“Le elezioni si terranno anche perché adesso è tardi per cambiarne il calendario. È chiaro che produrrebbe un caos ancora maggiore, ma il problema non è da qui al 24 dicembre, bensì cosa avverrà dopo”. Intervista a Silvia Colombo (IAI)

 

Venerdì scorso, la Libia è tornata alla ribalta come argomento di dibattito della Conferenza di Parigi, convocata dalla Francia, ma co-presieduta con Italia, Germania, Libia e ONU, alla Maison de la Chimie, per discutere le principali problematiche del Paese africano: le attese erano alte, a poco più di un mese dal 24 Dicembre, la data fissata per la tornata elettorale, ma i risultati non sembrano aver soddisfatto i desiderata visto che non si è andati molto oltre le dichiarazioni di intenti dei leader per elezioni presidenziali e/o parlamentari “libere, eque, inclusive e credibili il 24 dicembre 2021”.
La riunione, oltre alla partecipazione dei leader dei Paesi co-presidenti, ha visto la presenza dei leader di Egitto, Ciad, Niger, Tunisia, Cipro, Grecia, Malta, Paesi Bassi, Repubblica del Congo, Repubblica Democratica del Congo, Spagna, Regno Unito. Per gli Stati Uniti ha partecipato la vice presidente Kamala Harris, mentre Russia, Cina, Giordania, Svizzera, Algeria e Marocco hanno preso parte all’evento a livello di ministri degli Esteri. Addirittura la Turchia presenziato solo con il vice ministro degli Esteri, Sedat Onal. Ha preso parte anche il Presidente del Consiglio europeo Charles Michel e l’Alto rappresentante Ue per la politica estera e di difesa, Josep Borrell, il segretario generale della Lega degli Stati Arabi e quello del G5 Sahel, il presidente della Commissione dell’Unione Africana, e, per le Nazione Unite, la sottosegretaria Rosemary Di Carlo ad accompagnare l’inviato speciale Jan Kubis.
L’impreparazione l’ha fatta da padrone. All’ordine del giorno, c’era il dossier scottante delle elezioni, per le quali, nel documento finale, i leader presenti hanno espresso il loro «pieno sostegno alla piena applicazione del cessate il fuoco del 23 ottobre del 2020» con l’intento di stabilizzare il Paese.
Al momento, non è stata ancora approvata una legge che definisca se saranno elezioni presidenziali o parlamentari, né tantomeno quali saranno i compiti delle istituzioni. Il che pone non fa ben presagire niente di buono in particolar modo per il post-voto tanto che nella Dichiarazione finale della Conferenza viene affermato l’impegno delle fazioni libiche ad accettare l’esito del voto: «Tutti in Libia devono rispettare i risultati elettorali e non ostacolarli». Vengono poi minacciate sanzioni delle Nazioni Unite per «quanti tentano di ostacolare il processo elettorale e la transizione politica».
Mario Draghi ha esortato le autorità libiche ad approvare una legge elettorale “nei prossimi giorni”, ma le divisioni tra le varie istituzioni libiche sono forti – come dimostra il forte scontro tra il Consiglio presidenziale, formato dal presidente Mohamed al Menfi e da due vicepresidenti, e il governo di unità nazionale, guidato dal primo ministro Abdulhamid Dbeibah– anche perché gli interessi affinché la Libia resti allo status quo sono molto forti. Ciò detto, in queste ore, non mancano le prime candidature: c’è quella di Saif al-Islam (il secondo figlio di Gheddafi), quella possibile di Khalifa Haftar (che ha recentemente sospeso le proprie funzioni militari), o del Aguila Saleh (attuale della Camera dei rappresentanti di Tobruk), ma potrebbe esserci anche quella del Premier Dbeibah che, nonostante le polemiche recenti, potrebbe voler partecipare alla corsa. Del resto, Draghi ha parlato di elezioni ‘libere’, ‘credibili, ma soprattutto ‘inclusive’.
Molto modesti i passi avanti sul processo di ritiro delle truppe straniere dal Paese: «Il piano del Comitato militare libico di ritirare i mercenari è in linea con le risoluzioni delle Nazioni Unite. Sosteniamo il piano d’azione globale per garantire il ritiro delle forze straniere e dei mercenari dalla Libia», si legge nel testo. Se l’Egitto insisteva – con il sostegno di Paesi come Grecia, Cipro, Giordania – sulla definizione delle tempistiche ‘immediate’ di ritiro, libici e turchi opponevano un semplice ‘prima possibile’. L’Italia avrebbe proposto la formula di compromesso ‘rapido’. Il riferimento è a Turchia e Russia, che, peraltro, hanno ‘disertato’, ad alto livello, la Conferenza: la prima è convinta di poter mantenere i suoi uomini sul terreno perché il loro terreno fu chiesto, a suo tempo, da Tripoli alle prese con l’offensiva di Haftar; la seconda, invece, nega una sua presenza militare nel Paese perché, ufficialmente, non esiste alcun collegamento con la milizia di mercenari Wagner.
Sui diritti umani, viene ribadito nella Dichiarazione finale l’obbligo per le autorità e per tutti gli attori libici di garantire il rispetto del diritto internazionale umanitario (di migranti, rifugiati e richiedenti asilo), nonché l’importanza della collaborazione con le Agenzie Onu.
Da sottolineare l’unità mostrata di Francia e Italia sul dossier libico. “Le nostre posizioni si sono molto avvicinate”, ha dichiarato il premier Mario Draghi parlando accanto al  Presidente francese Emmanuel Macron, aggiungendo che se “non si va d’accordo non si aiuta la Libia”. Ma a molti è parso chiaro come i veri protagonisti della crisi libica non siano più gli europei, bensì Russia e Turchia.
Con Silvia Colombo, Responsabile di ricerca per il Mediterraneo e il Medioriente dello IAI (Istituto Affari Internazionali), abbiamo provato a tirare le somme della Conferenza di Parigi e a fare qualche previsione su cosa aspettarsi nelle prossime settimane.

Come valuta la Conferenza di Parigi? Un successo? Un fallimento? E di chi?
Una valutazione corretta della recente Conferenza di Parigi deve tenere conto del contesto più ampio, ovvero soprattutto di quello che sta avvenendo in Libia perché. se l’ambizione del vertice era quella di mantenere alta l’attenzione della Comunità Internazionale sulle problematiche pre-elezioni e sugli scenari post-elettorali che sembrano andare nella direzione del caos, credo che questo summit abbia mostrato che permane uno scollamento molto forte tra le dinamiche interne libiche del conflitto e delle trattative post-cessate il fuoco e, dall’altra parte, il piano della Comunità internazionale che ogni tanto si sintonizza sul canale giusto perdendo, tuttavia, molto spesso e molto velocemente l’attenzione.
Il punto vero è costituito dai libici. 
Sì e non penso che l’impegno sottoscritto nella dichiarazione finale emersa da Parigi sia quello che serva alla Comunità Internazionale per rimanere ben focalizzata e, soprattutto, per dare un contributo a questo processo che si sta rivelando sempre più difficoltoso e caotico. In primis, c’è questo ‘elephant in the room’ costituito dal fatto che le Nazioni Unite, dopo mesi di negoziati, hanno messo in piedi un processo incentrato sulle elezioni, sulla necessità di tenerle a tutti i costi, senza dare il tempo alle autorità del Paese di gestire questi mesi e di arrivare preparati alla scadenza del 24 Dicembre.
A Parigi, la Comunità Internazionale – Draghi in primis – ha ribadito la necessità di elezioni ‘libere’, ‘credibili’ ed ‘inclusive’, però, al momento, manca ancora una legge elettorale per definire come e cosa si va a votare tanto che il Presidente del Consiglio italiano ha esortato il governo ad interim a sbrigarsi ad approvarne una già nei “prossimi giorni”. La fissazione di una data per la tornata elettorale è stata controproducente e, comunque, le elezioni restano l’unica via d’uscita dall’impasse? Molti pensano siano un passo più lungo della gamba, Lei?
Assolutamente, anche io sono di questa opinione, non tanto perché non si dovesse arrivare a delle elezioni in sé, che rappresenta un passo fondamentale, però il fatto di aver fissato una data e di non mostrare flessibilità, eventualmente, anche nel doverla modificare, riguarda diversi Paesi della Comunità Internazionale, tra cui la Francia che ha convocato questa Conferenza proprio per spingere sulle elezioni entro il 24 Dicembre (l’Italia, fin dall’inizio, ha mostrato un atteggiamento più cauto), ma richiama l’attenzione anche sull’impreparazione della Libia, non tanto per le procedure elettorali, quanto piuttosto per l’aspetto politico.
Quindi, il pressing Internazionale sulle elezioni è forte, ma rimandarle sarebbe anche peggio?
Adesso è tardi per cambiare questo calendario. È chiaro che produrrebbe un caos ancora maggiore, ma il problema non è da qui al 24 Dicembre, bensì cosa avverrà dopo e, quindi, il pressing dovrebbe avvenire sul post-voto. Per quanto riguarda il pre-elezioni, sappiamo che: c’è un grosso caos; che ancora non c’è una legge elettorale; che se anche riuscisse a ripristinare un minimo di normalità, queste elezioni saranno esposte a qualunque tipo di critica.
C’è, infatti, qualcuno che ipotizza un eventuale mancato riconoscimento dei risultati da parte dei perdenti.
Esattamente, ci sarà lo spazio per sostenere che le elezioni non sono valide. È come se questo rischio fosse insito nel processo elettorale costruito proprio perché, di fatto, tutti gli attori libici che oggi sono in posizione chiave hanno interesse a mantenere una situazione ante-elettorale in cui tutti possono spartirsi una fetta della torta, anche se c’è un impegno molto forte con la Comunità Internazionale. Le elezioni si terranno, ma il problema vero sarà il dopo.
Mario Draghi ha sottolineato la necessità che le elezioni siano “inclusive”. Nelle ultime settimane, è scoppiata una vera e propria polemica sulla possibile candidatura del Premier libico, Abdulhamid Dbeibah – dato per favorito dai sondaggi – vietata da una legge promulgata dal Parlamento di Tobruk. Perché la candidatura è così problematica e divisiva? Creerebbe più problemi che altro?
La sua candidatura è sicuramente un problema perché va contro l’impostazione del Governo di Unità Nazionale, secondo cui l’obiettivo del governo fosse quello di condurre il Paese alle elezioni e che non ci fosse l’opportunità per gli esponenti di questo esecutivo di ricandidarsi. In un certo senso, ci sarebbe anche bisogno di un emendamento perché la roadmap ONU è costruita proprio su questi principi. È chiaro che Dbeibah non ha mai nascosto la sua ambizione a continuare ad avere un ruolo centrale nel Paese, ma sappiamo anche che, spesso, in Libia, questo ruolo è anche extra-istituzionale. Il problema di fondo è anche che non si sa ancora cosa si sta andando a votare, se sono elezioni presidenziali o parlamentari, la tempistica che riguarderà entrambi, l’assenza di chiarezza sull’impianto istituzionale, su quali sono le cariche e i loro rispettivi compiti. Il Premier e il Presidente del Consiglio presidenziale sono due figure che, come abbiamo visto recentemente, sono anche entrate molto spesso in rotta di collisione proprio perché, a livello politico-istituzionale, non c’è sufficiente chiarezza. Qualunque sia il risultato, c’è molta incertezza riguardo il quadro-istituzionale che fa sì che queste elezioni siano, di fatto, più un rischio che una possibilità di miglioramento della situazione.
Non a caso, lo scontro tra Dbeibah e Al Menfi ha riguardato anche la controversa sospensione della Ministra degli Esteri libica, Najla al Mangoudsh. Certo è che non mancano gli interessi a non farle aprire le urne…
Il pericolo è che i nodi di questa confusione istituzionale si rafforzino dopo il 2024 quando si dovrà rimettere insieme i pezzi e quello che emerge è che l’idea di avere una tornata elettorale presidenziale prima e poi, a distanza, convocare elezioni parlamentari – che è stata la mossa del Parlamento di Tobruk e del suo speaker, Aguila Saleh, per cercare di mantenere di fatto il potere nelle sue mani, essendo il capo dell’organo legislativo – non va incontro, in realtà, al desiderio dei libici che, giustamente, esprimono da tempo la volontà di andare alle urne. Il problema è che questo tipo di elezioni non sarà ciò che permetterà ai libici di trovare una stabilità dal punto di vista politico, anche perché nella storia recente del Paese, se ricordiamo la tornata elettorale precedente, le elezioni parlamentari del 2014, è quello che ha aperto la strada alla guerra civile interna dal 2015 in poi, con la successiva escalation di Haftar.
Sono diffusi i sospetti che sia, come Lei ha appena ricordato, proprio la Camera dei Rappresentanti la più interessata a rimandare il voto per prolungare il suo potere. 
Esattamente. Lo speaker del Parlamento, Aguila Saleh, è stato quello che, di fatto, negli ultimi tempi, ha manovrato, dietro le quinte, il processo che ha portato alle elezioni in quanto proprio nell’organo legislativo c’è la chiave di questa transizione, prima con l’approvazione dei decreti elettorali, poi con la necessità di arrivare ad un’elezione parlamentare che non ha risposto a questi principi di inclusività e accountability che dovevano essere, secondo l’ONU, la cifra di questi mesi dal 15 Marzo in poi.
La minaccia di sanzioni – rimarcata anche da Draghi a Parigi – per chi ostacolerà il processo elettorale disincentiverà effettivamente i ‘male-intenzionati’?
Parlare di sanzioni sembra sempre, soprattutto da parte di chi lo fa, di avere uno strumento forte per orientare i comportamenti dell’altra parte, ma nel caso della Libia, è uno strumento non utilizzabile è che non ha senso poiché il problema non è che le autorità libiche non vogliano tenere le elezioni. Le urne si apriranno formalmente, ma il problema è il significato politico di questo processo e come ogni singolo attore lo stia manipolando a proprio vantaggio per tenere in piedi uno status quo di cui tutti stanno beneficiando ed anche il caos conseguente alle elezioni potrebbe essere, in fondo, benefico. Quindi, utilizzare lo spettro di sanzioni può sembrare una mossa ‘coloniale’ dopo che per mesi non abbiamo fatto altro che lasciare spazio a questo tipo di comportamenti. La stessa Italia, che strizzava l’occhio ad Haftar in nome dell’inclusività dopo la Conferenza di Roma del 2018, non ha aiutato. Anche la Francia, che si preoccupa delle elezioni, non può dimenticare che l’escalation militare, di fatto, ha contribuito anche lei ad alimentarlo. Le sanzioni sono, dunque, uno strumento inadatto, ma anche abbastanza ridicolo visto che abbiamo dimostrato di non avere chissà quali strumenti in mano per incidere sulla crisi libica.
In queste ore, è giunta la notizia della candidatura del figlio del Colonnello Gheddafi, Saif al-Islam. Secondo diversi osservatori, avrebbe tutte le carte in regola per vincere l’imminente tornata elettorale. Lei che ne pensa? E chi lo sostiene, in patria e all’estero?
Penso che tanti dei candidati, che fanno parte del panorama politico della storia recente della Libia, di fatto rappresentano dei personaggi che devono comparire in questo processo, ma che non hanno grande chance. Lo stesso Haftar, sulla cui candidatura tanto si discute, così come Saif al-Islam non hanno grandi possibilità perché il panorama libico è molto parcellizzato: pur avendo un loro seguito locale, non a caso lo stesso Saif ha presentato la propria candidatura a Sebha, una zona a Sud del Paese, segno che non c’è solo una distanza politica, ma anche geografica rispetto a quello che è la base operativa di questo candidato che aveva fatto perdere le sue tracce nel Paese e riemergendo in condizioni non così tanto inaspettate. La stessa cosa riguarda Haftar, il quale ha in mano la Cireneica, ma non è tanto lui in quanto tale, il cui seguito dopo la sconfitta militare da parte dei turchi é stato fortemente compromesso, sta cercando di mantenere il piede nella gestione della Libia, avallando il processo elettorale che, fino a pochi mesi fa, era da lui considerato un anatema perché la conquista del potere doveva avvenire attraverso altri mezzi. Haftar, però, non controlla una costituency tale da potergli permettere di competere in questa elezione. Potrei sbagliarmi, ma penso, invece, che ad avere tutte le carte in regola per vincere sia l’attuale Primo Ministro che ha utilizzato il processo di transizione dell’ONU di questi mesi per acquistare più potere, attraverso politiche di corruzione e mediante l’utilizzo delle risorse statali per crearsi, di fatto, un proprio seguito.
È opinione diffusa che, come il padre, Saif al Islam abbia un ottimo rapporto con le tribù locali. È così e chi altri lo sostiene all’estero?
Sicuramente, all’interno, queste costituency locali pro-gheddafiane che potranno mostrarsi a viso aperto, avendo un candidato su cui puntare. E questo chiaramente rappresenta anche una certa riabilitazione di una parte della storia recente del Paese. All’esterno, tutti si sono mostrati molto sorpresi di questa candidatura, però è vero che anche lui ha i piedi ben piantati nelle diplomazie straniere. Non penso che ci sia un sostegno netto da parte di qualche Paese, potrebbero essere Paesi – anche africani – con cui Gheddafi ha avuto rapporti sì abbastanza difficili, ma che lo hanno sostenuto nella fase critica del suo regime, vivendo la Libia come un Paese che si ribella all’imperialismo occidentale.
E Haftar? Il quotidiano israeliano ‘Haaretz’ ha riportato la notizia di un viaggio del figlio, Saddam, in Israele che, pur non avendo mai avuto grandi rapporti con la Libia, sembra essere entrato in nuova fase, inaugurata dagli Accordi di Abramo. L’uomo forte della Cirenaica è in cerca di supporter internazionali?
Haftar sta sicuramente allargando i propri contatti, ben sapendo che il sostegno finora ricevuto dall’esterno non è sufficiente: gli emiratini lo hanno sostenuto militarmente, ma adesso hanno cambiato la loro strategia, preferendo puntare sugli investimenti e sull’economia e questo è ciò che rende forte il ‘modello Haftar’. Però, dal punto di vista politico, non li vedo troppo convinti a sostenere Haftar, anche se restano dalla sua parte. Cosa che crea un collegamento anche con gli israeliani, finora ai margini della questione libica, ed adesso sembrano più interessati alla vicenda, soprattutto con le reti più strette inaugurate dagli Accordi di Abramo, motivo per cui la Libia potrebbe diventare un terreno molto interessante per gli israeliani. Tuttavia, un sostegno troppo aperto nei confronti di Haftar nessuno arriverà mai ad averlo in una tornata elettorale presidenziale, nella quale una posizione troppo netta non credo vada a vantaggio di Paesi esterni, e questo vale per la Russia così come per gli Emirati Arabi: c’è un sostegno, ma non troppo aperto e questo spinge Haftar a diversificare i propri contatti, anche se la sua carriera politica risulta fortemente compromessa da quanto successo negli ultimi anni.
Come interpretare l’impennata di registrazione – quasi tre milioni – degli elettori libici?
C’è una grande voglia di elezioni, che dal 2014 non avvengono. Non tutti sono consapevoli degli ostacoli, anche perché il livello di alfabetizzazione è molto basso in alcune aree. La registrazione fa parte di un’architettura elettorale corretta, il problema è di tipo politico.
Nelle ultime settimane, non sono mancati anche scontri tra milizie, come quelli avvenuti ad al-Zawiya, nella Libia occidentale, tra quelle fedeli a Muhammad al-Bahrun, e la milizia Ghaniwa, a sua volta parte dell’Autorità di sostegno alla stabilità a sua volta guidata da Abdel Ghani al-Kikli, causando anche danni agli impianti della National Oil Corporation. Le milizie temono le elezioni, hanno più interesse a non celebrarle? 
Non è detto che gli toglierebbe potere, ma sicuramente rimescolerebbe gli equilibri. Visto che adesso si è arrivati ad avere una sorta di equilibrio statico delle varie forze in campo dal punto di vista militare che si fonda anche sulla distribuzione delle risorse statali, le elezioni possono essere viste come un rischio perché potrebbero alterare questo equilibrio. Allo stesso tempo, dalle elezioni potrebbe scaturire un maggiore caos che, a ben vedere, potrebbe dare alle milizie spazi addirittura maggiori di condizionare la vita del Paese. In questa fase, c’è comunque molta cautela anche perché il governo che uscirà da queste elezioni dovrà sicuramente prendere delle decisioni importanti, che riguardano la sicurezza del Paese – mercenari, esercito nazionale, controllo delle frontiere – e, quindi, di conseguenza, le milizie sarebbero direttamente coinvolte nel prossimo capitolo della storia libica. Peccato, però, che siano dieci anni che si parla di un coinvolgimento delle milizie: i tempi sono abbastanza lunghi, non è detto che ci si arrivi, ma lo speriamo.
Nel settembre scorso, il governo ad interim è stato sfiduciato per la legge di bilancio che, ancora, non è stata approvata. Rimangono, altresì, divisioni sulla ripartizione dei ricavi di petrolio e gas oltre che sulla Banca centrale. Tutto questo fomenta i contrasti e l’instabilità. 
Assolutamente sì. La Libia è un Paese ricco di risorse, ma la loro gestione è stata, di fatto, lo strumento attraverso cui è stato mantenuto il caos e la divisione del Paese. C’è molto lavoro da fare, ma, per ora, ancora una volta, la classe politica ha preferito non mettere mano a queste riforme, anche perché non aveva il mandato per farlo. Il rischio è che si mantenga questo limbo di sfruttamento delle ricchezze del Paese senza un quadro di riforme preciso mentre sulla questione ‘migranti’ è chiaro che il prossimo governo dovrà prendere delle decisioni: da parte dei Paesi europei c’è la volontà di ingaggiare il nuovo governo di Tripoli per sviluppare delle linee guida per la gestione dei migranti che vadano oltre quanto le singole capitali europee hanno fatto, come l’accordo tra Italia e Libia del 2017. Inoltre, la stessa leadership della NOC, che in questi anni si era mantenuta solida rappresentando anche un baluardo, di fatto, di fronte ad un tentativo di destrutturazione delle istituzioni che era stato ereditato da Gheddafi, ora è in una fase complicata perché ci potrebbe essere un cambio della guardia e, di conseguenza, non si sa ancora chi avrà in mano il potere. Sicuramente, l’apparato politico cercherà di avere un ruolo di controllo.
Ovviamente, il petrolio stuzzica gli appetiti di tutti gli attori, ma sui migranti, pensa che la Conferenza di Parigi non ha apportato cambiamenti sostanziali?
Secondo me, c’è ancora un forte attendismo perché, da una parte, si usa la scusa delle elezioni perché i tempi siano propizi per negoziare un accordo. Questo riguarda la responsabilità della parte libica. Dal punto di vista europeo, c’è tutto un negoziato da fare tra i 27 su quale debba essere la gestione dei migranti da proporre, visto il completo fallimento delle politiche europee sull’immigrazione, anche i tentativi di revisione che la Commissione aveva proposto nel settembre 2020, ma che sono caduti nel vuoto.
A questo riguardo, colpisce la contemporaneità tra quanto accade nel Mediterraneo e quanto sta accadendo al confine tra Polonia e Bielorussia. La sostanza è sempre la stessa: l’Unione Europea si ritrova assediata ed inerme rispetto alle crisi di migranti provenienti da Paesi terzi. 
Esattamente.
Veniamo all’altro dossier spinoso su cui poco si è riusciti a fare a Parigi: i mercenari. I protagonisti sono Russia e la Turchia, che, peraltro, non hanno partecipato alla Conferenza ad alto livello: la prima ha inviato il Ministro degli Esteri, Serjey Lavrov, la seconda il Viceministro degli Esteri, Sedat Onal. Questa partecipazione a non alto livello ha depotenziato, non solo simbolicamente, la Conferenza? Perché non si riesce a fare passi in avanti su questo fronte?
Era stata fissata una scadenza, la fine di gennaio 2021, ma non è stata rispettata. Poi, è stato creato il nuovo governo, c’è stata la Conferenza di Berlino, ma anche lì non è stato fatto nulla. Ad un mese dalle elezioni, è impensabile aspettarsi che venga fatto qualcosa da un Paese come la Turchia, che la settimana scorsa ha ospitato Dbeibah a Instanbul, manifestando i forti legami tra i due Paesi e i loro leader. Questa, tra l’altro, è la principale carta di Dbeibah, il cui potere è una garanzia per Ankara che, di contro, gli garantisce sostegno. Detto questo, gli accordi militari, di demarcazione marittima ed economici, continuano ad essere se non implementati in pieno – perché ci sarebbe bisogno di un governo legittimamente riconosciuto – ma la presenza militare turca è giustificata proprio in questi termini: si arriverà ad avere un governo legittimamente votato e riconosciuto – che, guarda caso, sarà anche amico di Ankara – a quel punto, i mercenari potranno andare via e si potrà negoziare l’uscita delle truppe, ma a quel punto non ce ne sarà più bisogno: la Turchia vuole mantenere la propria presenza militare in Libia finché non sarà sicura che non ci sia il rischio di un ritorno alla situazione del 2019, per sottolineare il proprio ruolo oltre che per fare in modo che tutti gli sforzi profusi militarmente, diplomaticamente ed economicamente portino dei risultati. Ecco perché credo non ci sia alcun margine per far cambiare ad Ankara. La Conferenza di Parigi non sarebbe stato comunque il forum ideale per discutere di questo tema anche perché la Conferenza era indetta da un Paese come la Francia che sappiamo essere molto invisa – reciprocamente – alla Turchia. In più Ankara ha partecipato a ranghi ridotti ed è chiaro che non è stato possibile ottenere niente di più. Da un certo punto di vista, il ragionamento turco ha anche senso, ma, nonostante l’impegno della Comunità Internazionale, non credo che, nel caos libico, l’uscita delle truppe straniere sia il più grosso dei problemi.
C’è chi sostiene che se vincesse Dbeibah, vincerebbe Erdogan: è così o è una semplificazione eccessiva?
I due leader sono estremamente in sintonia e continuano, nonostante tutto, a portare avanti la loro collaborazione. È chiaro che se vincesse Dbeibah, la Turchia ha una pedina molto importante in Libia, ma, allo stesso tempo, è molto coinvolta nel Paese: non avrà magari più bisogno delle truppe, ma il proprio potere derivabile dagli accordi commerciali si manifesterà sempre più. Non la vedrei come Erdogan che si prende la Libia. L’Italia dovrebbe vedersi come parte coinvolta nel processo di transizione libico e vedere la Turchia come un partner, non un competitor, anche perché i piani sono estremamente sbilanciati.
E la Russia?
Per Mosca è diverso in quanto è meno investita direttamente: si nasconde dietro la Wagner, senza doversi necessariamente esporre come dovrebbe fare, invece, se fossero dei propri soldati. Detto questo, anche la Russia è certamente coinvolta nella discussione, ma i passi avanti fatti nelle ultime settimane dal Joint Military Committee, il Comitato 5+5, è sicuramente un passo avanti su cui c’è, tuttavia, molta poca sensibilità da parte dei Paesi occidentali come Francia e Italia, i quali spesso sono portati a vedere la Libia attraverso i proprio occhiali, senza considerare che ci sono interessi molto forti dal punto di vista regionale, come il ruolo dell’Egitto. Però, la roadmap impostata dal JMC potrebbe essere qualcosa su cui lavorare, inserendo con sempre maggior forza questo capitolo militare nel processo di transizione politico-istituzionale mentre, finora, è stato tenuto separato.
Arriviamo al nodo cruciale: Draghi, ma non solo lui, ha sottolineato il riavvicinamento di Italia e Francia sul dossier libico, segnalando un ritorno in campo dell’Europa. La sensazione di molti  osservatori, tuttavia, è che l’Europa stia perdendo influenza in Libia, divenuta ormai terreno di spartizione tra Turchia e Russia. C’è un incontrovertibile, seppur amaro, fondo di verità in questa analisi?
Sicuramente, non ci sono sul fatto che l’Europa abbia perso terreno, soprattutto dopo il 2018/2019, da quando c’è stato il conflitto militare in cui l’Europa non ha potuto far altro che non far nulla, dichiarandosi impotente, anche di fronte alle richieste di aiuto da parte del precedente governo di unità nazionale di Serraj. Che l’Europa, dal 15 Marzo scorso in poi, stia cercando di recuperare terreno è altrettanto vero, ma come lo sta facendo? Abbiamo visto Francia, Germania e Italia estremamente attivi, anche nelle visite, ma, alla fine, non c’è una visione strategica condivisa europea. È apprezzabile che Francia e Italia abbiano finalmente trovato un modus operandi, e questo è il risultato più importante dopo quattro-cinque anni di tensione, ma è l’unica parvenza di politica europea sulla Libia, perché, di fatto, non c’è granché. Sicuramente, la Libia è un dossier nelle mani di altri, ma questo non vuol dire che la Libia non guardi all’Europa come partner importante: lo fa sicuramente, ma è un terreno aperto.
Negli ultimi anni, l’Italia è parsa molto incerta e, spesso, indecisa, a tratti incoerente sulla linea da tenere in Libia. Qualcosa sembra cambiato con Mario Draghi, o no?
Draghi sembra sicuramente più coerente, più semplice da seguire nella sua postura di politica estera, oltre che molto attivo. La vicinanza tra Draghi e Macron è stata la foto più importante per segnalare il riavvicinamento tra Italia e Francia, ma su cosa fare e come farlo c’è ancora del lavoro da fare. Sulla performance del governo Draghi in politica estera, gli italiani condividono molte delle posizioni dell’esecutivo, anche sulla Libia, ed anzi, chiedono di più, soprattutto nella cooperazione con la guardia costiera libica.
Alla Conferenza di Parigi, ha partecipato anche la Vicepresidente USA, Kamala Harris, che, peraltro, ha avuto un bilaterale con il Presidente francese Macron. Nonostante il maggiore interesse che l’amministrazione Biden sta mostrando per la questione libica rispetto all’amministrazione Trump, il ruolo americano continua a sembrare defilato. È una sensazione sbagliata? 
La sensazione è giusta perché è quello a cui siamo stati abituati, per quanto riguarda la Libia, negli ultimi dieci anni: o l’assenza totale o un atteggiamento di sprono. Penso che è un qualcosa su cui, come europei, dovremmo metterci il cuore in pace: su alcune questioni, gli americani non hanno più in mano i dossier e, quindi, oltre ad aprire la porta e a coordinarsi con Washington, non si può perché hanno un ruolo limitato in termini di risorse e capacità diplomatica. Occorre investire di più con i turchi oltre che mantenere un canale aperto con la Russia ed un Paese come l’Italia ha le carte in regola per giocare di sponda tra le varie parti e dovrebbe farlo di più. Ma in una fase come questa di pandemia, la politica estera continua a non essere una priorità.