“Ciò che i governi centrale e di Hong Kong ora chiamano democrazia è sempre più simile al modo in cui opera il Partito comunista cinese nelle modalità in cui si vota per le organizzazioni di partito a livello locale, provinciale o nazionale”
Ad Hong Kong, domenica, si sono tenute le elezioni per il consiglio legislativo. Elezioni che, in realtà, erano previste per il 6 settembre del 2020: in quel momento, l’opposizione democratica raccoglieva i frutti di anni di proteste a favore della democrazia, vincendo, nel novembre del 2019, le elezioni per i consigli distrettuali, di cui si aggiudicava 390 seggi su 452.
Una vittoria simbolica, visto che il potere politico dei consigli distrettuali è molto limitato, ma quanto bastava per allarmare Pechino, che, a luglio del 2020, aveva fatto approvare una nuova ‘legge sulla sicurezza’ a Hong Kong che di fatto aveva dato alle autorità locali e cinesi la completa autonomia di perseguire e incarcerare gli oppositori politici, rendendo reato di sedizione ogni critica o espressione contraria al Partito comunista. Pugno duro che ha causato l’incarcerazione, l’esilio o l’indagine di tutte le principali personalità democratiche della città: addirittura, dei 390 consiglieri di distretto pro democrazia eletti a novembre del 2019, 260 si sono dimessi o sono stati costretti alla dimissioni, mentre otto sono stati arrestati.
Rinviate le elezioni (con la proroga dell’Assemblea in carica) con la scusa della pandemia di COVID-19, repressa l’opposizione anche mediatica – è stato chiuso l’ultimo giornale d’opposizione e arrestato il suo editore,Jimmy Lai –e vietata qualsiasi manifestazione come quelle per la commemorazione del massacro di piazza Tiananmen a Pechino, a marzo del 2021, il governo cinese si è dato da fare per approvare la nuova legge elettoraledi Hong Kong – un attacco, a detta di molti esperti, all’autonomia riconosciuta alla città fino al 2047, parte dell’accordo per il trasferimento di sovranità dalla Gran Bretagna alla Cina nel 1997 – per la quale solo 20 membri su 90 sono eletti col voto popolare; 40 sono nominati dal Comitato elettorale pro-Pechino (solamente 11 candidati sui 153 ammessi si sono detti estranei al fronte filo-Pechino) e 30 deputati selezionati fra i rappresentanti delle professioni, anch’essi vicini al governo.
Già prima della riforma, il sistema elettorale era fortemente sbilanciato a favore dei candidati a favore di Pechino: solamente la metà dei 70 seggi disponibili era espressa a scrutinio universale, mentre gli altri 35 membri erano eletti da una “Commissione elettorale” che, formalmente, rappresentava gli interessi economici della città, ma che, nei fatti, era sotto il controllo di Pechino. La nuova riforma ha, invece, aumentato i seggi totali a 90, ma ha diminuito a soli 20 quelli concessi a scrutinio universale.
Inoltre, la nuova legge elettorale stabilisce che possano candidarsi alle elezioni esclusivamente i ‘patrioti’, criterio talmente soggettivo e generico da tornare utile alla discrezionalità delle autorità: a marzo Erick Tsang, un funzionario di Hong Kong che si occupa dei rapporti con la Cina e che è fedele al regime, ha spiegato cosa si intende per patriottismo dicendo che «non puoi definirti patriota se non ami la leadership del Partito comunista cinese».
Questo ha spinto la gran parte delle forze pro-democrazia a ritenere le elezioni una ‘farsa’ e, di conseguenza, a rinunciare alle candidature, ma anche a boicottare l’affluenza alle urne. Ecco che l’astensione ha toccato livelli record: ai seggi si è, infatti, presentato solo il 30,2% degli elettori, pari ad 1 milione e 350mila, sui 4,5 milioni di aventi diritto. Il dato peggiore dal 1995, quando si votò per la prima volta per il Legco: il 58,3% degli aventi diritto aveva partecipato alle elezioni del 2016 mentre, al voto per i consigli distrettuali del novembre 2019, in cui il fronte democratico ebbe la meglio, l’affluenza toccò il 71%.
Tradotto in seggi, dei 90 seggi in palio, 89 sono stati conquistati da esponenti pro-Pechino, fra i quali anche il reverendo Canon Peter Koon Ho-ming, segretario generale della locale Chiesa anglicana. L’unico eletto non formalmente pro-Pechino è stato il centrista Tik Chi-yuen.
“Il nuovo Consiglio legislativo (LegCo), eletto col modello revisionato, aumenterà l’efficacia amministrativa della Regione speciale. Siamo sulla giusta via per il buon governo”, ha dichiarato la governatrice di Hong Kong, Carrie Lam, in partenza per Pechino (per andare a conferire il governo cinese riguardo all’esito elettorale), bollando la bassa affluenza come un elemento non importante, nonostante il suo governo abbia provato in tutti i modi a scongiurarla: dagli appelli last minute inviati ai cittadini via sms (come anche quello di Xia Baolong, capo dell’Ufficio per gli affari di Hong Kong e Macao del Consiglio di Stato cinese) all’offerta di mezzi pubblici gratis nella giornata elettorale, passando per la minaccia di arresto per gli attivisti democratici che esortavano il boicottaggio.
Se le elezioni di domenica erano un referendum, diversi osservatori hanno parlato di un vero flop per la democrazia in salsa cinese. “Il basso tasso di affluenza a Hong Kong indica fino a che punto le persone qui sono soddisfatte dello stato delle cose”, ha scritto il ‘Guardian’. Ad urne chiuse, i Paesi del G7 e l’UE hanno denunciato l’erosione della democrazia.
Ma già il giorno prima del voto, il nuovo vescovo di Hong Kong, mons. Stephen Chow aveva rilasciato una nota dal titolo ‘Preoccupazione per la democratizzazione di Hong Kong’ nella quale invitava i fedeli a partecipare al voto “secondo i dettami della propria coscienza e gli insegnamenti sociali della Chiesa” per poi concludere chiedendo a tutti di “pregare perché Dio guidi Hong Kong verso la piena democratizzazione”.
La ‘democratizzazione’ sembra ormai persa, almeno in senso occidentale. Quella in atto è una democratizzazione in senso ‘cinese’ come, del resto, la stessa Pechino ha reso noto, a poche ore dalla chiusura dei seggi, con la pubblicazione di un ‘libro bianco’ intitolato ‘Hong Kong Democratic Progress Under the Framework of One Country, Two Systems’, in cui la Cina definisce il voto a Hong Kong ‘rappresentativo’ e ‘inclusivo’.
È così o, piuttosto, è l’ultimo step della ‘normalizzazione’ della democrazia in salsa cinese di Hong Kong? Lo abbiamo chiesto a Ross Darrell Feingold, esperto di Asia.
Solo 1 milione e 350mila, il 30 per cento dei 4,5 milioni di aventi diritto, ha votato. “Il basso tasso di affluenza a Hong Kong indica fino a che punto le persone qui sono soddisfatte dello stato delle cose”, scrive il Guardian. Lei è d’accordo? Ed è l’astensione la vera vincitrice di queste elezioni?
La bassa affluenza alle urne è una delle osservazioni più frequenti su queste elezioni. Ovviamente, molti elettori hanno ritenuto che il loro voto non fosse importante a causa della natura del nuovo sistema elettorale, compreso il controllo pre-elettorale dei candidati che garantiva solo quei candidati che soddisfano il principio dei “patrioti che governano Hong Kong” e altri requisiti legali specifici, di essere eletti. In altre parole, è probabile che i candidati idonei, e chiunque vinca, si adattino alle politiche del governo della regione amministrativa speciale di Hong Kong e del governo centrale. Un’altra preoccupazione che gli elettori hanno avuto con queste elezioni è stata (nonostante il fatto che i candidati sarebbero stati in gran parte non conflittuali contro Hong Kong o il governo centrale) la mancanza di idee politiche specifiche, o visione, su questioni “quotidiane” come la politica abitativa e come gestire la pandemia, dove, ancora una volta, nonostante il nuovo sistema elettorale, alcuni elettori avevano sperato in discussioni e divergenze di opinione.
L’attivista Ray Wong ha dichiarato: “Non sono elezioni, ma selezioni dall’alto”. L’opposizione pro democrazia ha boicottato le urne. Era l’ultima forma di resistenza? Una scelta, pur se (quasi) obbligata, vincente?
La decisione di boicottaggio dei partiti politici e dei politici “pan-dem” non è stata una sorpresa, soprattutto alla luce dei requisiti di ammissibilità che alcuni dei più importanti politici pandem probabilmente non sarebbero riusciti o non sarebbero stati disposti a rispettare. La copertura mediatica globale, il governo straniero e le critiche alle organizzazioni non governative straniere forniscono un certo supporto morale alla decisione di boicottaggio dei pandem, ma alla fine il risultato è un Consiglio legislativo filo-governativo quasi unanime. I tanti politici del campo pandem, sia quelli ancora a Hong Kong che quelli in esilio, appaiono per ora uniti nella decisione di boicottaggio. Sarà interessante osservare se nei prossimi anni alcuni pandem politici esprimono rammarico per la decisione di boicottaggio, o per le prossime elezioni del Consiglio Legislativo, se alcuni pandem cambiano idea e decidono di partecipare alle elezioni entro il regole stabilite da Hong Kong e dai governi centrali.
Secondo l’agenzia ufficiale cinese Xinhua «il voto dimostra la vera volontà del popolo della città cinese». Queste elezioni, secondo molti esperti, erano un referendum su Pechino. Condivide? E se così fosse, come leggere l’esito? Per la Cina, queste elezioni sono una vittoria, l’ultimo step della ‘normalizzazione’ di Hong Kong?
Dati gli eventi di Hong Kong nel 2019 (proteste), nel 2020 (legge sulla sicurezza nazionale, Covid-19) e nel 2021 (nuova legge sul Consiglio legislativo, Covid-19), dovremmo stare attenti a formulare giudizi ampi sul fatto che il voto dimostri la volontà vera o è un referendum su Pechino. Con la bassa affluenza e la migrazione in Australia, Canada, Regno Unito, Stati Uniti e altrove, molti abitanti di Hong Kong “hanno votato con i piedi”. Forse possiamo dire che circa il 30% degli aventi diritto è soddisfatto di questi cambiamenti al sistema politico di Hong Kong; anche se aggiungiamo qualche punto percentuale in più, è ancora ben al di sotto della metà. Nei prossimi anni potrebbero esserci più migrazioni verso Hong Kong dalla terraferma e più migrazioni fuori da Hong Kong da parte di Hong Kong “nativi” residenti da molto tempo. Quindi le future elezioni potrebbero avere una maggiore affluenza alle urne di elettori che sentono un alto senso di lealtà verso Pechino. Ovviamente, da un punto di vista politico, la Hong Kong di oggi (o del futuro) non è la stessa Hong Kong del passato.
Il rinnovo del consiglio legislativo di Hong Kong avrebbe dovuto tenersi il 6 settembre del 2020, pochi mesi dopo il varo, il 30 giugno 2020, della legge sulla sicurezza nazionale da parte del parlamento cinese che aveva suscitato proteste. Il rinvio è servito alla Cina per ottenere il risultato sperato a queste elezioni?
Il rinvio delle elezioni del Consiglio legislativo originariamente previsto per il 6 settembre 2020 ha concesso al governo di Hong Kong e al governo centrale più tempo per rivedere il sistema di elezione dei membri del Consiglio legislativo. Certo, i cambiamenti annunciati non sono stati creati di recente; vale a dire, a seguito di precedenti consultazioni tra le parti interessate a Hong Kong e il governo centrale e le decisioni emesse dal Comitato permanente del Congresso nazionale del popolo sulle future elezioni, come le decisioni emesse nel 2004 e nel 2007 e gli esercizi di riforma elettorale nel 2010 e 2014-2015, tutte le parti avevano qualche idea su come cambiare il sistema elettorale di Hong Kong. Tuttavia, i disordini nel 2019, seguiti dal successo del pandem nelle elezioni del Consiglio distrettuale del 2019, hanno dato al governo centrale più tempo per progettare e attuare un nuovo sistema elettorale con modalità di controllo e un Consiglio legislativo allargato che garantisca l’elezione solo dei candidati favorevoli al governo.
“Il nuovo Consiglio legislativo (LegCo), eletto col modello revisionato, aumenterà l’efficacia amministrativa della Regione speciale. Siamo sulla giusta via per il buon governo”, ha dichiarato la governatrice di Hong Kong, Carrie Lam, in partenza per Pechino. Come esce Carrie Lam da queste elezioni?
Per quanto impopolare possa essere Carrie Lam presso la maggior parte del pubblico (forse a parte il 30% che ha votato), ha mantenuto la fiducia del governo centrale. Tra le proteste contro la “legge sull’estradizione” nella primavera del 2019, seguite dalle proteste a volte violente nell’estate e nell’autunno del 2019 in cerca di una maggiore democrazia, molti hanno ipotizzato che Lam sarebbe stato costretto a dimettersi. Eppure ha ancora il suo lavoro. Cercherà un secondo mandato? Ovviamente questo non dipende solo da lei, dipende anche dal governo centrale, anche se è difficile credere che cercherà un secondo mandato. Supponendo che non cercherà un secondo mandato, ha almeno un Consiglio legislativo gradevole con cui lavorare nei restanti mesi del suo mandato; se dovesse servire un secondo mandato, avrà allo stesso modo un piacevole Consiglio Legislativo con cui lavorare. Anche se questo potrebbe rafforzarla nello svolgimento dei suoi doveri quotidiani, non la rende più vicina o più apprezzata dal pubblico.
La Borsa di Hong Kong, all’indomani delle elezioni per ‘soli patrioti’ sul rinnovo del parlamentino locale, ha aperto in negativo: l’indice Hang Seng segna nelle prime battute un calo dello 0,49%, a 23.079,83 punti. Qual’è la sensazione tra le imprese e i mercati dopo queste elezioni?
I mercati potrebbero aver reagito con cautela a causa delle preoccupazioni per i disordini civili se qualcuno nell’opinione pubblica avesse cercato di contestare le elezioni. Tuttavia, la legge sulla sicurezza nazionale e altre misure attuate dalla polizia ora rendono meno probabile che ci saranno disordini civili contro come è successo nel 2019. In generale, tuttavia, le società quotate di Hong Kong non vogliono la politica; vogliono semplicemente un governo efficiente. D’altra parte, le imprese sono anche preoccupate per l’economia di Hong Kong e se i recenti sviluppi politici (compreso il deterioramento delle relazioni di Cina e Hong Kong con Australia, Canada, Regno Unito, Stati Uniti e Unione Europea, tra gli altri) causeranno Hong Kong Kong perderà il suo ruolo di centro finanziario dell’Asia. In definitiva, tuttavia, se le società di Hong Kong (comprese le società multinazionali che operano a Hong Kong) vogliono accedere alla Cina, rimarranno a sostegno del governo di Hong Kong.
Nel prossimo Legco siederanno 89 deputati dell’establishment filo-cinese e un solo esponente dell’opposizione. Che destino attende l’opposizione?
A breve termine, i membri dell’opposizione situati al di fuori di Hong Kong continueranno a sostenere sanzioni e altre azioni da parte di governi stranieri che cercano di punire Hong Kong e funzionari del governo centrale per i cambiamenti al sistema politico di Hong Kong. Ciò continuerà almeno fino alla prossima elezione del capo dell’esecutivo. Per l’opposizione che rimane a Hong Kong, sarà interessante vedere se alcuni decidono di coinvolgere il pubblico, il governo o i media su questioni di politica pubblica, ma senza entrare nelle aree più delicate che potrebbero entrare in conflitto con la legge sulla sicurezza nazionale o altre leggi . È probabile che alcuni membri dell’opposizione decidano che è meglio partecipare alla discussione su questioni di politica pubblica piuttosto che rimanere in silenzio. Questo provocherà qualche frattura tra gli avversari.
In molti osservatori, a partire dall’opposizione, hanno denunciato queste elezioni come una ‘farsa’, che di democrazia non ha niente. Nel documento intitolato ‘Hong Kong Democratic Progress Under the Framework of One Country, Two Systems’, Pechino spiega “la democrazia con caratteristiche di Hong Kong”, ribadendo di aver “fornito un supporto costante alla Regione amministrativa speciale nello sviluppo del suo sistema democratico”, fin dall’attuazione del principio “un paese, due sistemi”. Quali sono le principali caratteristiche della ‘democrazia cinese’ di Hong Kong? La democrazia di Hong Kong è morta, sostituita da quella dei ‘patrioti’?
Ciò che i governi centrale e di Hong Kong ora chiamano democrazia è sempre più simile al modo in cui opera il Partito comunista cinese nelle modalità in cui si vota per le organizzazioni di partito a livello locale, provinciale o nazionale. Cioè, i candidati vengono controllati e un piccolo numero di elettori aventi diritto esprime il proprio voto in elezioni molto strutturate che mancano della discussione pubblica che si verifica tra e sui candidati nelle democrazie, o che si è verificata in precedenza nelle elezioni del Consiglio legislativo di Hong Kong. Certamente, il modo in cui il Consiglio Legislativo oi Consigli Distrettuali venivano eletti in precedenza ora è morto.
Gli Stati Uniti di Joe Biden hanno da poco ospitato il Summit for Democracy, alla quale è stata invitata Taiwan, ma non la Cina. Cosa dicono le ultime elezioni di Hong Kong agli USA e all’Occidente sulla Cina e sul destino di Taiwan?
È popolare tra commentatori e politici dire che Taiwan non può diventare la prossima Hong Kong. Tuttavia, il modello “Un Paese, Due Sistemi” (originariamente proposto dalla Cina per Taiwan, ma poi implementato a Hong Kong) non ha mai avuto molto sostegno a Taiwan tra l’opinione pubblica o tra i due maggiori partiti politici, il Kuomintang (Partito Nazionalista Cinese) o l’attuale Partito Democratico Progressista. Ovviamente, la versione rivista di “One Country, Two Systems” come modello per Taiwan ha scarso supporto a Taiwan. Sebbene ci sia molta discussione a Taiwan su Hong Kong, in definitiva, la sicurezza di Taiwan non dipende da come il governo centrale cinese cambia il sistema politico di Hong Kong. La sicurezza di Taiwan dipende dalla volontà del governo e del popolo di Taiwan di fare ciò che è necessario per difendere Taiwan e dal sostegno di governi amici come gli Stati Uniti.