Stato dell’arte del processo di riforma del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite: la questione rappresentatività, al centro del processo negoziale, e la questione (vera) del veto, sollevata da Presidente ucraino
Il discorso indirizzato il 5 aprile dal Capo dello Stato ucraino, Volodymyr Zelensky, al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (CdS), ha riportato all’onore delle cronache l’annoso problema della riforma dello stesso Consiglio (CdS) e, più in generale, della reale utilità, al fine del mantenimento della pace, del complesso sistema messo in piedi nel 1945 a San Francisco.
Il CdS, ha detto infatti Zelensky, ha dimostrato,nel caso ucraino, «di non essere in grado di garantire l’obiettivo fissato nell’articolo 1 della Carta delle Nazioni Unite, cioè mantenere la pace e la sicurezza internazionale». Il Presidente ucraino ha poi aggiunto, rivolto allo stesso CdS: «Se non siete in grado di intervenire, di aiutarci, se per noi avrete solo vuote parole, allora significa che non avete nessuna funzione. Dovreste semplicemente dissolvervi»; ha infine chiesto di espellere la Russia dal CdS in quanto Paese aggressore, oppure di superare il diritto di veto concesso ai cinque membri permanenti del Consiglio, fra i quali è appunto compresa la Federazione Russa.
Il CdS è composto come noto da quindici Paesi: cinque permanenti con diritto di veto (Stati Uniti, Russia, Cina, Regno Unito, Francia) e dieci eletti a rotazione all’interno dei raggruppamenti geografici dell’ONU, in carica per due anni, ma privi di diritto di veto. Tale sistema ha fatto sì che, fin dalla loro creazione, le Nazioni Unite non siano state in grado di impedire alcun conflitto, se iniziato da uno dei cinque membri permanenti o da un ‘protégé’ di questi ultimi. D’altra parte, risulta evidente che i mutamenti intervenuti nel panorama internazionale dal 1945 ad oggi -la composizione del CdS riflette tuttora gli equilibri del dopoguerra- richiederebbero una profonda riforma.
Il dibattito in materia è iniziato nei primi anni ‘90, quando Germania e Giappone -con l’appoggio di Washington, Londra e Parigi- avanzarono la richiesta di entrare nel CdS, assieme a tre Paesi in rispettiva rappresentanza dell’Africa, dell’Asia e del Sudamerica. Tale‘riforma‘ venne scongiuratagrazie soprattutto al grande impegno dell’Italia -unico Paese sconfitto nella Seconda Guerra Mondiale che ne sarebbe rimasto fuori- e, per essa, dell’allora Rappresentante Permanente all’ONU, il compianto Ambasciatore Francesco Paolo Fulci.
Dopo la cocente delusione di Berlino e Tokyo, che durò per alcuni anni, si aprì, nel 2009, il cosiddetto‘Negoziato Inter-Governativo sulla riforma del Consiglio di Sicurezza‘, avente lo scopo dichiarato di rendere il CdS più rappresentativo e democratico. Tale processo,tuttora in corso con vari alti e bassi, non ha portato finora a risultati concreti, data la grande differenza di posizioni fra i 193 Stati membri, soprattutto riguardo al tema delle categorie di membership. Germania, Giappone, India e Brasile (Gruppo G4) continuano a richiedere un seggio permanente per loro stessi, oltre ad un’espansione dei seggi non permanenti; il gruppo africano chiede due seggi per sè; il gruppo arabo uno. L’Italia, da parte sua, è tuttora alla testa di un gruppo di Paesi denominato Uniting for Consensus (UfC), di cui fanno parte fra gli altri il Pakistan, la Corea del Sud, l’Argentina, la Colombia, il Messico e il Canada, che non accetta la creazione di nuovi seggi permanenti, ritenendo che la‘democratizzazione‘ del CdS potrebbe essere garantita solo attraverso periodiche elezioni dei suoi membri, anche con l’istituzione di una nuova categoria con un mandato più esteso di quello biennale.
Questo per riassumere -in estrema sintesi- la situazione attuale dei lavori sulla riforma del CdS.
Risulta chiaro, d’altra parte, che il problema evidenziato nei giorni scorsi dal Presidente ucrainonon si riferisce alla questione della rappresentatività, al centro dell’attuale esercizio negoziale, ma esclusivamente a quella del veto concesso ai membri permanenti. E non vi è dubbio che il veto, prodotto del contesto storico del dopoguerra, incide fortemente sulla stessa efficienza del CdS, ne paralizza di fatto le capacità decisionali, contraddice il principio dell’uguaglianza fra le Nazioni e non appare più giustificato alla luce delle circostanze attuali.
D’altra parte, l’art. 108 della Carta delle Nazioni Unite statuisce che gli eventuali emendamenti alla Carta stessa non solo devono essere adottati dall’Assemblea Generale (AG) con una maggioranza dei due terzi, ma devono poi essere ratificati dal CdS con la stessa maggioranza e con il voto favorevole dei cinque membri permanenti, i quali possiedono quindi il diritto di veto anche in questa materia. Risulta dunque piuttosto peregrina la richiesta di Zelensky di superare il diritto di veto nel caso ucraino, per la semplice ragione che, se pure essa dovesse essere approvata dall’AG con la maggioranza richiesta, la Russia (e probabilmente la Cina) non la farebbero mai passare in Consiglio.
In sostanza, il Presidente ucraino ha ragione da vendere quando dice che il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, e per estensione l’intera organizzazione, non ha (e non ha mai avuto, tranne che in rarissimi casi) alcuna reale funzione per la difesa della pace e della sicurezza internazionale: affinché ne abbia, dovrebbero infatti verificarsi condizioni che, come abbiamo visto, le sue stesse regole fondative rendono pressoché impossibili.
Cosa ha, dunque, potuto fare finora l’ONU per l’Ucraina? Nulla, se non emettere, con voto a maggioranza in AG, una risoluzione priva di valore cogente che «deplora con la massima fermezza»l’invasione russa (2 marzo); nonché un’altra -francamente di poco interesse per Kiev- che, il 7 aprile, sospende la Federazione Russa dal Consiglio per i Diritti Umani.
Un’ultima breve annotazione riguardo a tale organismo, istituito nel 2006 dall’AG con voto contrario di soli quattro Paesi membri dell’ONU fra i quali non appare la Russia, ma figurano invece -ironia della sorte…- gli Stati Uniti, da sempre autodefinitisi ‘paladini’ dei diritti umani e, infatti, oggi promotori della sospensione della Federazione Russa. Tale sospensione risulta essere appena la seconda nella storia, dopo quella della Libia nel 2011: eppure del Consiglio fanno parte anche Paesi che, con i diritti umani, non sembrano avere grande familiarità.