nella regione- potrebbero rappresentare un’importante apertura per la cooperazione con l’Europa. Mentre la Turchia torna a una politica estera più tradizionale, incentrata sulla protezione della sua sicurezza e dei suoi interessi economici, ha la possibilità di stabilizzare le relazioni con le potenze regionali e contribuire alla risoluzione di tutti e tre i conflitti.
Da diversi anni il CHP chiede pubblicamente la normalizzazione delle relazioni con Egitto e Siria. Se l’opposizione vincesse le elezioni, ciò accelererebbe il processo su entrambi i binari. Il fatto che entrambi i principali partiti di opposizione abbiano votato contro il dispiegamento delle forze turche in Libia suggerisce che sostengono un approccio più tradizionale e diretto ai conflitti nel mondo arabo». Se l’opposizione vincesse, «rappresenterebbe un cambiamento sismico nella regione», afferma l’analista.
Con l’aumento delle tensioni interne, «la questione dei rifugiati dominerà il panorama politico turco per qualche tempo a venire. Sia l’opposizione che il governo cercheranno di compiacere il pubblico proponendo idee su come rimpatriare volontariamente siriani e altri rifugiati, anche se, storicamente, tali sforzi raramente hanno avuto successo».
La Siria, invece, «resta una ferita aperta per la politica turca e una fonte di continue tensioni interne. L’attuale governo si è opposto al regime di Assad per un decennio, ma questo non gli impedirà necessariamente di rivedere la sua politica siriana. Una vittoria di Erdogan nel 2023 potrebbe anche portare a un disgelo nelle relazioni tra Turchia e Siria, soprattutto se i curdi siriani sembravano vicini a un accordo con Damasco. Erdogan ha rivelato che l’agenzia di intelligence estera turca è già in contatto con le autorità siriane. Se Ankara credesse che i curdi siriani sono pronti a raggiungere un accordo con il regime di Assad, probabilmente si rivolgerebbe a Damasco per impedire loro di ottenere un’autonomia formale».
Ciò ha enormi implicazioni per il posizionamento europeo e occidentale in Siria. «Un disgelo nelle relazioni tra Ankara e Damasco avvicinerebbe il regime di Assad alla riammissione nella comunità internazionale. Obbligherebbe, inoltre, l’UE a riconsiderare la sua politica siriana, mettendo in discussione il suo rifiuto di impegnarsi con il regime siriano in modi che potrebbero aiutare a stabilizzare il Paese. I politici europei devono prepararsi a uno scenario post-elettorale in cui Ankara normalizzi gradualmente i suoi rapporti con il regime».