Portrait of a boy with the flag of Lybia painted on his face

“Il rinvio di un mese non cambia molto. Bisogna vedere se, a fronte di una caduta del governo o di una maggiore instabilità, si decide per un posticipo più lungo che potrebbe, da una parte, mandare un segnale di discontinuità forte rispetto a quanto fatto finora, ma dall’altra c’è il rischio che il Paese torni in balia di questa stessa instabilità”. Intervista a Silvia Colombo (IAI)

 

Nella tarda mattinata di ieri è arrivata l’ufficializzazione: in Libia, le elezioni presidenziali, previste per venerdì 24 dicembre, non si terranno. Il voto in questa data era stato deciso a marzo, nell’ambito del Forum di dialogo politico libico (Lpdf) mediato dalle Nazioni Unite.

Prima l’annuncio da parte della Commissione parlamentare, la quale ha dichiarato che è diventato impossibile tenere il voto presidenziale come previsto. A seguire, l’Alta Commissione elettorale nazionale della Libia ha ufficialmente posticipato le elezioni, rendendo noto che la Camera dei rappresentanti ha ora 30 giorni per decidere una nuova data. In un comunicato, l’organismo ha motivato la decisione con una serie di difficoltà legate anche all’impossibilità di risolvere i problemi di alcune candidature. Nonostante il crescente numero di episodi di violenza registrati negli ultimi giorni, la Commissione ha comunque affermato che sarebbe stata «preparata dal punto di vista tecnico per organizzare il voto nella data fissata». La Commissione, si legge nella nota, «propone che il giorno delle votazioni, per il primo turno, sia posticipato al 24 gennaio del 2022», posto che comunque «spetta alla Camera dei rappresentanti fissare un’altra data per lo svolgimento del processo di voto entro 30 giorni».

Cosa succede adesso? Lo abbiamo chiesto a  Silvia Colombo, Responsabile di ricerca per il Mediterraneo e il Medioriente dello IAI (Istituto Affari Internazionali).

 

“È impossibile che le elezioni in Libia si svolgano nella data prevista di Venerdì 24 dicembre”, è la conclusione a cui è giunta la Commissione elettorale del Parlamento guidata da Alhadi Alsagheir, che ha informato con una lettera il Presidente della Camera, Aguilah Saleh. Una morte annunciata? Il ‘partito’ dello status quo è ancora troppo forte?
È sicuramente una ‘morte annunciata’ perché dalla tarda estate si capiva che il processo era inceppato e che ci fossero più interessi per una posticipazione o interruzione di questo processo elettorale piuttosto che a favore della sua continuazione e, quindi, il raggiungimento dell’obiettivo finale. Il processo si è inceppato perché si sono posti moltissimi ostacoli procedurali e legali su come dovevano essere organizzate le elezioni, ma l’ultima goccia che ha fatto traboccare il vaso è, verso la metà di novembre, l’annuncio di una lista molto lunga di candidature, anche di figure molto controverse, che hanno fatto scatenare dei conflitti di potere che erano stati, per così dire, ‘imbrigliati’ nell’anno precedente. E questo ha poi portato al disgregarsi del quadro. Per quanto riguarda il secondo punto, mi risulta un po’ difficile identificare chi e come rappresenta questo partito dello status quo perché, mi viene da dire, che esso – che è il risultato, ma che adesso rischia di precipitare perché sappiamo che, in Libia, qualsiasi pretesto è buono per scatenare una manifestazione anche violenta di insoddisfazione- è un campo molto più variegato nel senso che varie forze hanno sfruttato tanto i momenti di ‘stallo’ (cercando di bloccare il processo elettorale) tanto quelli di ‘movimento’ (cavalcando lo stesso processo) per spartirsi il potere.
In quest’ottica, è indicativo il rimpallo di responsabilità tra Commissione elettorale e Parlamento?
Assolutamente sì, lo scaricabarile degli ultimi due giorni è proprio la ciliegina sulla torta e l’incertezza che ancora oggi regna sul futuro del governo Dbeibah e delle principali istituzioni dello Stato – in primis la Commissione elettorale che, ormai, sappiamo essere non più attiva –  dimostra come tutto questo fosse, di fatto, un castello di sabbia molto fragile. Tutto questo va a penalizzare la popolazione libica che, fino all’ultimo, ha sperato di poter condurre queste elezioni pur consapevole delle forti criticità del quadro in cui venivano organizzate. La Libia è ancora alle prese con queste tensioni interne.
È sicuramente l’ennesima batosta per la Libia e per la popolazione libica nel tentativo di uscire dal pantano in cui si trovano, purtroppo, da anni, ma è anche un fallimento della Comunità internazionale che, fino a poco più di un mese fa, si riuniva a Parigi per ribadire il proprio sostegno alle elezioni.
Sì, lo faceva senza essere in grado di comprendere a pieno le difficoltà di questo processo. C’è stata, purtroppo, ancora una volta, l’ennesima sottovalutazione delle problematiche interne e del ruolo degli attori regionali che, comunque, in maniera molto più indiretta hanno, di fatto, sponsorizzato questa idea di posticipare le elezioni, l’hanno addirittura inculcata in parte dell’opinione pubblica libica in maniera abbastanza subdola. C’è, quindi, di fondo, un’inazione che ha portato a questo risultato. Già alla Conferenza di Parigi, era chiaro che il processo era fortemente in bilico e che i Paesi occidentali, tra cui Francia e Italia, avessero pochissima ‘leveredge’ in questo processo, però i proclami e le dichiarazioni erano molto pompose e, per esempio, per un leader come Macron, che le elezioni in Libia si dovessero tenere entro la fine dell’anno era un obiettivo di politica estera molto importante. Non che adesso le cancellerie modificheranno i propri obiettivi, continueranno a sponsorizzarsi come mediatori in una fase estremamente delicata ed incerta.
Questo rinvio – è opinione diffusa tra gli osservatori – è anche l’esemplificazione delle debolezze dell’approccio ‘occidentale’ alla risoluzione di questo tipo di crisi. Lei è d’accordo? Non è troppo rischioso puntare sulle elezioni come primo passo per la stabilizzazione? Forse non è la strada giusta.
Esatto. La Comunità Internazionale non ha avuto, nel caso della Libia, la forza e la determinazione per porre fine al conflitto in primissima perché, come sappiamo, senza la Turchia, il conflitto belligerante non avrebbe avuto termine, ma non ha avuto nemmeno la costanza di sostenere a pieno questo processo delle Nazioni Unite. Prova ne è il fatto che l’ultimo rappresentante speciale per la Libia, Kubis, se ne era andato anche lui conscio del fatto che il processo fosse irrecuperabile e di non aver fatto abbastanza per aiutare la Libia ad uscire dal pantano. Il problema è che anche il ruolo delle Nazioni Unite è stato sicuramente molto positivo tra la fine del 2020 e l’inizio del 2021 per arrivare al Governo di Unità Nazionale (GUN), ma poi si è affievolito, sono emerse tutta una serie di competizioni interne, di giochi di potere interni alla Libia su cui, ancora una volta, la Comunità Internazionale e, in particolare, le Nazioni Unite non hanno avuto la capacità di presa. Gli Stati terzi ossia i Paesi occidentali e i partner regionali hanno più che altro sfruttato questi problemi interni invece che fare da scudo per cercare di mettere in sicurezza il processo. Quindi, il problema di fondo è che la Libia rappresenta il fallimento di una Comunità Internazionale, soprattutto ‘occidentale’, che tanto investono in ‘risoluzione dei conflitti’ e ‘ricerca della pace e della stabilità nel Mediterraneo’, non riesce a risolverli, soprattutto quando coinvolgono molti attori nella regione. L’accoppiata ‘conclusione di un conflitto violento’ e ‘elezioni’ dimostra di non avere la capacità di comprendere la realtà in Libia, ma lo stesso errore è stato fatto anche in altri contesti, come il caso egiziano dove non si era aperto un conflitto lungo un decennio (come avvenuto in Libia), ma quando nel 2012 si è puntato sulle elezioni che hanno portato prima la Fratellanza Musulmana al potere e poi il rovesciamento con il colpo di Stato per mano dei militari, era il segno che questo processo istituzionale non poteva avvenire in quel momento e in quel modo perché sotto c’erano dei conflitti troppo forti nella società. Nel caso libico, quei conflitti sono poi esplosi con la partecipazione russa, turca, emiratina, …
Il leader di Ihya Libya, Aref Nayed, ha dichiarato: “Il motivo principale del rinvio è il fatto che il primo ministro di un governo ad interim, che era stato specificamente autorizzato a preparare le elezioni, dopo essersi impegnato a non concorrere ha improvvisamente deciso di candidarsi, spendendo fondi pubblici per la propria campagna e manipolando i ministeri a suo vantaggio. Tale flagrante conflitto di interesse è la ragione stessa del rinvio”. C’è un fondo di verità in queste accuse mosse al Premier Dbeibah?
Il conflitto d’interesse c’era ed era diventato evidente negli ultimi mesi con la candidatura di Dbeibah e con la corruzione pervasiva nel governo nazionale dato che lui, uomo di business, ha messo in campo tutte quelle modalità di distribuzione di favori, solo che qui si trattava di distribuire favori sulle spalle dello Stato e, quindi, sono accuse lecite e che hanno un fondo di verità. Chiaro che questa è solo una piccola parte della realtà: è chiaro che ora ogni candidato e ogni figura di potere in Libia – tra cui lo speaker del Parlamento, Aguillah Saleh, è un’altra figura che ha giocato la propria partita ed è il principale artefice di questa architettura elettorale che ha fatto naufragare il processo – si rimpallano la responsabilità, ma l’insieme è molto più complesso. Dbeibah è stato sicuramente divisivo e negativo in questa ultima fase e, quindi, mi chiedo anche quale potrebbe essere il futuro e se, ancora, ci si ritroverà di fronte, dopo un anno, ad un cambio di governo che per la Libia vorrebbe dire ripartire nuovamente da zero.
Allora Dbeibah dovrebbe tornare ad essere Premier? Glielo permetteranno? Oppure si rischia il vuoto di potere?
Purtroppo, non si sa: si sta aspettando di capire, in queste ore, cosa ne sarà del Governo di Unità Nazionale. È chiaro che sarebbe preferibile se si completasse questo mandato del governo con le elezioni che, secondo alcune proposte, dovrebbe tenersi il 24 gennaio. Sinceramente, un mese di posticipo non cambia molto la situazione e rischia di allungarsi causando un crescendo di tensioni che sarebbe difficile controllare. Non so se ci saranno le condizioni perché il governo continui il suo mandato.
A questo proposito, in queste ore, assistiamo ad un movimento nel panorama politico libico: il vuoto di potere che sembra emergere dal rinvio delle elezioni rimette al centro il Generale Khalifa Haftar che avrebbe incontrato a Bengasi l’ex ministro degli interni Fathi Bishaga e l’ex vicepresidente Ahmed Maitig, entrambi misuratini ed entrambi candidati alle presidenziali. Viene ventilata l’ipotesi che obiettivo di questo patto tripartito sia disarcionare Dbeibah, che verrebbe sostituito, ma anche affondare la candidatura di Saif Gheddafi. Lei che ne pensa? 
Sicuramente Haftar ha giocato bene le sue carte: c’è stato un momento in cui Dbeibah sembrava messo fuori gioco dalla Commissione elettorale così come Saif Gheddafi e lui sembrava il più promettente candidato presidenziale. È una figura estremamente problematica per il futuro del Paese perché se ci fosse un forte sostegno anche esterno, rischieremmo di ritrovarci con un nuovo ‘Al Sisi’ al potere, anche se solo in una fase di transizione, ma questo sarebbe molto problematico per la Libia. Il minore dei mali sarebbe, in questo caso, cercare di far proseguire a Dbeibah fino alle elezioni, ma dando un segno molto più forte che queste elezioni si tengano in condizioni diverse. Un mese di tempo, personalmente, penso sia troppo poco per arrivare al risultato. Quindi l’ipotesi è verosimile così come quella che lo vede al lavoro per silurare la candidatura di Saif Gheddafi che rappresenta non soltanto un concorrente alla carica di Presidente, ma anche un centro di potere abbastanza importante. E lui che vuole incarnare l’uomo forte ha bisogno di fare piazza pulita di tutti i contendenti più forti, chi per un motivo economico, chi per un motivo di prestigio.
L’ostacolo più grande per Haftar potrebbero essere le milizie. 
Sì, però Haftar è stato bravo, in questo anno e mezzo dalla sua sconfitta militare, è riuscito bene riciclarsi, quindi, è vero che le milizie lo hanno, di fatto, abbandonato, e non ha poi questo potere militare nella Cirenaica, ma ancora esiste un esercito ed un potere che lui ancora controlla grazie a finanziamenti e figure messe al posto giusto. Sistema di corruzione che legano a doppio filo il settore militare è quello economico, di cui Haftar è ancora saldamente al comando.
Le tribù, a questo punto, da che parte stanno? 
Anche loro sono molto spaccate. Il problema della Libia è che non é più come al tempo di Gheddafi dove c’era un’appartenenza chiara o univoca. Adesso le tribù sono molto frammentate al proprio interno, alcune hanno perso fortemente potere, alcune hanno dovuto avvicinarsi alla costa e alla zona di Tripoli per accedere alla fetta di potere anche economica nel tentativo di rimanere un ago della bilancia importane, ma penso che né Saif né Haftar rappresentino per loro dei ‘patroni’ interessanti: il primo è sicuramente un personaggio compromesso, con una storia, ma senza un seguito politico forte; il secondo ha perso il potere militare ed è una mina vagante. Secondo me, le tribù sarebbero state ben contente, in questo panorama di status quo, di avere Dbeibah quale candidato vincente proprio per proseguire nel mantenimento di quello status quo, onde evitare il caos.
A proposito di caos, cosa aspettarsi nelle prossime settimane? La violazione da parte del primo ministro dei suoi impegni e delle sue promesse rischia di far deragliare l’intero processo politico e di istigare disordini e persino conflitti armati”, ha sostenuto il candidato Aref Nayed. Un altro candidato alle presidenziali, Fadel Lamen, ha dichiarato al quotidiano britannico ‘The Guardian’ che al momento sono due le opzioni: “Un rinvio molto breve, solo uno spostamento della data per chiarire le questioni legali in sospeso, come le qualifiche di un candidato, o un ritardo più lungo di sei mesi. In tal caso, con un rinvio così lungo tutto può succedere”. Ricordiamo che la settimana scorsa, c’è stato un tentativo di prendere il palazzo presidenziale; da qualche giorno, a Tripoli, sono comparsi sacchi di sabbia per le strade; alcune strade come quella di Shara’a Al-Zawiya e Bab Bengashhir, di Ain Zara e Khallet Al-Furjan a sud della capitale sono state bloccate. Si rischia il ritorno alla situazione del 2014, quando iniziò, di fatto, la guerra civile?
Questo sarebbe il tracollo definitivo. Nell’ultima settimana, di fronte a queste avvisaglie, si è comunque riusciti a mantenere la calma. La questione degli attacchi e dei sabotaggi che stanno avvenendo ai danni delle infrastrutture petrolifere nella parte occidentale del Paese è sicuramente un campanello d’allarme abbastanza importante del fatto che alcune tribù e gruppi di potere hanno alzato l’asticella. Bisognerà vedere se rimarranno solo segnali di intimidazione oppure se questo porterà effettivamente ad uno scontro. Personalmente, spero ci sia la capacità, anche dall’esterno, di fare quello che non si è fatto sinora, cioè mandare dei segnali chiari. Ognuno deve fare la propria parte rispetto alle forze che controlla.
L’avvicinamento di questi giorni tra Turchia ed Emirati Arabi potrebbe aiutare ad evitare l’escalation militare?
Può effettivamente aiutare perché rispetto alle divisioni in campo questi due attori sono quelli che hanno maggiore peso, sia sul cerchio di potere di Haftar che su quello di Dbeibah. Sono segnali importanti che rientrano in una normalizzazione soprattutto delle politiche degli Emirati che, dopo aver condotto delle politiche molto aggressive, devono rientrare in un quadro di cooperazione più controllata.
Cosa risponderebbe a chi sostiene che questo rinvio finisce per favorire, in fondo, Turchia e Russia?
La Turchia non mi sembra particolarmente favorita da questo rinvio nel senso che sembrava che, qualora si fossero tenute le elezioni di domani, il candidato che avrebbe avuto più chances era Dbeibah che, di fatto, anche se fosse stato squalificato e sostituito con un suo fedele, avrebbe sempre gestito il potere in un modo che rafforza il ruolo della Turchia, considerati anche i recenti accordi tra Libia e Erdogan. Per quanto riguarda la Russia, mi sembra tornata in una fase di ‘attesa vigile’ nel senso che non vuole esporsi troppo. Il rinvio di un mese non cambia molto. Bisogna vedere se, a fronte di una caduta del governo o di una maggiore instabilità, si decide per un posticipo più lungo che potrebbe, da una parte, mandare un segnale di discontinuità forte rispetto a quanto fatto finora, ma dall’altra c’è il rischio che il Paese torni in balia di questa stessa instabilità.
In questo senso, il rinvio del voto potrebbe essere un’arma a doppio taglio. Se ben giocata, potrebbe essere positiva, ma se, nel frattempo, non cambia nulla e, quand’anche si tenessero, venissero contestate, i rischi sono ancora maggiori?
Assolutamente sì, se non cambia nulla, il risultato è sempre lo stesso, un forte caos è una contestazione a tutto campo da parte degli esclusi.
Secondo Lei, oltre alle elezioni, l’ONU ha un piano di riserva, una roadmap alternativa?
In questo momento, secondo me, no: l’uscita di scena di Kubis, il richiamo di Stephanie Williams non toglie che c’era un incalzare di eventi che non sono riusciti, di fatto, a controllare questo processo. Mi sembra che anche loro siano un po’ allo sbando. La stessa Williams era due giorni fa a Tripoli a parlare con il Presidente della Commissione elettorale: non dico che non sapessero che sarebbe stato questo l’esito, però è chiaro che se 24 ore dopo ti ritrovi con questi risultati, sembra di rivedere la situazione di Aprile 2019, quando alla vigilia della Conferenza di Riconciliazione Nazionale, Haftar ha dato il via alla sua offensiva militare. Questo perché c’è troppa distanza tra la realtà sul campo e la Comunità Internazionale.
Un ‘intervento militare’ ONU oppure un maggiore coinvolgimento al tavolo di Turchia e Russia, che, a dire il vero, a Parigi erano molto in disparte, sarebbero due elementi risolutivi?
Si, ma non possono arrivare dall’alto. Deve esserci un cambio di rotta in senso più chiaro da parte di attori anche come l’Italia o la Francia, anche perché non penso che Russia e Turchia rivedranno le loro posizioni, ma cercheranno di accreditarsi come mediatori ed aprire nuovi spazi per trovare potere per loro.
Una cosa è certa: se non si fa qualcosa subito, il pericolo è che si debba scegliere tra anarchia e spartizione. 
Sì, ma Russia e Turchia è dal 2020 che avevano trovato una sorta di modalità di co-gestione del potere che permetteva ad entrambi di ottenere benefici. Quindi, anche loro fanno parte di quel ‘partito dello status quo’.

La chiusura di quattro giacimenti di idrocarburi, oltre alle raffinerie di Zuara e Mellitah, minaccia le attività dell’ENI nel Paese?

Bisogna vedere cosa avverrà nelle prossime ore perché sono segnali forti che ricalcano quello che era già avvenuto, nel 2019, nella fase pre-conflitto. L’ENI ha sempre avuto la capacità di destreggiarsi bene e di cambiare i piani, ma senza penalizzare i propri obiettivi.
Un ennesimo cambio di governo, con la salita di Draghi al Quirinale, forse sarebbe un boomerang per la politica dell’Italia in Libia?
Perderemmo un capitale molto importante perché con tutti i problemi che l’approccio di Draghi ha avuto rispetto alla Libia, siamo comunque stati gli unici a vederci chiaro e ad avere la capacità di dire le cose in modo chiaro. Se perdiamo questo ruolo, non vedo altri pronti a prenderlo. Semmai, dovremmo intensificarlo, ma non vedo grandi chances.