L’Ukraine Defence Consultative Group (UDCG) nato a Ramstein; il gap di almeno 10 o 15 anni in fatto di elettronica nei velivoli e nei carri russi; l’idea occidentale di vittoria che sta cambiando puntando sconfiggere, se non addirittura di distruggere, l’esercito russo sul campo. Sono i fatti che stanno determinando questa fase della guerra

 

 

«L’uomo russo ha bisogno di qualcosa in cui credere… Credere in ciò che è elevato, sublime. Impero e comunismo sono radicati nel profondo del nostro cervello. Ci è più familiare ciò che è eroico». Da ‘voci’ raccolte da Svetlana Aleksievič

Ormai sono trascorsi due mesi dall’inizio di una guerra che nessuno immaginava potesse scoppiare davvero. In queste ore, da Mykolayiv a Kharkiv, l’esercito russo combatte una decisiva quanto faticosa offensiva, mentre i soldati ucraini rimangono aggrappati con le unghie e coi denti an Odessa e al Donbass. Ma è tutto qui? Davvero si sta sfiorando un conflitto continentale per una regione poco più grande del Lazio? E’ il momento di intravedere, tra il fumo della battaglia, gli aspetti di questa guerra che, sebbene combattuta con sistemi del secolo scorso, vuole determinare gli equilibri del prossimo. Per farlo non partiremo dal protagonista del dramma, ma dal suo antagonista, gli Stati Uniti.

Di fronte a questa guerra gli USA si trovano oggi nella stessa posizione in cui al tempo del Vietnam si era trovata l’Unione Sovietica e come allora l’impegno massiccio, assurdo e maldestro dello strumento militare ha dato agli USA possibilità inaspettate.
Tanto per iniziare, le decisioni prese alla riunione di Ramstein sembrano aver determinato il superamento del pericoloso antagonismo diretto tra NATO e Federazione russa, introducendo un terzo personaggio, l’Ukraine Defence Consultative Group (UDCG). Così almeno sembrerebbe nelle intenzioni americane e britanniche, che hanno affiancato ai trenta membri dell’alleanza atlantica altri quattordici Paesi sparsi un po’in tutto il mondo.
Il neonato UDCG, che ha promesso di incontrarsi ogni mese, sostanzialmente solleverà la NATO dal coordinare l’invio di armamenti all’Ucraina, immaginata in guerra ancora per un tempo tutt’altro che breve. Agli occhi di Washington e di Londra sarebbe, dunque, questa la soluzione che permetterebbe di superare i vincoli e le limitazioni propri di un’alleanza che proprio dal bilanciamento e dalla continua e attenta diplomazia interna trae la sua forza, ma anche la ragione della sua lentezza. E’ bene ricordare che in ambito NATO si deve a Francia, Germania, Grecia, Ungheria, Turchia e non certo ultima all’Italia l’atteggiamento tutto sommato misurato che l’Alleanza ha finora dimostrato nel reagire alla crisi ucraina. Fuori da queste regole la UDCG sarà in grado di avere altrettanta prudenza? E Mosca si accontenterà del cambio di interlocutore? Lecito è avere qualche dubbio.
Nel campo delle iniziative di questi giorni brilla non tanto l’assenza dell’Unione Europea, che sembra preferire il ruolo di notaio a quello di co-protagonista, quanto della Cina e dell’India. Insieme queste due potenze raggruppano circa la metà dell’umanità, oltre ad essere dei giganti economici e delle potenze atomiche. Tuttavia non parlano né sembrano prendere parte attiva ai guai del nostro vecchio continente. E non è un buon segno. Come non è certo un buon segno che il segretario generale delle Nazioni Unite sia ricevuto a cannonate durante la sua visita a Kiev del 25 aprile scorso. Segnale inequivocabile non solo che non si deve disturbare il manovratore, ma che l’ONU sia la prima vittima della guerra ucraina.

Dopo Ramstein gli Stati Uniti prendono la direzione di una nuova coalizione, dove come ogni volta forniranno almeno il 70% dei mezzi, delle armi e dei materiali, ma dove potranno disporre di una maggiore libertà di azione. Lo stesso, anche se in misura minore, si può pensare anche per tutti gli altri quarantatré Paesi coinvolti nella UDCG che fuori dai vincoli e dai trattati NATO potranno calibrare di volta in volta il livello e la qualità della loro partecipazione al fronte anti-russo.
Tutto bene? Dipende come sempre dai punti di vista. Viene infatti da chiedersi fin dove i meccanismi di compensazione, riflessione e valutazione propri della NATO potranno influire anche sull’Ukraine Defence Consultative Group, che di fatto è fuori dall’Alleanza. Non è da escludere infatti che in questo contesto qualche Paese particolarmente sensibile al fiato caldo dell’Orso russo si spinga più avanti del dovuto.
Fin qui si è trattato di prassi politica, ma c’è da rilevare anche un cambiamento se non nella teoria almeno nelle strategie che sottendono alla prassi. L’Ucraina ha infatti permesso di far intravedere quale potrebbe essere la nuova risposta di questa parte del mondo a una futura crisi di vaste proporzioni. Anche se paventata da più parti non si parla più di guerra come durante il Nuovo Ordine mondiale, ma di confronto diretto a tutto campo. Vale a dire misurarsi sul piano economico, commerciale, finanziario, della gestione dei flussi di merce e certo non ultimo in campo militare. I questo prendersi le misure i mezzi e le strategie sembrano illimitate, dall’insulto presidenziale, all’embargo totale, fatta eccezione per il ricorso alla guerra aperta per ora di esclusivo appannaggio delle forze armate ucraine.

Diamo ora un cenno al protagonista di questo dramma della steppa: la Russia e Vladimir Putin, o meglio la Russia di Putin. Di fronte alla complessa e avvolgente strategia occidentale, si nota come la Russia sia in una posizione di relativa debolezza, condannata dalla sua stessa struttura a contrastarne efficacemente solo l’aspetto militare e subendo invece nella assoluta passività la pressione economico-finanziario.
Ad uno sguardo più attento non sfugge, inoltre, che anche sul piano militare la Russia non sta agendo in piena libertà. Al di là dei proclami e delle minacce, rimane, infatti, ancora chiuso nel cassetto il ricorso massiccio all’aviazione strategica, così come quello alla mobilitazione generale, per non parlare dell’armamento chimico o peggio ancora nucleare. A questo proposito, l’appello alla minaccia, più o meno velata, di impiegare armi nucleari, puntualmente contraddetta dopo pochi giorni dal richiamo che questo tipo di arma potrebbe essere utilizzata solo in caso di minaccia esistenziale, è piuttosto un’ammissione di impotenza.
Certamente Putin sta evocando l’apparizione di armi terribili e segrete che capovolgeranno l’esito del conflitto e si spera che stia bluffando. Non sfugge, infatti, che l’armata russa qualche problemino ce l’ha, e non tutti potranno essere risolti dal mirabolante apparire dell’annunciata alabarda spaziale. Che fine ha fatto l’eccellente carro armato T-14 ‘Armata’? Dopo la parata sulla Piazza Rossa nessuno l’ha più visto, come nessuno ha visto il veicolo trasporto truppe che sostituirà lo storico BMP-3, vale a dire il T-15. Sui campi dell’Ucraina si vedono ancora T-80 e T-90, per carità ammodernati e adeguati ma pur sempre vecchi di almeno trent’anni. A giudicare dai bassissimi livelli produttivi della Ural Vagon Zavod, una delle maggiori fabbriche di carri armati al mondo, la situazione non migliorerà presto. Ma i guai non finiscono qui.
Nel primo conflitto classico dalla fine della seconda guerra mondiale, gli equipaggi dei carri come dei velivoli russi si sono accorti che tra i loro mezzi e le armi occidentali che devono contrastare c’è un gap di almeno dieci o quindici anni e si parla della solo elettronica. Anche il GLONASS, sistema di localizzazione satellitare vitale per i movimenti a terra, per la condotta del tiro di artiglieria come per l’accuratezza del bombardamento aereo, è solo simile all’americano GPS, lasciando un rateo d’errore accettabile per una gita in auto ma non per un missile.
La lista delle lagnanze potrebbe continuare, ma in sostanza si vede che alla prova dei fatti, aver privilegiato la quantità e la rusticità alla precisione e all’affidabilità qualche problema lo sta dando.

Mentre la Russia è quindi costretta a giocare di rimessa, la strategia americana, almeno quella di primo livello, non fa certo mistero del suo obiettivo, che si ritrova nelle parole conclusive della conferenza di Ramstein quando si dichiara che … la Russia deve essere indebolita militarmente per evitare che faccia di nuovo quello che ha fatto in Ucraina… Tradotto significa che la Russia deve essere ricondotta a una potenza di seconda fascia, priva cioè di una completa libertà d’azione. Sarebbe questa dunque la fine di un ciclo?
Alla Russia sovietica, impermeabile ai valori cardine della modernità, era infatti seguita la breve e dolorosa stagione di Eltsin, regno della libertà individuale e della feroce economia di mercato stroncata poi dall’avvento di Putin, che aveva comportato la fine delle neonate forme di democrazia, la chiusura delle voci d’opposizione, il varo all’interno di una democrazia autoritaria e all’esterno di una politica espansionistica; non ultimo il recupero della grande narrazione sovietica e del mondo russo.
A questo gli USA e gran parte del mondo occidentale sembrano ora determinati a sostituirne un’altra cosa, una qualsiasi pur che sia. Se questo è l’obiettivo viene da chiedersi in quale modo s’intende quindi conseguirlo. Anche qui ci sono novità.

Quello che sembra stia per cambiare è l’idea di vittoria. Non si tratta più, come negli anni del reaganismo, di piegare Mosca imponendole costi insopportabili per un’eventuale guerra, e neppure di incoraggiare e finanziare la sedizione interna, sia essa popolare o dell’oligarchia economico-mafiosa che sostiene oggi il regime. Entrambe queste linee di azione, largamente utilizzate in passato, hanno mostrato grossi limiti nel domare l’Orso russo.
Ecco che appare una nuova frusta da affiancare a quelle precedenti. Si tratta di sconfiggere, se non addirittura di distruggere, l’esercito russo sul campo, magari al termine di una guerra lunga che lo sfianchi e lo demoralizzi.
L’idea ha senza dubbio qualche fondamento nella storia recente, se è vero che nel destino di quello sterminato Paese è la situazione militare sul terreno che condiziona il processo politico. E’ stato così nel 1917, quando il regime zarista è crollato innanzitutto a causa della sconfitta e della demoralizzazione dell’esercito, così come sono state le infelici esperienze in Africa e soprattutto in Afghanistan a innescare la crisi dell’URSS. Una grave sconfitta in Ucraina otterrebbe lo stesso risultato? Non sappiamo se Putin abbia mai riflettuto su questo, né se la sua azione sia guidata anche da questa preoccupazione, fatto sta che le prossime settimane appaiono decisive per entrambi gli schieramenti. Come al solito: vedremo.

Di Paolo Capitini

Il generale Paolo Capitini, ha preso parte a diverse operazioni all’estero (Somalia, Bosnia, Kosovo, Ciad e Repubblica Centro Africana, Haiti e Libia) e ha prestato servizio presso il Comando Operativo di Vertice Interforze a Roma, presso il Corpo di Reazione Rapida della NATO a Lille e la Scuola Sottufficiali Esercito a Viterbo. Esperto di scienze strategiche e di storia militare.