“Il mondo è cambiato e il modello economico tedesco – che punta sull’export, soprattutto verso la Cina, ma, a livello interno, rifugge gli investimenti in nome dell’austerità – non è più ripetibile”. Intervista a Paolo Guerrieri, docente alla Paris School of International Affairs di Sciences-Po e alla Business School dell’Università di San Diego in California

 

Domenica 26 settembre, la Germania si recherà alle urne per eleggere il nuovo Parlamento e quindi il nuovo Cancelliere, il successore di Angela Merkel. Durante i suoi 16 anni alla guida del suo Paese, Merkel ha dovuto affrontare numerose crisi: da quella finanziaria a quella dell’euro, da quella siriana a quella del Covid-19.

La Germania è stata tra i grandi Paesi europei quello che tra il 2005 e il 2020 è cresciuto di più: il reddito reale pro capite tedesco è aumentato del 18% sotto nell’era Merkel e la crescita dei redditi dei lavoratori tedeschi è stata spinta soprattutto dalla produttività del lavoro finalizzata all’export, il vero motore dell’economia tedesca. In questi anni, il Paese si è, infatti, attestato come il terzo esportatore mondiale, soprattutto di auto di lusso, componentistica di veicoli e medicine confezionate.

La Germania è, dunque, sicuramente un colosso economico, la locomotiva d’Europa, ma per quanto ancora? A detta degli economisti, la sua progressiva vulnerabilità economica che la rende potenzialmente impreparata per un futuro modellato dalla tecnologia e dalla rivalità tra Stati Uniti e Cina, ha avuto origine negli anni del mandato di Merkel (ma anche prima) durante i quali il Paese: ha deciso un’uscita frettolosa dall’energia nucleare senza espandere la rete di fonti energetiche rinnovabili, ma costringendo i tedeschi a pagare prezzi dell’energia che sono i più alti al mondo; non ha pensato al futuro – investendo in infrastrutture, in istruzione e ricerca – ma si è crogiolata sui successi delle esportazioni (tra il 1993 e il 2019, la quota sul Pil delle esportazioni di merci e servizi è passata dal 20 al 47%. Dal 2010 la Germania registra ogni anno un surplus sopra i 200 miliardi di dollari); il forte export verso la Cina ha reso il Dragone primo partner commerciale della Germania (il ‘Global Times’ lo ha rivendicato con soddisfatta malizia), superando gli Stati Uniti, ma ha altresì fatto diventare la Germania pericolosamente dipendente dalla Cina come mercato per le sue esportazioni (soprattutto automobilistiche).

Proprio il massiccio aumento delle esportazioni verso il mondo globalizzato, in particolare verso il Dragone (nel 2020 ha sfiorato i 110 miliardi di dollari), all’insegna del cosiddetto ‘mercantilismo’, ha promosso la crescita teutonica. Questo ha spinto Merkel a decidere pragmaticamente di abbandonare sempre di più la sua iniziale enfasi sui diritti umani nelle sue relazioni con Pechino ed ha invece incoraggiato legami economici sempre più profondi: sono ben 12 le volte in cui la Cancelliera è andata in visita a Pechino, spesso con delegazioni di imprenditori tedeschi. Un rapporto sempre più intenso che, tuttavia, ha reso Merkel sempre meno resistente alle pressioni del presidente cinese Xi Jinping. Il che ha condizionato anche la politica europea con la Cina, come ha dimostrato, alla fine dello scorso anno, la sottoscrizione UE dell’accordo di investimento con Pechino (CAI), nonostante le obiezioni dell’entrante amministrazione Biden e di altri alleati europei.

Se la forte dipendenza dall’economia cinese sta creando un cuneo nelle relazioni transatlantiche, ha d’altra parte permesso alla Cina di diventare un concorrente in aree come i macchinari industriali e i veicoli elettrici. Questo perché, (come sempre accaduto nella storia nei casi di grandi flussi di esportazioni) per prosperare, le aziende tedesche hanno dovuto dotare le fabbriche cinesi di macchine utensili e altri beni industriali che hanno rafforzato la capacità di export cinese: in altri termini, la Cina è riuscita ad utilizzare ciò che ha appreso dalle aziende tedesche per competere con loro. Non a caso le case automobilistiche cinesi, tra cui Nio e BYD, stanno iniziando a vendere veicoli elettrici in Europa. La Cina è diventata il secondo esportatore di macchinari industriali, dopo la Germania, secondo la VDMA, che rappresenta le società di ingegneria tedesche.

Quella che i critici chiamano ‘miopia’ – il non pensare al futuro – è stata alimentata dall’ebbrezza del successo che l’economia teutonica stava vivendo, ma anche dal fatto che le principali riforme del mercato del lavoro che l’avevano facilitato erano state fatte dal predecessore di Merkel, Gerhard Schröder, la cui revisione economica avrebbe portato a un forte calo della disoccupazione, da oltre l’11% quando la Merkel è entrata in carica a meno del 4%. Ma i cambiamenti erano impopolari perché indebolivano i regolamenti che proteggevano i tedeschi dai licenziamenti. Hanno spianato, nel 2005, la strada alla sconfitta di Schröder da parte di Merkel che, però, ha goduto politicamente di quei frutti, imparando la lezione di toccare il meno possibile i privilegi tedeschi.

Ma non tutti hanno potuto godere di questo indubbio successo. Nel 2003, la liberalizzazione dei lavoretti (minijob) ha permesso ha favorito anche l’esplosione dell’occupazione a basso salario, part-time, con limitate possibilità di mobilità verso l’alto. L’aumento del reddito, inoltre, non ha fatto diminuire tra la popolazione – in rapido invecchiamento – la povertà favorita anche dalla scarsa spesa pubblica, ma non ha neanche definitivamente colmato il dislivello tra Est e Ovest.

Se gran parte delle riforme erano state fatte, a Merkel toccava gestire in modo responsabile e oculato, assicurando stabilità e sicurezza come dimostrato a crisi finanziaria e del debito, salvando l’euro e, mentre la Banca centrale europea stampava denaro per aiutare i Paesi dell’eurozona più colpiti, tenendo a bada i falchi della sua stessa CDU come il suo Ministro delle finanze di lunga data, Wolfgang Schäuble, che era uno dei principali sostenitori delle politiche che proteggevano le banche tedesche mentre imponevano una dura austerità all’Europa Meridionale e che ha imposto una disciplina fiscale che dava priorità agli avanzi di bilancio rispetto agli investimenti.

La causa della scarsa capacità di visione nell’investire è tutta da ricercare in uno dei principali pilastri della rigida politica di bilancio tedesca nota come ‘Schwarze Null’ (pareggio di bilancio), lo ‘Schuldenbremse’, ovvero il freno all’indebitamento, inserito in Costituzione. Questo meccanismo limita il deficit in condizioni ordinarie allo 0,35% del PIL. Politiche ‘frugali’ che, oltre a garantire alla Germania un alto standing di credito e, di conseguenza, un basso costo del debito, sono divenute molto popolari tra quei tedeschi che associano la spesa in deficit all’inflazione crescente, ma che la pandemia ha costretto a sospendere (anche se non ad eliminare per sempre).

Intanto, però, il ‘danno’ l’hanno già arrecato, causando un forte ritardo del Paese perché hanno tagliato drasticamente gli investimenti pubblici che, se nel 1970 erano pari al 5% del PIL, da almeno tre lustri non si schiodano dal 2%, contribuendo ad appena il 10% alla formazione complessiva di capitale fisso lordo, uno dei valori più bassi dell’Eurozona. Un dato allarmante che si unisce a quello reso noto due mesi fa da Scope Ratings secondo cui dal 2008 l’investment gap della Germania rispetto agli emittenti analoghi con rating tripla A ammonterebbe a circa 410 miliardi di euro, pari al 12% del PIL tedesco del 2019.

La maggior parte delle scuole tedesche non dispone di Internet a banda larga e gli insegnanti sono riluttanti a utilizzare gli strumenti di apprendimento digitale, una situazione che è diventata tristemente evidente durante i blocchi del coronavirus. Dal 2016 la Germania è scivolata dal 15° al 18° posto nella classifica della competitività digitale dell’Istituto per la gestione e lo sviluppo di Losanna, che ha attribuito il calo in parte alla formazione e all’istruzione inferiori, nonché ai regolamenti governativi. Inoltre – sottolinea il World Economic Forum – scarsi investimenti hanno portato al decadimento infrastrutturale del Paese, penalizzandone la competitività.

La necessità per la Germania di invertire la tendenza, di sciogliere le briglie della rigidità fiscale per investire e modernizzarsi sta diventando più urgente per il post-Covid-19 all’insegna del Green Deal europeo contro il cambiamento climatico. Berlino si è impegnata a ridurre le emissioni di gas serra del 65% rispetto ai livelli del 1990 entro il 2030 e a diventare carbon neutral al massimo entro il 2045. Obiettivi ambiziosi che rendono cruciale una riconversione della produzione, delle infrastrutture energetiche e dei trasporti. Proprio in questa fase è diventato sempre più inevitabile il passaggio ai veicoli elettrici. Il settore automotive produce il 5% del Pil tedesco, occupa 820 mila lavoratori e ha ogni anno un surplus commerciale di ben più di 100 miliardi di euro.

I dirigenti dell’auto non criticano Angela Merkel, che è stata una forte sostenitrice dei loro interessi a Berlino e all’estero. Ma implicitamente criticano la risposta lenta del suo governo al passaggio ai veicoli elettrici. Fino allo scorso anno, gli incentivi finanziari che il governo tedesco offriva agli acquirenti di auto elettriche erano sostanzialmente inferiori ai crediti d’imposta disponibili negli Stati Uniti. “Ciò che è molto importante per la Germania come nazione industriale, e anche per l’Europa come luogo per l’innovazione, è una simbiosi tra un’ambiziosa politica climatica e una politica economica molto forte”, ha dichiarato Ola Källenius, amministratore delegato di Daimler, alla fiera IAA Mobility di Monaco di Baviera.

“Il quadro per questa transizione dell’industria automobilistica non è ancora completo”, ha affermato Oliver Zipse, amministratore delegato di BMW e presidente dell’Associazione europea dei produttori di automobili. “Abbiamo bisogno di un quadro politico del settore che inizi con l’infrastruttura di ricarica”. Sebbene la Germania abbia più stazioni di ricarica pro capite rispetto agli Stati Uniti, non ce ne sono abbastanza per supportare la crescente domanda di veicoli elettrici, che potrebbe minacciare l’egemonia delle case automobilistiche di lusso tedesche. Tesla ha già preso una quota di mercato significativa da BMW, Mercedes-Benz e Audi e sta costruendo una fabbrica vicino a Berlino per sfidarli sul loro terreno di casa.

Un cambiamento ‘epocale’ che potrebbe creare problemi anche al mercato del lavoro tedesco e richiede una serie di iniziative a supporto di lavoratori più esposti al rischio di marginalizzazione derivante dalla transizione energetica. È vero che la Germania presenta un tasso di disoccupazione contenuto (3,7% a giugno 2021 contro il 7,7% per l’intera Eurozona) e un forte tasso di occupazione (79,3% nel 2019 contro il 72,6% della Francia e il 65,7% dell’Italia). Ma, secondo il Ministero del Lavoro, tra il 40 e il 50% di tutti i lavoratori in Germania dovrà riqualificarsi nelle competenze digitali per continuare a lavorare entro il prossimo decennio.

Come se non bastasse, tra il 18% e il 19% dei lavoratori (la media europea è 15%), soprattutto meno qualificati, percepisce una retribuzione inferiore ai 2/3 del salario medio mentre cresce non scende sotto il 26% (la media europea è meno del 20%) il numero dei lavoratori part-time. Questo comporta ad un numero di ore lavorate in media annua per lavoratore fortemente in picchiata: si è arrivati a 1382 del 2019 dalle 1530 del 1995.

Una parabola discendente che, unita al cuneo fiscale sui redditi più bassi, non stimola la domanda interna: nell’ultimo decennio la spesa per consumi delle famiglie tedesche è andata diminuendo passando dal 56% del PIL nel 2010 al 52,5% nel 2019 per poi sprofondare nell’anno della pandemia. Ma se finora, la scarsa domanda interna è stata bilanciata dall’export, proprio il Covid-19 hanno messo in luce le debolezze di questo modello, dato che le esportazioni di beni tedeschi verso il resto del mondo sono calate del 9,2% rispetto all’anno precedente (1208 miliardi di euro contro i 1330 del 2019). Per la verità, già prima della pandemia, la crescita tedesca aveva subito gli effetti della Brexit, le tensioni commerciali tra Stati Uniti e Cina, la Brexit.

Ora, nella prima parte del 2021, dopo una iniziale ripresa, la dipendenza dall’Asia sta smorzando quella crescita, anche perché le strozzature nelle catene di approvvigionamento globali e soprattutto la grossa carenza di semiconduttori stanno facendo da zavorra. Secondo l’Istituto economico DIW, l’economia tedesca crescerà più lentamente del previsto quest’anno poiché i problemi della catena di approvvigionamento e la carenza di materie prime tengono a freno la ripresa industriale, ma dovrebbe rimbalzare fortemente l’anno prossimo: le previsioni di crescita tedesca del DIW per quest’anno sono del 2,1% dal precedente 3,2%, ma ha previsto un balzo del 4,9% nel 2022 supponendo che i vincoli di produzione si alzino verso la fine dell’anno. La crescita sarebbero destinata a normalizzarsi all’1,5% nel 2023.

Le principali formazioni politiche, ovvero quelle che ragionevolmente possono far parte della prossima coalizione di governo, non presentano differenze sostanziali nell’ambito della politica fiscale. Differenti coalizioni governative, a seconda del peso dei partiti al loro interno, produrrebbero quindi cambiamenti solo marginali della politica fiscale.

Tutti i partiti politici sembrano non voler tornare immediatamente al rigore. Lo stesso Armin Laschet, successore di Merkel alla guida CDU, ha presentato un programma di governo per i primi cento giorni che intende procedere nella discontinuità inaugurata nell’anno e mezzo della pandemia, andando a ridurre la tassazione sul ceto medio, rafforzare il welfare (sussidi ai single, per famiglie numerose e a basso reddito) molto ridimensionato negli ultimi decenni di flessibilità e tagli di spesa pubblica, favorendo la transizione energetica. Il candidato della SPD, Olaf Scholz, da Ministro delle Finanze, ha avuto buon gioco ad intestarsi la svolta rispetto all’austerity promossa per far fronte alla pandemia con il Recovery Fund così da rendere la Germania “sociale, digitale e climaticamente neutrale”: la proposta socialdemocratica comprende investimenti pubblici per rafforzare il sistema sanitario, la fine del tabù dello Schwarze Null, l’aumento del salario minimo a dodici euro l’ora, estensione del piano da 12 miliardi di euro già avviato per la svolta tecnologica. Anche i Verdi sostengono la discontinuità con la linea del rigore, proponendo un patto con il mondo delle imprese per governare la transizione ecologica, ma con grandi investimenti pubblici. La pecora ‘frugale’ sono i Liberali del FDP, che, se necessari, per formare una coalizione di governo, potrebbero annacquare tutti gli sforzi anti-rigoristi.

La discontinuità, a prescindere dalla coalizione di governo, è difficile diventi permanente anche perché l’opinione pubblica potrebbe essere contraria, magari convinta dal fatto che la crisi abbia mostrato l’importanza di una politica fiscale prudente che hanno permesso al governo, in piena pandemia, di spendere. L’idea che l’austerità paghi si è instaurata nella mentalità tedesca quando la Germania, da ‘malato d’Europa’, non riusciva a stare parametri fiscali di Maastricht con deficit superiori al 3% del PIL e, nel 2003, il Governo tedesco si era perfino alleato con Italia e Francia per prevenire l’applicazione delle regole di Maastricht da parte della Commissione europea. Istruzioni federali e statali si impegnarono a ridurre la spesa pubblica di circa di circa 4 punti percentuali di PIL. Una spending review che non causò recessione, ma forte crescita.

Strategia vincente, allora perché cambiarla? Ecco spiegato anche perché, quando è stato costituito il Next Generation EU, il governo uscente – con Olaf Scholz al Ministero delle Finanze – ha deciso che le (poche) risorse spettanti alla Germania dovessero essere destinate alla riduzione del debito pubblico, coprendo progetti già messi a bilancio o già finanziati nel 2020: per un  ammontare di 25,6 miliardi di euro (circa 0,7 per cento del PIL), il PNRR tedesco si basa infatti solo su trasferimenti e include 40 progetti di investimenti e 27 riforme.

Se il passato ‘ordo-liberalista’ è stato positivo, non è detto che il prossimo futuro sia altrettanto roseo. Spesa pubblica ai minimi termini, consumi privati al lumicino, investimenti scarsi, forte export: può continuare ad essere questa la ricetta vincente per la crescita tedesca? La Germania è pronta a mettersi in discussione? L’appuntamento con la storia è inevitabile, ma, come sostiene Friedrich von Logau – “la battaglia contro se stessi” è la più dura delle battaglie; vincere contro se stessi è la più bella delle vittorie’. Riuscirà vincerla? Ma, soprattutto, deciderà di combatterla? Ha provato a rispondere Paolo Guerrieri, docente alla Paris School of International Affairs, Sciences-Po (Parigi) e alla Business School dell’Università di San Diego in California, autore di un recente libro edito da ‘Il Mulino’ ed intitolato ‘Partita a tre’, ma già Senatore della Repubblica nella XVII legislatura, membro della Commissione Bilancio e della Commissione delle Politiche europee dal 2013 al 2018 oltre che ex consulente presso numerose istituzioni e organizzazioni internazionali.

Quale segno lascia Angela Merkel nell’economia della Germania? Quale bilancio si può fare, dal punto di vista economico, dei suoi sedici anni al potere?

I sedici anni della Merkel per l’economia tedesca sono stati anni di successo indubbio perché i numeri dicono questo, però, al contempo, in questo periodo, la Germania e la Cancelliera hanno pensato poco al futuro perché hanno solo molto incassato questa favorevole situazione economica. Secondo me, allora, è come se uno avesse avuto un’esistenza brillante ma lascia ai suoi eredi un sacco di guai. Quindi, se uno parla del passato, non può non dire che l’economia tedesca è andata bene, ma lo ha fatto con tutta una serie di strategie che oggi sono irripetibili e non si ritrova quasi niente di asset per gli anni a venire. Questo sarà un grosso problema per chiunque vinca le elezioni. Proprio questo mi chiedo nel senso che quando si dice di Merkel ‘grande statista’, è tutto vero, ma chi, nei momenti favorevoli del ‘sole’, non ne approfitta, in modo previdente, per riparare il tetto? Ecco che, se si guarda indietro, va tutto bene, il bilancio è molto positivo in termine di crescita pro-capite o di occupazione, ma, in realtà, se si scava, si vede che questo successo è dovuto sostanzialmente a quello di aver sfruttato al meglio un’industria manifatturiera molto competitiva per esportare verso il mondo e, soprattutto, verso la Cina

Ma tornando indietro di sedici anni, quando Angela Merkel divenne Cancelliera, com’era la Germania dal punto di vista economico? Già si avviava, anche per le riforme compiute dal predecessore Gerhard Schröder, su quel sentiero di successo?

La Germania, per molti anni – soprattutto dalla seconda metà degli anni ‘90 fino ai primissimi anni 2000 – è stata il ‘malato d’Europa’ perché non cresceva in quanto non era capace di trovare la formula adeguata. Poi sono avvenute le riforme di Schroder, importantissime sul piano della modernizzazione del mercato del lavoro, con una serie di costi: la flessibilità ha mietuto una serie di vittime. Poi sono intervenute altre sue cose fondamentali: la ristrutturazione del manifatturiero in chiave di catene del valore asiatiche e, soprattutto, est-europee, fondamentali per la competitività delle imprese tedesche in quanto è stato permesso di decentrare quello che non si poteva più fare ed hanno mantenuto il valore aggiunto. Quello che dovrebbe fare un Paese ricco. Un altro fattore è stata l’unione monetaria e di come Berlino ha potuto sfruttare la stabilità e, in molti casi, la svalutazione del tasso di cambio. Merkel ha quindi, da un lato, ereditato le riforme che erano già state approvate, senza dover aggiungere sul piatto nulla tranne gestire in modo corretto. Anche le industrie tedesche hanno sfruttato alla grande la globalizzazione perché hanno approfittato delle opportunità dei nuovi mercati per abbassare i costi ed importare senza grandi problemi. Indubbiamente, questo ha aiutato l’economia tedesca in quella fase.

Nel 2008, arriva la crisi finanziaria/bancaria che poi sarebbe divenuta del debito pubblico. Come l’ha affrontata Merkel? Cosa non ha fatto che, invece; andava fatto?

L’ha affrontata bene per il suo Paese, molto male per l’Europa in quanto non ha avuto alcuna visione dell’economia tedesca in Europa. Ha avuto una visione molto ‘contabile’ ed amministrativa. Innanzitutto, a fronte della crisi delle banche europee che soffrono quanto o anche più di quelle americane, ci fu (a Parigi, in una riunione con Sarkozy, Brown e Berlusconi) la decisione tassativa – che io ritengo sia stata un colpo terribile alla crisi europea che venne – di non adottare alcun approccio coordinato europeo, ma un ‘approccio nazionale’: ogni Stato doveva intervenire per le sue banche. Naturalmente non c’erano gli strumenti (non esisteva l’unione bancaria), però credo che vennero privilegiate risposte nazionali ad una crisi che, invece, era europea. Da quel momento, ci furono tutta una serie di decisioni in questa chiave, spostando, per prima cosa, tutta l’attenzione sulla crisi debiti pubblici, che fu per prima presa di petto, ma che fu effetto e non la causa della crisi: i debiti pubblici si ingrossarono perché gli Stati nazionali dovettero intervenire ognuno per cercare di porre riparo alla crisi bancaria che gli Stati Uniti aggredirono per prima, per poi preoccuparsi del deficit pubblico. L’esatto contrario di quello che facemmo in Europa e fu assai maldestro, provocando la recessione del 2012-2013 che fu tutta europea.

Nel frattempo era scoppiata la crisi greca. In quel frangente, Merkel riceveva pressioni contrastanti: dall’esterno per salvaguardare l’unione monetaria e dall’interno per impedire una qualsiasi condivisione dei rischi. Come valuta la Cancelliera in quel momento?

Per diversi anni ci fu un approccio di assoluta esaltazione delle soluzioni nazionali, spaccando il fronte europeo tra creditori e debitori (come Italia e Spagna). Credo che da quel momento in poi fino alla pandemia attuale si possa leggere una graduale sempre maggiore consapevolezza: gli interventi sistemici a livello europeo erano necessari mentre la soluzione ‘nazionale’ aveva dei limiti. Quello che succede per la Grecia è innanzitutto la decisione, nel 2012, presa grazie all’accordo della Germania con Francia e Italia di far nascere l’unione bancaria (non ancora completata); poi, nel 2014/2015, venne il momento del Quantitative Easing (QE) di Mario Draghi le cui scelte da Presidente BCE ebbero certamente sempre il discreto sostegno di Merkel. È come se, mano mano, si fosse fatta strada, nella Cancelliera, l’idea che sì i Paesi dovevano mettere ordine in casa propria, ma che bisognava anche occuparsi di un quadro sistemico, altrimenti i rischi di lasciare un Paese in recessione erano tanti. L’intervento tedesco, nel caso greco, fu fondamentale insieme a quello francese. Ricordiamo che c’era la forte posizione dell’allora Ministro delle Finanze, Schäuble che proponeva l’uscita della Grecia dall’Euro. Merkel, a quel punto, capì che l’uscita della Grecia avrebbe aperto una porta che non si sarebbe più chiusa. La Cancelliera, allora, decise di opporsi e portò a casa l’idea che la Grecia rimanesse nell’ UE.

Alla Germania viene rimproverata, tuttavia, una linea troppo dura nei confronti di Atene, costretta a tagli ‘lacrime e sangue’ dalla Troika. Si sarebbe potuto fare diversamente?

Furono fatti molti errori e non solo da parte della Germania, ma anche da parte del Fondo Monetario Internazionale (FMI) e dalla Commissione Europea che erano uniti nel sovrastimare la capacità che una forte cura deflazionistica, e quindi d restrizione, avrebbe potuto avere sul risanamento del debito. Solo dopo, e il FMI lo ha addirittura messo anche per scritto, si riconobbe che fu enormemente sottostimato l’effetto negativo che una cura così dura ha sullo stesso debito: la caduta della produzione fa crollare molto di più le entrate di quanto non sia il risanamento delle uscite e ci si ritrova con una situazione economicamente drammatica, ma anche socialmente insostenibile. La Germania fu allineata per un certo periodo, ma non fu la sola: c’era, addirittura, chi teorizzava l’austerità che fa crescere.

Il Fiscal Compact (o Patto di Stabilità) fu, da questo punto di vista, una scelta inadeguata?

Il Fiscal Compact credo sia stato, in realtà, un orpello perché c’erano già state delle riforme nel ‘Six Pack’ o nel ‘Two Pack’ l’obbligo per i Paesi di rientrare con il debito per arrivare alla percentuale del 70%. Il Fiscal Compact fu, in realtà, una sorta di simulacro di maggiore disciplina che fu introdotto perché la Germania si convincesse a varare l’unione bancaria. Ma non fu, poi, in realtà, mai applicato in quanto – tranne il Lussemburgo o la Germania – nessun altro Paese ha mai rispettato quei parametri che erano, economicamente e teoricamente, sbagliati ed assolutamente inadeguati a risanare i debiti. Infatti non hanno risanato nulla e, se si guardano le valutazioni fatte dalla Commissione, si può ben vedere come, per la grande maggioranza di Paesi, si sia di fatto rinviato ogni anno quello che doveva essere questo aggiustamento strutturale. Questa convinzione che bisognasse impartire questa cura di grande dimagrimento fiscale era nata già prima con l’idea del rigore, ma più importanti furono le scelte di politica economica opposte a quelle prese nel pieno della pandemia.

Intanto, però, sotto la guida di Mario Draghi, la BCE, di cui Berlino ha sempre difeso l’indipendenza, interveniva, ad esempio con il QE. Come si è evoluto il rapporto tra la Berlino e Francoforte?

La Germania ha messo in atto una strategia di crescita che ha severamente danneggiato l’Europa perché, pur essendo una grande economia, ha fatto ricorso alla strategia di un Paese piccolo, che sembra non preoccuparsi delle conseguenze delle sue scelte, che fa di tutto per essere competitivo, comprimendo salari, costi e domanda interna per esportare il più possibile fuori. Ed è quello che la Germania ha fatto conquistando il grande mercato cinese. Ma è una strategia che non può essere estesa all’insieme dei Paesi europei a meno che i Paesi europei non si mettano a cercare fuori dall’Unione Europea la domanda di esportazione. D’altro canto, proprio per le carenze di questa strategia, gli effetti negativi hanno portato alla necessità di interventi che la crescita, ancora alla metà del 2014 – dopo la recessione del 2008/2009 e quella del 2012/2013 – stentava a riprendersi poiché mancava un motore di domanda interna. Allora Merkel avalla il ‘whatever it takes’ perché si rende conto che stava crollando l’euro che, a quel punto, era in serio pericolo. Poi viene varato il Quantitative Easing, una politica monetaria accomodante, ed è poi quella la spinta che permette, nella seconda metà del secondo decennio, alla crescita di riprendere in Europa. In questo, la Germania protesta contro i tassi di interesse negativi, però, di fatto, non ha un’alternativa da proporre. Se la strategia adottata dalla Germania è stata un bene per sé, è stata al contempo una zavorra per gli altri Paesi europei che sono stati, in fondo, penalizzati per molti anni.

E si arriva al 2020, alla pandemia del Covid-19 che costringe, di fatto, la Germania a riconsiderare l’austerity, sia a livello nazionale sia a livello europeo con la proposta (insieme alla Francia) del Recovery Fund, come se si fosse imparata la lezione delle crisi precedenti. 

Esatto. La strategia della crisi di Covid-19 è simmetricamente opposta a quelle precedenti. Se si mettono insieme gli interventi, abbiamo: sospensione del Patto di Stabilità, che, qualora rientrasse in vigore, rientrerebbe il 1 gennaio 2023; interventi della BCE (per un totale di un 1 trilione e 850 miliardi di euro) – quelli che non vennero fatti nel 2009/2010 e che sarebbero serviti ai Paesi più indebitati – per intervenire onde evitare le crisi di liquidità ed ha iniziato a comprare, ad esempio, praticamente tutto il deficit italiano; il Next Generation EU da 750 miliardi. È stato, dunque, fatto tutto ciò che sarebbe stato fondamentale fare anche in occasione della scorsa crisi e, per fortuna, c’è stata questa consapevolezza. Da questo punto di vista, Commissione, BCE e i Paesi – Francia e Germania, in particolare – si sono mossi anche perché, dieci anni fa, si era diffuso il leit motiv per cui ogni volta che gli interventi sono stati sbagliato è perché sono stati ‘too low too late’ (troppi pochi è troppo tardi). In questa occasione, si è intervenuti massicciamente e tempestivamente. Naturalmente, in mezzo, c’era la drammatica eredità degli errori del 2008/2009, anni di sofferenze che portarono all’esplosione delle proteste sociali, del populismo. L’altro fattore che ritengo abbia pesato è stato quello per cui, mentre la crisi del debito poteva in qualche modo tirare in ballo le responsabilità se non le ‘colpe’ dei singoli Paesi, di fronte ad una crisi come quella pandemia, cioè qualcosa di sicuramente ‘esterno’, ci sono state meno remore, facilitando un intervento solidale, coeso e coordinato.

Ma, a livello europeo, la Germania si è lasciata definitivamente alle spalle l’austerity oppure è solo questione di tempo e, una volta fuori dalla pandemia, il ‘rigore’ tornerà?

Le misure sono state messe in campo con la formula chiarissima che si trattava di ‘interventi temporanei’ per fronteggiare un’emergenza di proporzioni inusitate. Questa ‘temporaneità’ ci dice che non siamo di fronte a provvedimenti che si vogliono, in qualche maniera, mantenere. La fase emergenziale è stata affrontata molto bene in Europa (i Paesi hanno potuto spendere perché sono state sospese alcune regole e perché la BCE è intervenuta massicciamente, evitando crisi come quelle precedenti) anche sul fronte dei vaccini (senza concorrenza tra Paesi), adesso, però, nonostante il grande rimbalzo economico, la vera sfida è passare, a partire dal prossimo anno e dai prossimi anni, ad una dinamica di crescita che deve essere più elevata di quella dello scorso decennio per l’Unione Europea. Questa sfida la si vince a seconda di quello che si farà sulla revisione delle regole europee, sulla politica monetaria della BCE – cioè quando e come va declinata la ‘straordinarietà’ o l’’ordinarietà’ ed in che modo i provvedimenti possono invece trovare una loro sistemazione, cercando di disegnare una maggiore capacità di spesa comune europea – nei prossimi due o tre anni. E sarà fondamentale perché potrebbe rafforzare enormemente questo nuovo corso e, quindi, dare proprio un nuovo volto all’economia europea oppure, in realtà, danneggiarla seriamente se non addirittura mettere in discussione tutto un’altra volta.

Dal punto di vista interno, in Germania, lo ‘Schwarze Null’ è un ‘dogma’, ma la pandemia lo ha messo in discussione. A questo punto, il modello tedesco – che molti definiscono ‘ordo-liberista’ o ‘mercantilista’ – è ancora sostenibile oppure chi guiderà la Germania dovrà cambiare registro?

La Germania gode sicuramente di una grande competitività del manifatturiero orientato all’esportazione e per favorire tale competitività tiene bassi i salari e la domanda interna, il tutto corredato da questa disciplina fiscale: un modello, dunque, che crea surplus e avanzi commerciali da record mondiale, ma, paradossalmente, a livello interno, non crea una maggiore spinta agli investimenti. Questo, tuttavia, non è un modello nato negli ultimi dieci anni, ma un modello che Berlino persegue da decenni perché è proprio nel suo DNA. È anche vero, però, che questo modello ha qualcosa di irripetibile nel senso che è cambiato il mondo: negli ultimi dieci anni, la Germania è arrivata ad esportare qualcosa come 100 miliardi di euro (la Francia ne esporta solo 20) verso la Cina – che assorbe auto, ma soprattutto macchine industriali – rendendo le relazioni UE-Pechino, di fatto, delle relazioni Germania-Cina. Questo è uno scenario non più ripetibile ed è un problema. Come ri-orientare questa crescita per la quale, naturalmente, ci vorrebbe una maggiore domanda interna e maggiori investimenti? La Cina, d’altra parte, è orientata a sviluppare i suoi ‘motori domestici’, la doppia circolazione, ma soprattutto, ha fatto il pieno delle importazioni di macchine e beni industriali tedeschi ed ora le produce la Cina stessa. Una circostanza che si è ripetuta sempre nei secoli quando si esportano beni di investimento che il Paese importatore finisce per produrli. Questo spazio non c’è più perché il più grande produttore ed esportatore di auto resta la Germania, ma subito dopo viene la Cina. Il modello del piccolo Paese che esporta, allora, non è più ripetibile perché è cambiato il contesto. Ma poi c’è un altro problema: tutta la riconversione e il rilancio della crescita sostenibile – in termini di politica ambientale, di digitalizzazione, di infrastrutture – significa solo una cosa: più investimenti pubblici che, naturalmente, possano trainare anche quelli privati. Questo è un problema, però, che riguarda la Germania così come tutti gli altri Paesi europei. Come si fa ad investire, però, se rimangono tutti quei freni istituzionali e costituzionali per i quali la Germania non può fare deficit che superino lo 0,35%? Questo è un problema su cui stanno dibattendo in campagna elettorale in quanto la consapevolezza che bisogna investire – soprattutto perché non è stato fatto in tutti questi anni – è diffusissima. Il problema, allora, è che per cambiare questo vincolo di bilancio occorre una maggioranza dei due terzi, il che significa che o c’è una maggioranza di governo tale da mettere insieme le forze oppure non si riesce. Allora si stanno pensando delle formule per la creazione, ad esempio, di un bilancio speciale, ma l’obiettivo deve essere quello di fare spazio per consentire degli investimenti che sono assolutamente fondamentali. Bisogna ricordare che la Germania è entrata nel New Green Deal in maniera ‘maldestra’ perché da un giorno all’altro ha chiuso tutti i rubinetti delle centrali nucleari, non ha investito in generale e tantomeno nelle rinnovabili, ed oggi si ritrova con dei costi dell’energia proibitivi. Un problema che si può superare solo con grandi investimenti. Sul secondo ‘macigno’ di maggiori investimenti, io credo che si troveranno delle formule perché è vitale. Quello che mi lascia più dubbioso è che si possa modificare questo modello manifatturiero di esportazione: magari i surplus saranno minori, potrebbe crescere un po’ di domanda interna anche perché adesso l’inflazione sta stimolando l’aumento dei salari in Germania, tuttavia, il consenso sul kombinat manifatturiero-competitività-presenza dei prodotti tedeschi nel mondo accomuna un po’ tutte le maggiori forze politiche. Queste sono, però, due eredità pesantissime che vengono passate all’erede della Merkel e al nuovo governo che uscirà. Quanto detto fa capire che questa riproposizione delle regole del passato, di un’austerity che deve tornare, non credo che troverà terreno facile in Germania, ma lo troverà forse in qualche piccolo Paese frugale. Ciò non vuol dire che la Germania diventerà un ‘big spender’.

Il fatto di essere molto dipendente da altri Paesi – ad esempio, per l’export dalla Cina, per l’energia dalla Russia – si sta rivelando una grande debolezza della Germania?

Io credo che la svolta della Commissione UE di fare del Green Deal e della digitalizzazione i nuovi motori della crescita europea, richieda una risposta a questa debolezza. Sono d’accordo che una crescita che dipende da surplus così forti diventi un elemento di fragilità a livello strategico internazionale perché fa dipendere da quella che poi è la grande domanda di grandi Paesi come la Cina. L’accusa che si rivolge all’Unione Europea è quella di non avere ancora una politica verso la Cina che sia chiara. E questa ambiguità si spiega anche con l’enorme importanza del mercato cinese per l’industria tedesca, ma, dietro, anche per l’Italia e per l’Est europeo e per tutte le filiere europee. Questo è un elemento che la Germania dovrà correggere e il nuovo corso dell’UE potrebbe aiutarla perché, in fondo, se comincia ad investire in transizione ecologica, in digitalizzazione, in infrastrutture, si rivaluta il mercato europeo dei servizi e quella è domanda interna che diventa importante. Negli ultimi dieci anni, invece, non è stato così: il mercato interno non è stato un asset strategico della crescita ed è paradossale perché il mercato interno è ancora oggi il mercato forse più ricco in termini di capacità di assorbimento. Eppure, come Paesi europei, abbiamo continuato ad andare a cercare nel consumatore cinese, americano o canadese, la fonte della nostra crescita interna. Non c’è un altro polo che ha questo tipo di esposizione perché, nonostante si parli di esportazioni cinesi, Pechino ha ridimensionato drasticamente il suo surplus

Ed intende puntare molto sulla domanda interna.

Assolutamente sì. Ecco perché credo che, se c’è  un nuovo corso in Europa, chiaramente la Germania avrà un incentivo a seguirlo e questo volenti o nolenti perché, oltre al contesto strategico globale cambiato dove non esistono più grandi mercati dove fare questo enormi avanzi commerciali, c’è la necessità di cercare nuove fonti di crescita.

Il settore dell’auto, tra i più importanti per l’economia del Paese, è in un momento di difficoltà ed è atteso al varco della transizione verde. Negli ultimi anni, la Germania si è adagiata sugli allori, sui successi, ma, come accennava Lei prima, non ha pensato al futuro: sono mancati investimenti in infrastrutture, ma anche in ricerca ed istruzione. Come si fa, a questo punto, ad affrontare la sfida ecologica?

Come sappiamo, in alcuni settori, gli investimenti in certe infrastrutture ‘immateriali’ sono necessari. Però, questi cambiamenti sono, soprattutto, di organizzazione del sistema economico, del funzionamento delle imprese, sei rapporti tra le imprese. Perché quegli investimenti possano produrre quell’impatto di cui stiamo parlando – ad esempio, di ri-orientamento della crescita – devono avvenire delle riforme di riorganizzazione importanti. Ed il settore dell’auto è assolutamente emblematico in quanto è evidente che c’è un’urgenza da parte dell’industria dell’auto di rispondere a questo spostamento verso l’auto elettrica. Ed è un fatto che, per esempio, la Tesla stia insidiando da vicino la posizione della Mercedes-Benz, della BMW o dell’Audi e, addirittura, aprirà uno stabilimento vicino Berlino. Anche la Cina sta diventando uno dei maggiori produttori di auto elettriche, quindi ormai la sfida è molto più ampia rispetto ai soli investimenti. Se pensiamo agli incentivi per il passaggio all’auto elettrica, la Germania è stata in questi anni assolutamente ‘avara’ perché il successo del suo modello l’ha molto frenata. È un discorso miope perché all’improvviso ti accorgi che il modello finora adottato non è più ripetibile, ma per fare qualcosa di nuovo non basta solo spingere un bottone, ma devi aver creato le condizioni.

La carenza di semiconduttori non aiuta di certo.

Quello è un problema europeo e rientra nel discorso che si sono usate poche risorse per investimenti pubblici che non hanno trainato quelli privati. I semiconduttori, la debolezza della Germania è una debolezza europea, ma riflette un’inadeguata digitalizzazione dell’economia tedesca: se si va a vedere il posto occupato dalla Germania tra i maggiori Paesi in termini di digitalizzazione, la si trova tra il XV e XX posto. La digitalizzazione è un vero tallone d’Achille e c’è bisogno di investimenti anche molto consistenti oltre che riforme. Qui, c’è poi una crisi che è congiunturale: c’è un problema di strozzature di offerta nei semiconduttori che riguarda il mondo, ma c’è anche il fatto che non è stata una grande idea concentrarli in pochi Paesi.

In quest’ottica, anche l’invecchiamento demografico non nasce oggi, però si è pensato a mantenere la spesa pubblica ai minimi termini. Un altro esempio di miopia?

Questo è un problema tedesco e di altri Paesi, ma, nonostante se ne parli pochissimo, è un altro grande problema, è una sfida. Ma credo che ci sia stato, anche qui, un fallimento della Germania negli ultimi anni: ci si è illusi che qualche sussidio al sistema pensionistico e la possibilità di attingere da un budget federale sano e solido mettessero nelle condizioni di sostenere queste nuove sfide, senza vere riforme. E questo non è vero perché ce n’è molto bisogno. Naturalmente stiamo parlando di una base di partenza molto forte perché la Germania ha accumulato enormi ricchezze ed oggi gode di grande benessere in termini di reddito pro-capite, ma credo che questa consapevolezza delle sfide all’orizzonte abbia attraversato la campagna elettorale.

Anche perché non tutti hanno potuto beneficiare dei successi dell’economia tedesca e le disuguaglianze sono emerse anche in Germania. 

Esattamente. La Germania si ritrova a fronteggiare un forte aumento delle disuguaglianze perché questo boom dell’occupazione è stato anche boom di tutta una serie di lavori precari, mal pagati: quindi, c’è un problema di disuguaglianze da affrontare e naturalmente questo rende il tema fiscale ancora più centrale.

A questo riguardo, poche settimane fa è stata tagliata l’IVA e, in campagna elettorale, il candidato socialdemocratico Olaf Scholz ha proposto una patrimoniale per i più ricchi e una tassa di successione. Troppo?

La stessa difficoltà c’è in tutti i Paesi. Le divisioni su temi come il fisco o il risanamento ambientale ci sono, ma credo che il grosso del fabbisogno sia la necessità di trovare risorse da investire nel futuro del rinnovamento dell’economia tedesca. Quindi, il primo problema da affrontare, dal momento che sarà difficile se non impossibile modificare le regole esistenti, sarà bypassarle attraverso fondi speciali di investimento. Poi se si riuscirà a mitigare le disuguaglianze, non c’è dubbio che mettere mano ad alcune riforme fiscali sarà fondamentale, ma è difficilissimo, come stiamo vedendo negli Stati Uniti dov’è quelle prime proposte dell’amministrazione Biden sono state annacquate da una potente difesa di certi privilegi.

Per esempio – come d’accordo G7 e G20 – la necessità di imporre una tassazione equa alle grandi multinazionali, è nell’interesse anche tedesco. 

Assolutamente sì, anche perché la Germania è uno dei Paesi che più sconta questa elusione, se non proprio evasione, dei grandi gruppi. La Germania è molto decisa e sarà una battaglia tutta interna all’Europa perché c’è stato un accordo di massima a livello G7 e G20, ma adesso il confronto passa nell’UE.

Negli ultimi anni, non sono mancati i guai per il sistema bancario tedesco. Il nuovo Cancelliere dovrebbe provare a far qualcosa?

Bisognerebbe metterci mano, ma è uno dei compiti più difficili perché il sistema bancario tedesco è fondamentalmente gravato da interessi politici, soprattutto locali, e questo lo ha reso una palla al piede dell’economia tedesca in tutti questi anni perché se la Germania ha un sistema manifatturiero di assoluta eccellenza, ha un sistema bancario assolutamente scadente. Il problema è chi potrebbe mai avere la forza di iniziare a bonificare queste forme di interessi, ma certamente è un capitolo che andrà affrontato visto che ha anche dei risvolti europei. Per ora, la Germania resiste accusando soprattutto noi di non voler completare l’unione bancaria – rimasta a metà perché la garanzia comune sui depositi non è stata mai varata – e questo è rischioso perché non si hanno più alcuni strumenti nazionali, ma non sono stati neanche creati degli strumenti europei.

Angela Merkel è una ‘ragazza della DDR’, ma molti le rimproverano di aver fatto poco per quella Germania orientale dove ha vissuto la prima parte della vita. Con la Cancelliera, le due Germanie si sono finalmente integrate?

C’è stato un indubbio miglioramento, un impatto positivo sull’Est nel senso che, se compariamo la situazione di oggi con quella di qualche anno fa, non c’è dubbio che lo sviluppo economico ci sia stato. Io credo che sia mancata un’integrazione intesa come capacità di andare, in questa parte della Germania, a sviluppare dei ‘motori endogeni’ di crescita: la dipendenza – intesa come scarsa capacità di mobilitare crescita – dalla parte ricca sia ancora molto forte. Per me integrazione significa non solo maggiori legami tra Est e Ovest, ma anche maggiore capacità di trasferire crescita e quindi dotare la parte meno sviluppata di sostenersi, che è il compito più difficile quando si vogliono unire due parti con così tanto dislivello. Se questo non riesce, la parte meno sviluppata continua a dipendere da quella più sviluppata. Essendo la dipendenza tuttora significativa e se per integrazione intendiamo quello che abbiamo detto, allora il processo è ancora parziale.

C’è qualcosa che si doveva fare/ si poteva evitare oppure è un processo lento?

Secondo me, è stato un processo viziato all’origine da una decisione politica del considerare la parità del Marco uno a uno. Quello ha sicuramente indebolito la competitività. Poi, ovviamente, nella storia successiva, non si sono trovate queste formule in grado di colmare il dislivello.

Al di là dello spread, dal punto di vista economico, per l’Italia Angela Merkel è stata un grande aiuto o no?

Non c’è una risposta secca perché, per certi aspetti, questa stabilità garantita da una Cancelliera che sta al potere da oltre quindici anni rispetto agli otto Premier italiani che si sono succeduti fa capire che in certi frangenti questo ancoraggio è stato molto importante. D’altro canto, però, l’Italia – che già si complica la vita da sola – ha sofferto, come molti altri Paesi europei, soprattutto nelle prime crisi, la mancanza di una guida, cosa che invece si è avuta nell’affrontare la pandemia. Indubbiamente, però, ci sono stati dei frangenti in cui Merkel ha dimostrato di saper riuscire a trovare un compromesso politico rispetto a posizioni spesso irriconciliabili e questo per la storia europea ha contato molto. Una delle cose che si dice stia giocando a favore di Scholz è che i tedeschi vedono nel candidato socialdemocratico quello che più assomiglia a Merkel, il che è paradossale perché, a fronte delle sfide che aspettano la Germania, ci sarebbe bisogno di tutt’altre virtù politiche rispetto allo stabilizzare.

Sempre sul piano economico, pensa che la Cancelliera abbia reso l’Europa più tedesca o la Germania più europea?

Penso che l’economia tedesca sia diventata più europea, ma con le luci e le ombre che abbiamo descritto. Che la Germania sia una locomotiva fondamentale non ci sono dubbi, non si può immaginare un corso futuro dell’economia europea senza che l’economia tedesca sia protagonista. Questo, di per sé, non è detto che sia positivo. Se la Germania abbracciasse queste sfide per il futuro, rilanciando dei motori che siano molto più endogeni, facendo crescere gli investimenti e la domanda interna, ciò andrebbe sicuramente a beneficio non solo della Germania, ma dell’intera Europa e, quindi, anche dell’Italia. Bisogna allora augurarsi che esca dalle urne una maggioranza forte e, soprattutto, un governo consapevole del fatto che, chiusa una fase, se ne riapre un’altra da affrontare con gli investimenti e le riforme necessarie.