Nè il gas né il petrolio russo potranno essere sostituiti a breve, neanche dalle forniture americane, per motivi logistici e infrastrutturali, ma anche per motivazioni connesse ai prezzi del petrolio in particolare e del gas. L’analista di mercato Jeffrey Halley spiega il perchè. Eppure la crisi potrebbe essere opportunità per la transizione verde

 

Ieri 27 aprile, al 63° giorno di guerra ucraina, la Russia ha sferrato il colpo al momento più forte contro l’Occidente in risposta delle sanzioni di quest’ultimo: l’azienda energetica statale Gazprom ha dichiarato di aver sospeso le forniture di gas naturale a Bulgaria e Polonia, responsabili di aver respinto l’ultimatum del Presidente Vladimir Putin di pagare in rubli, anziché in euro. Finora, l’Ungheria è l’unico Stato membro dell’UE che si è detto disposto a pagare in rubli, ma rappresenta solo una piccola parte delle vendite complessive di gas russo in Europa.
La Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha affermato in una notache la sospensione equivale a un ‘ricatto’ e che gli Stati membri dell’UE si sono incontrati per colloqui di emergenza e Polonia e Bulgaria «stanno ora ricevendo gas dai loro vicini dell’UE. Questo mostra prima di tutto l’immensa solidarietà tra noi, ma mostra anche l’efficacia degli investimenti passati, ad esempio negli interconnettori e in altre infrastrutture del gas». Circa la tenuta della solidarietà europea, gli analisti di Eurasia Group sollevano un problema: «Il problema più grande è se le società private sfideranno i loro governi accettando di pagare in rubli, e almeno quattro avrebbero accettato di farlo. Per ora, Paesi europei più grandi come la Germania hanno promesso che condivideranno le loro forniture di gas con Bulgaria e Polonia fintanto che i tubi russi rimarranno chiusi. Se questa solidarietà reggerà, e se l’UE continuerà con i piani per ridurre drasticamente la sua dipendenza dal gas russo, l’influenza di Mosca sugli europei potrebbe non essere così forte come pensava Putin. Detto questo, c’è da scommettere che i consumatori europei non saranno disposti a sopportare prezzi più alti a tempo indeterminato, in particolare una volta che l’inverno tornerà di nuovo».
La Commissione, prosegue la nota della Presidente von der Leyen «intensificherà inoltre il suo lavoro con i cosiddetti gruppi regionali degli Stati membri, che possono fornire reciprocamente la solidarietà più immediata. Ciò mitigherà qualsiasi impatto su possibili interruzioni del gas». «L’era dei combustibili fossili russi in Europa volgerà al termine. L’Europa sta andando avanti sulle questioni energetiche».

La Polonia e la Bulgaria, affermano gli esperti, potrebbero farcela a far fronte a questi tagli e trovare le forniture che vengono meno dalla Russia da altri Paesi.
Sebbene il gas russo abbia rappresentato circa il 55% delle importazioni polacche totali del 2020, il Paese ha iniziato a diversificare le sue fonti energetiche negli ultimi anni. Ha costruito un terminale GNL e si prepara ad aprire un gasdotto verso la Norvegia entro la fine dell’anno. Inoltre, il suo deposito sotterraneo di gas è al momento pieno per quasi l’80%. E i flussi di gas lungo il gasdotto Yamal, la rotta di consegna interrotta dalla Russia, si stavano già esaurendo, le consegne hanno rappresentato meno del 2% delle consegne di gasdotti della Russia in Europa dall’inizio dell’anno.
La Bulgaria, invece, è più esposta, sostengono gli analisti del settore, ciò perchè fa affidamento sulla Russia per quasi il 75% delle sue importazioni di gas, secondo i dati dell’UE. Ma il suo governo ha dichiarato di aver preso provvedimenti per trovare forniture alternative-intanto sta costruendo un gasdotto verso la Grecia- e per il momento afferma di non dover ricorrere a misure restrittive dei consumi.
Alexander Mihailov, Professore Associato in Economia all’Università di Reading, propone una lettura positiva: «La mia ricerca economica sull’apprendimento sociale suggerisce che le persone, così come le imprese e le società in generale, si adattano continuamente in modo positivo alle situazioni in evoluzione».Ricerche che hanno dimostrato che «per migliaia di anni le società umane si sono evolute economicamente sperimentando e imparando a conoscere il loro ambiente. Sono diventati abili nel rispondere a come funziona e cambia, a volte gradualmente, a volte bruscamente». Applicato alla situazione odierna, il messaggio chiave è che «i Paesi dell’UE alla fine si adatteranno ad abbandonare la pesante dipendenza dall’energia russa. Ciò sarà costoso nel breve periodo, ma praticabile e vantaggioso nel lungo periodo».

Il problema è l’Unione Europea nel suo complesso, troppo dipendente dalla Russia, per gas (per il 45%), ma anche per petrolio greggio e carbone. Se la Russia taglia le forniture di gas ad altri Paesi dell’UE, in particolare alle grandi economie più dipendenti da tali forniture, Germania e Italia nello specifico (che per altro hanno già dichiarato di voler pagare in Euro, piuttosto che in dollari), la resistenza dell’Europa rischia di scricchiolare.

Gli impianti di stoccaggio del gas dell’UE sono pieni per circa il 32%, secondo Gas Infrastructure Europe. Questo, spiega ‘CNN‘, è ben al di sotto dell’obiettivo dell’80%, da raggiungere entro novembre, che la Commissione UE ha fissato per i suoi Stati membri.Gli analisti di Berenberg prevedono che l’Europa arriverà al tardo autunno prima che inizi a rimanere senza gas se la Russia dovesse interrompere bruscamente le sue forniture. Questo anche perchè la UE da una parte ha evitato fino ad ora sanzioni totali contro l’energia russa, e contestualmente si è mossa in queste settimane per trovare forniture alternative e ridurre fin da subito la domanda. Successivamente ha messo al bando il carbone russo e si è mossa per valutare le sue opzioni rispetto al petrolio. Subito dopo l’invasione russa dell’Ucraina, a marzo, l’Unione europea si è impegnata a ridurre il consumo di gas russo del 66% entro la fine di quest’anno e a rompere la sua dipendenza dal petrolio e dal gas russi entro il 2027. Tra le prime azioni per affrancarsi dalla Russia, la UE ha trovato un accordo con gli Stati Uniti per importare più gas liquefatto (GNL) quest’anno. La Germania sta accelerando la costruzione di terminali GNL e l’Italia ha firmato accordi con Egitto e Algeria.
Teoricamente, ci spiega Jeffrey Halley, Senior Market Analyst di OANDA per l’Asia Pacifica, con oltre 30 anni di esperienza nel settore, “il gas naturale statunitense potrebbe coprire le carenze dell’Europa. Il problema sta nella produzione e nella logistica. Il Nord Europa non ha abbastanza terminali di rigassificazione e infrastrutture di gasdotti tra i Paesi per elaborare il prodotto proveniente dagli Stati Uniti, o altro gas naturale trasportato dalle navi. La principale capacità in eccesso per farlo si trova in Spagna. Purtroppo, ancora una volta, l’Europa non dispone della necessaria connettività di gasdotti dalla Spagna al Nord Europa. Quindi, il problema infrastrutturale e logistico che dicevo. Questi problemi possono essere affrontati con la giusta quantità di finanziamento e la volontà di costruire rapidamente tali infrastrutture, ma stiamo parlando di anni comunque”. Stesso discorso, prosegue Halley, per quanto riguarda la necessità di avere abbastanza navi specializzateper trasportare le quantità richieste di GPL attraverso l’Atlantico. Qui, ancora una volta, ci sono vincoli che non possono essere risolti in pochi mesi”.

Gli analisti puntano l’attenzione sulla Germania. «La più grande economia europea importa in genere circa il 55% del suo gas dalla Russia, secondo il suo ministero dell’Economia. Sebbene nelle ultime settimane sia riuscita a ridurre la quota delle importazioni russe al 40%, un arresto improvviso sarebbe disastroso per l’industria pesante tedesca, che è già alle prese con l’impennata dei prezzi dell’energia e la carenza di materie prime. Una rottura improvvisa con la sua principale fonte di energia potrebbe portare a un taglio della produzione e delle esportazioni e a minacciare la sopravvivenza di molti dei piccoli e medi produttori del Paese.

La scorsa settimana la banca centrale tedesca ha affermato che un arresto improvviso spingerebbe l’economia in una profonda recessione. Circa 550.000 posti di lavoro e il 6,5% della produzione economica annua potrebbero andare persi nel corso dell’anno in corso e del prossimo, secondo un’analisi di cinque dei principali istituti economici del Paese».

L’Unione europea prepara un sesto pacchetto di sanzioni contro la Russia, da varare in settimana, equesto dovrebbe includere anche lo stop, graduale, al petrolio russo, secondo le informazioni che stanno filtrando da Bruxelles.
Durante la notte tra mercoledì e giovedì, “i prezzi del gas naturale in Europa sono aumentati in risposta ai fatti di ieri, mentre i prezzi del petrolio sono aumentati solo modestamente. Il motivo è che le preoccupazioni per la crescita colpita dalla politica cinese di zero Covid stanno limitando l’aumento dei prezzi del petrolio. La logica è che una crescita più lenta della Cina equivale a una crescita più lenta dell’area asiatica, la quale equivale a un consumo di petrolio più basso. Detto questo, i crescenti timori di un’ulteriore armamento dell’energia da parte della Russia (divieti di esportazione in Europa), fungono da supporto per i prezzi del petrolio”, ci spiega Jeffrey Halley.
Ieri il ‘New York Times‘ è intervenuto proprio sulla questione petrolifera. «La produzione di petrolio da parte delle compagnie energetiche statunitensi è sostanzialmente piatta ed è improbabile che aumenti per almeno un altro anno o due. Se l’Europa smetterà di acquistare petrolio e gas naturale russi, come hanno promesso alcuni dei suoi leader, non sarà in grado di sostituire presto quell’energia con combustibili dagli Stati Uniti».
E spiega il quotidiano americano: «La produzione di petrolio degli Stati Uniti è aumentata di meno del 2%, a 11,8 milioni di barili al giorno, da dicembre e rimane ben al di sotto del record di 13,1 milioni di barili al giorno stabilito nel marzo 2020 appena prima che la pandemia paralizzasse l’economia globale. Le previsioni del governo stimano che la produzione petrolifera americana raggiungerà una media di soli 12 milioni di barili al giorno nel 2022 e aumenterà di circa un altro milione nel 2023. Tale aumento sarebbe ben al di sotto dei quasi quattro milioni di barili di petrolio che l’Europa importa dalla Russia ogni giorno».
I dirigenti di 141 compagnie petrolifere intervistate dalla Federal Reserve Bank di Dallas a metà marzo hanno offerto diverse ragioni per cui non stanno pompando più petrolio. Ma la ragione di fondo sono i timori sui prezzi. Le società statunitensi, spiega il ‘New York Times‘, «hanno bisogno che i prezzi del petrolio raggiungano una media di soli 56 dollari al barile per raggiungere il pareggio, poco più della metà del prezzo attuale. Ma alcuni sono preoccupati che il prezzo possa scendere fino a 50 dollari entro la fine dell’anno».
L’industria statunitense dello shale sta attualmente operando in condizioni finanziarie molto più rigorose rispetto agli anni precedenti”, spiega Halley. “Questo perché la sovraccapacità dilagante ha lasciato il settore in gravi difficoltà finanziarie quando i prezzi dell’energia sono crollati. Azionisti e banche stanno ora trattenendosi”.
Secondo Ben Shepperd, Presidente della Permian Basin Petroleum Association, sentito dal quotidiano newyorkese: «Se fossimo convinti che i prezzi del petrolio si mantenessero a livelli di 75 dollari al barile o più per altri tre anni, vedremmo un livello più elevato di dispiegamento di capitale», tale convinzione non c’è solo negli USA, ma neanche altrove. «Anchel’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e altri membri dell’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio si sono rifiutati di pompare molto più petrolio dall’inizio della guerra russa in Ucraina», e di rispondere all’appello della Casa Bianca.

I motivi per i quali i prezzi potrebbero nuovamente scendere rapidamente, come accaduto nel passato, vanno dal fatto che la Russia potrebbe perdere la guerra e in questo caso a breve il petrolio russo, come il gas, potrebbe rientrare sul mercato, fino al Covid-19 con i blocchi in Cina che potrebbero rallentarne l’economica, riducendo la crescita globale e la domanda di energia, fino alla possibilità che si concretizzi un nuovo accordo sul nucleare iraniano, che potrebbe aprire il rubinetto delle esportazioni di petrolio dall’Iran.
Il ‘New York Times‘ sottolinea come le grandi aziende petrolifere americane stanno di fatto tirando i remi in barca, il che ha sostanzialmenteha «cambiato completamente il modello». Pioneer Natural Resources, uno dei principali produttori del Texas che l’anno scorso ha acquisito altre due compagnie petrolifere, «non punta più ad aumentare la produzione del 20 percento, come aveva fatto negli anni passati. Ora punta a crescere solo del 5%. L’amministratore delegato della società, Scott Sheffield, ha dichiarato di voler restituire l’80% del suo flusso di cassa al netto da spese e tasseagli azionisti». E circa gli azionisti: «Wall Street non è entusiasta di finanziare nuovi progetti di combustibili fossili. Alcuni investitori preoccupati per il cambiamento climatico stanno invece investendo i loro soldi in energie rinnovabili, auto elettriche e altre attività». Il motivo è che sono arrivati alla conclusione che «il recente aumento dei prezzi dei combustibili fossili sarà di breve duratae che è meglio investire in aziende e industrie che ritengono abbiano un futuro migliore». Anche perchè per quanto Biden abbia chiesto loro di produrre di più, due milioni di barili in più da inviare in Europa, sono convinti che la sua Amministrazione tornerà alla politicameno petrolio e gasquando l’emergenza verrà meno. Infatti, l’Amministrazione Biden conosce bene le preoccupazioni degli ambientalisti per«l’assegnazione di più permessi per l’estrazione di petrolio su terreni pubblici e la costruzione di nuovi terminali per esportare gas naturale in Europa», temono che l’emergenza causata dalla guerra ucraina alla fine «aumenterà la dipendenza del mondo dai combustibili fossili. Ma i funzionari dell’Amministrazione hanno risposto che la loro enfasi sull’aumento della produzione di petrolio e gas non scoraggerà gli sforzi a lungo termine per effettuare una transizione verso un’energia più pulita». «»
La questione dei nuovi permessi federali “viene lentamente affrontata”, ci dice Jeffrey Halley. “La lobby ambientalista, il governo degli Stati Uniti, e in effetti gran parte del mondo, devono accettare che il prezzo per combattere una guerra economica contro la Russia, e sostenere gli alleati degli Stati Uniti in Europa, richiede molta più flessibilità nell’applicazione della transizione verde. Fondamentalmente, non possiamo rimuovere definitivamente l’energia russa dai mercati mondiali nel breve e medio termine, senza sacrificare il calendario della transizione energetica. Nel caso dell’Europa, ciò significa anche mantenere il carbone e il nucleare più a lungo. Ci sono molte disconnessioni e atteggiamenti da testa conficcata nella sabbia su questo problema. I Verdi in Germania devono, francamente, diventare realistici. L’Europa ha fatto gran parte del letto in cui si trova ora a giacere a causa della sua stessa ‘strategic nativity’, qualcosa di cui avverto da molto tempo. Ritengo, tuttavia, che la situazione in Ucraina galvanizzerà l’Europa e che insieme potranno superarla, anche se non senza dolore”.

La dichiarazione della Presidente della Commissione UE, von der Leyen, sfiora la questione spinosa degli obiettivi climatici connessi all’urgenza della diversificazione dei Paesi di approvvigionamento, e delle fonti.

Il Center for Strategic and International Studies (CSIS), think tank tra i più quotati al mondo per gli studi politici e le analisi strategiche su questioni politiche, economiche e di sicurezza in tutto il mondo, in un recente intervento sostiene: «In quanto più grande produttore mondiale di petrolio e gas, gli Stati Uniti possono svolgere un ruolo unico nel rafforzare la sicurezza energetica nei prossimi mesi e anni. Petrolio e gas dagli Stati Uniti potrebbero consentire sanzioni più severe contro l’energia russa, minando un pilastro fondamentale del regime di Vladimir Putin. Ma l’aumento della produzione di idrocarburi dagli Stati Uniti non implica un mondo in cui il cambiamento climatico è una questione di secondo livello. Al contrario,richiede una strategia su misura per supportare l’industria del petrolio e del gas come misura in tempo di guerra. Significa un aumento limitato nel tempo della produzione di petrolio per sostituire il petrolio russo, una funzione per la quale i pozzi di scisto sono ideali dato il loro rapido tasso di declino». Accompagnando il tutto dagli sforzi per aumentare le esportazioni di energia pulita dagli Stati Uniti.
«Il principio guida per gli Stati Uniti dovrebbe essere quello di consentire una forte riduzione delle esportazioni russe di petrolio e gas, in gran parte aumentando la produzione statunitense di petrolio e gas, ma senza un corrispondente aumento delle emissioni cumulative di gas serra. Con alcune politiche creative, un tale compito è possibile».

Mats Engström, analista e già vice Segretario di Stato presso il Ministero dell’Ambiente svedese e consigliere politico del Ministero degli Esteri per la politica dell’UE, la politica di sicurezza e le relazioni con la Russia, in un intervento per l’European Council on Foreign Relations (ECFR), sembra condividere quanto sostenuto dal CSIS, ma rileva le criticità e guarda al ruolo europeo nel contesto internazionale. «Per avviare il processo di eliminazione graduale dei combustibili fossili russi, la Commissione europea ha ideato l’iniziativa REPowerEU, mentre proposte più dettagliate dovrebbero emergere entro la fine di maggio». «Una maggiore efficienza energetica sarà fondamentale per tali sforzi».Sebbene il principiol’efficienza al primo postofaccia parte della politica energetica dell’UE, «i progressi in tal senso sono stati troppo scarsi. Alcuni Stati membri sono stati riluttanti a concordare standard ambiziosi. E, secondo la Commissione Europea, molti di loro non hanno fatto abbastanza per integrare l’efficienza energetica nei loro Piani nazionali per l’energia e il clima. Questo deve cambiare».

«Gli europei dovrebbero essere più efficienti nell’uso delle risorse in un senso più ampio, il che potrebbe ridurre significativamente le emissioni di carbonio. Ci sono diversi modi in cui l’Unione europea può sostenere questo. Ad esempio, può dare priorità all’adozione dell’iniziativa sui prodotti sostenibili, nonché finanziare nuove soluzioni attraverso il Fondo per l’innovazione. Per allontanarsi dal modello ‘prendi-produci-rifiuti’, l’UE dovrà integrare meglio gli aspetti dell’economia circolare nella sua politica energetica e climatica».
Soprattutto, Engström richiama il fatto che l’efficienza energetica e delle risorse dovrebbe diventare una priorità maggiore anche nelle relazioni esterne dell’UE. «In molte parti del sud del mondo, gli effetti negativi dell’aumento dei prezzi dell’energia e dei generi alimentari si combinano con le crisi umanitarie e del debito innescate dalla pandemia. L’UE e i suoi Stati membri devono fare di più per aiutare a gestire la situazione, per solidarietà, ma anche per acquisire forza geopolitica in un mondo diviso dalla guerra della Russia contro l’Ucraina e per rendere conto della competizione di lunga data per l’influenza con la Cina in molti Paesi a basso reddito».
Se non si sviluppano piani chiari per costruire alleanze con i Paesi del sud del mondo, l’UE avrà difficoltà a promuovere la sua agenda internazionale sul clima. «Ciò potrebbe anche esacerbare le controversie sugli effetti esterni del Green Deal europeo, come le reazioni negative di molti Paesi a basso e medio reddito».
Secondo l’analista svedese, l’UE ha una serie di possibilità da mettere in campo. L’UE e i suoi Stati membri dovrebbero stanziare rapidamente finanziamenti aggiuntivi ai Paesi che sono vittime della crisi alimentare e della crisi energetica. «Gli Stati membri dovrebbero inoltre incanalare una parte maggiore dei diritti speciali di prelievo del Fondo monetario internazionale» verso questi Paesi. E poi ci sono i programmi nell’ambito dello strumento di vicinato, sviluppo e cooperazione internazionale che dovrebbero «dare una priorità maggiore all’efficienza energetica e delle risorse. Ciò comporterebbe il rafforzamento delle capacità sia nei Paesi partner che all’interno delle istituzioni europee. Altresì l’Unione europea potrebbe agire sulla cooperazione per l’innovazione con i Paesi partner, per esempio creando un fondo di co-innovazione e diffusione tecnologica.
«Finora le misure di efficienza hanno suscitato meno interesse dell’innovazione sul lato produttivo, ma sono ugualmente, se non di più, importanti. Gli sforzi di cooperazione internazionale dovrebbero riflettere questo. Il processo di digitalizzazione e lo sviluppo dell’intelligenza artificiale hanno un potenziale significativo in questo senso. Gli Stati europei si stanno ora affrettando ad aumentare le loro importazioni di gas naturale liquefatto. Potrebbero combinare accordi in materia con la cooperazione sulla transizione verde, anche attraverso l’efficienza energetica. Dato il potere normativo dell’UE, dovrebbe promuovere standard di efficienza a livello globale. Fissando requisiti ambiziosi per i prodotti, l’UE può sfruttare ‘l’effetto Bruxelles’ per creare un precedente per altre parti del mondo. Ad esempio, il piano per lo sviluppo della direttiva sulla progettazione ecocompatibile è un aspetto positivo dell’iniziativa sui prodotti sostenibili. Come fonte di ispirazione, l’UE può guardare al Giappone, che ha implementato standard di efficienza dopo le crisi petrolifere degli anni ’70 che ancora oggi hanno un’influenza globale significativa, in settori come l’efficiente condizionamento dell’aria. L’UE e i suoi Stati membri dovrebbero anche aumentare il loro sostegno alle iniziative multilaterali correlate, anche attraverso l’AIE, il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente e il programma UNIDO per l’efficienza energetica industriale.
Naturalmente, nulla di tutto ciò annulla l’importanza di altri elementi della transizione verde, come la promozione delle energie rinnovabili. E sono urgenti sforzi più ampi per l’adattamento e la mitigazione del clima. In effetti, sarebbe un errore colossale ridurre i finanziamenti per il clima e gli aiuti pubblici allo sviluppo in generale».