FILE PHOTO: Members of the Ethiopian National Defense Force are seen during a pro-government rally to denounce what the organisers say is the Tigray People’s Liberation Front (TPLF) and the Western countries' interference in internal affairs of the country, at Meskel Square in Addis Ababa, Ethiopia, November 7, 2021. REUTERS/Tiksa Negeri/File Photo

In Etiopia sembrano profilarsi serie possibilità per l’apertura di un processo negoziale che conduca alla pace. Gli ostacoli per le due parti sono politici e di conti aperti con alleati e popolazione esasperata. E poi l’ostacolo religioso-nazionalistico

 

Dopo 18 mesi di guerra a intensità variabile, in Etiopia sembrano profilarsi serie possibilità per l’apertura di un processo negoziale che conduca alla pace. Gli ostacoli, però, sono ancora moltialcuni dei quali perfino indipendenti dalle volontà dei protagonisti dell’una e dell’altra parte, e, secondo alcuni, rischia di profilarsi una pace con già piantati i semi delle prossime guerre.
Se questa predisposizione alla pace deriva dal fatto che, sia il Primo Ministro Abiy Ahmed e il governo federale di Addis Abeba, sia il Tigray, ovvero il suo partito al governo, il Tigray People’s Liberation Front (TPLF), hanno preso coscienza che nessuno dei due può sconfiggere l’altro, tanto è vero che la guerra è in stallo da sei mesi, e, a quanto pare, nessuno dei due ha più l’ambizione di provare a farlo, è altrettanto vero che da qui alla pace il percorso è lungo e tortuoso.

Da settimane circolano rumors circa colloqui segreti tra le due parti, molto probabilmente corrispondenti al vero. E infatti, il 14 giugno, Abiy,parlando al Parlamento ha dovuto smentire dando contemporaneamente la notizia che è stato«istituito un comitato di studio ufficiale sotto la guida del vicepremier», definendolo anche come «comitato di negoziazione», e ha affermato di volere la pace, aggiungendo che «solo perché vogliamo la pace non significa che stiamo conducendo negoziati segreti», promettendo anzi che «i negoziati non vengono condotti senza che il pubblico ne sia a conoscenza». Un discorso «sconclusionato, in parte sermone, in parte castigo e in parte volto a rivisitare la sua grandiosa visione della futura grandezza dell’Etiopia, simboleggiata dalle sue spese sontuose per abbellire la capitale con parchi e palazzi di piacere», lo ha definito Alex de Waal, direttore esecutivo della World Peace Foundation, Research Professor presso la Fletcher School of Global Affairs, Tufts University e Professorial Fellow presso la London School of Economics, nonché grande esperto di Corno d’Africa.
Al centro dell’intervento di Abiy, l’istituzione del comitato, guidato dal suo vice Primo Ministro e Ministro degli Esteri Demeke Mekonnen, per indagare se la pace con il Tigray sia possibile. Nei giorni precedenti, ‘Le Monde‘ aveva riferito che l’ex Presidente nigeriano Olusegun Obasanjo, Alto rappresentante per il Corno d’Africa del commissario dell’Unione africana, stava progettando di convocare colloqui in Tanzania, ad Arusha. Obasanjo, vicino ad Abiy, da tempo si propone come l’unico mediatore. Parallelamente, però, si è concretizzata la volontà a fare da mediatore da parte del Kenya.
Una quantità di mediatori direttamente proporzionali agli ostacoli sulla via della trattativa.
Il problema principale di Abiy è che «è in debitocon le forze potenti che sono determinate a schiacciare il Tigray, vale a dire il governo regionale di Amhara e la vicina Eritrea, governata dal suo bellicoso dittatore, Isaias Afewerki. L’Eritrea ha espresso il suo disappunto per le aperture di pace di Abiy, sostenendo che i tigrini stavano progettando di attaccare l’Eritrea, un segnale sicuro che l’Eritrea sta cercando un pretesto per una propria azione militare», scrive Alex de Waal. Isaias Afewerki è stato, nelle prime fasi della guerra iniziata a fine 2020, un prezioso alleato di Abiy, così come gli Amhara. Due alleati che non permetteranno così facilmente al Primo Ministro etiope di decidere una virata a favore della pace.

La mediazione del Kenya sembra al momentosolida. «Il Presidente del Kenya, Uhuru Kenyatta, ha assunto il ruolo di mediatore dopo il suo incontro con il Presidente Joe Biden in ottobre. In quanto vicino preoccupato, partner privilegiato degli Stati Uniti e dell’Europa nell’Africa orientale e membro sia del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che del Consiglio di pace e sicurezza dell’Unione africana, il Kenya ha costruito con discrezione un’iniziativa di pace credibile. È sostenuto da Washington e dagli Emirati Arabi Uniti». Mediazione accettata sia da Abiy, sia dal Presidente del Tigray, Debretsion Gebremichael. Il quale «ha scritto una lettera aperta a Kenyatta e ad altre figure di spicco internazionali, in cui ha chiarito la sua posizione: che era pronto a negoziare sotto gli auspici del Kenya, non di Obasanjo. Non ha fatto alcun riferimento all’incontro di Arusha di Obasanjo, ma ha esplicitamente incluso il Presidente tanzaniano Samia Suluhu Hassan come uno dei destinatari, invitandola implicitamente a sostenere i kenioti.
Si è rivolto anche allo sceicco Mohamed bin Zayed al Nahyan, ora presidente degli Emirati Arabi Uniti. Dopo essere stati entusiasti sostenitori sia di Abiy che dell’Eritrea Isaias, gli Emirati Arabi Uniti hanno recentemente moderato la propria posizione. Hanno inviato aiuti direttamente al Tigray e, con l’incoraggiamento degli Stati Uniti, ora si considerano un mediatore di pace.
Più significativamente, ha scritto Debretsion, “manteniamo fermo l’accordo esistente tra le parti per incontrarsi a Nairobi per i negoziati ospitati e facilitati dal presidente del Kenya”.Questo ha smentito Abiy: il leader del TPLF ha segnalato che i colloqui erano già stati tenuti e che era stato raggiunto l’accordo sul mediatore», appunto il Kenya.

Anche Debretsion ha una serie di problemi che deve assolutamente risolvere per poter proseguire sulla via del negoziato. «È passato un anno da quando le forze del Tigri hanno riconquistato la loro capitale, Mekelle», afferma de Waal. «Durante questo periodo, hanno costruito una formidabile macchina militare e ristabilito l’amministrazione in tutto il Tigray, ma non hanno aperto nessuno spazio politico in patria. Dopo le atrocità inflitte loro durante la guerra, la maggior parte della popolazione del Tigray non vuole avere niente a che fare con il resto dell’Etiopia e teme che i leader del TPLF stiano facendo accordi alle loro spalle», un clima non certo favorevole a mediazioni.
Intervenendo alla ‘BBC‘, «il diplomatico tigrino Fisseha Asgedom ha elencato i cinque punti chiave di negoziazione: il ripristino dei confini del Tigray prima del conflitto; un referendum sull’autodeterminazione; un processo internazionale ai responsabili delle atrocità;risarcimento per le perdite; mantenimento dell’esercito da parte del Tigray». Punti durissimi per la controparte, Abiy, ma che il TPLF è consapevole di poter difendere solo relativamente, non ultimo perchè la carestia si sta aggravando e il Tigray è tagliato fuori dal resto del mondo, è bloccato il traffico commerciale, sono bloccati i servizi bancari, le telecomunicazioni, le terre non si riescono coltivare principalmente per mancanza di fertilizzanti. Il Tigray è assediato, e «se l’assedio non viene revocato, sarà difficile resistere al clamore popolare affinché il TPLF utilizzi il suo esercito per rompere l’accerchiamento», afferma de Waal, il che vorrebbe dire riprendere la guerra, invece di andare al tavolo delle trattative.

Non bastasse, c’è l’incomodo: l’Oromia. I combattimenti non cessano «nella vasta regione di Oromia che si estende nel centro, nell’est, nell’ovest e nel sud dell’Etiopia. Un’insurrezione guidata dall’Oromo Liberation Army», OLA, l’Esercito di Liberazione di Oromo, che si sta rafforzando «e, nonostante l’impegno di Abiy di ‘distruggerli’, i combattimenti si sono invece allargati. Un vecchio gruppo ribelle, il Gambela Liberation Front, ha recentemente annunciato la sua resurrezione e la sua alleanza militare con l’OLA».
Il più importante leader dell’opposizione Oromo,Jawar Mohammed, rilasciato dal carcere dopo 5 anni, per essere stato responsabile della protesta dei giovani Oromo privati dei diritti civili che chiedevano un cambiamento radicale, ha lanciato «un chiaro e appassionato appello alla pace. Senza la pace tra tutti gli etiopi, ha detto, non c’è via d’uscita dalla crisi per gli Oromo o per chiunque altro. È una presa di posizione coraggiosa. Molti dei giovani radicali Oromo ora sostengono l’OLA e non vogliono sentire parlare di compromesso. Alcuni accusano Jawar di voler mettersi nei panni dell’uomo che, dicono, ha dirottato la loro rivoluzione: Abiy».

Puntualmente ignorata quando si guarda a questo Paese, c’è una componente che nel processo di pace rischia di essere assolutamente dirimente: la componente religiosa, la quale è alle radici del nazionalismo etiope. «Un antico imperialismo cristiano sta risorgendo oggi in Etiopia sotto il Primo Ministro Abiy Ahmed. Questa visione arcaica promette di unificare l’Etiopia e ripristinare la sua gloria divina», mentre piuttosto sta sconvolgendo l’Etiopia e alimentando sofferenze catastrofiche, afferma Andrew DeCort, docente di etica religiosa e politica e studi etiopi, direttore fondatore dell’Institute for Faith and Flourishing e co-fondatore del Neighbor-Love Movement. «La sua convinzione principale è che l’Etiopia sia una Nazione cristiana creata e destinata da Dio alla grandezza sotto la guida cristiana. Oggi accresce l’inimicizia e mette a tacere le voci critiche che chiedono la fine della guerra».
Prima del 1974, l’Etiopia è stata un impero cristiano per 1.600 anni. «L’anno 2018 ha rappresentato una svolta importante nella storia religiosa e nella vita pubblica dell’Etiopia.

Il risentimento è esploso durante le proteste di Oromo dal 2014 al 2018 e l’Etiopia è diventata rapidamente ingovernabile. Nel 2018, l’allora Primo Ministro etiope Hailemariam Desalegn, il primo sovrano protestante dell’Etiopia, si è dimesso e Abiy Ahmed è stato nominato nel marzo 2018. Abiy era un giovane leader Oromo.

Abiy è diventato il primo Primo Ministro evangelico dell’Etiopia. Suo padre era musulmano, sua madre ortodossa e Abiy si convertì al pentecostalismo poco più che ventenne. (In Etiopia, protestantesimo, evangelicalismo e pentecostalismo si sovrappongono al cristianesimo) Abiy è stato acclamato da molti etiopi, in particolare evangelici, come un messia, come un nuovo ‘Mosè’ o ‘re David’ che avrebbe salvato l’Etiopia dalla disintegrazione».
Nell’Etiopia di Abiy, l’imperialismo cristiano sta rinascendo e la sua violenza sta devastando il Paese, mettendo i vari gruppi di etiopi l’uno contro l’altro. In questo clima di odio e violenza di Stato dovrebbe partire il negoziato di pace.

 

(La seconda parte di questo servizio è stata pubblicata il 24 giugno 2022: ‘Etiopia: l’imperialismo cristiano che non vuole la pace’)