Qualche settimana fa ho dato conto, su queste pagine, della situazione venutasi a creare in Perù dopo il ballottaggio presidenziale dello scorso 6 giugno fra Keiko Fujimori e José Pedro Castillo. La proclamazione ufficiale della vittoria di quest’ultimo, che ha prevalso di strettissima misura (50,12% dei votanti, con una differenza a suo vantaggio di poco superiore ai 44.000 suffragi), non era in quel momento ancora intervenuta, dati i numerosi ricorsi presentati dalla rivale per pretesi brogli elettorali.

Lo scorso 18 luglio, infine, la Junta Nacional Electoral ha dato il via libera all’elezione di Castillo, che si insedierà formalmente mercoledì 28, giorno del bicentenario dell’indipendenza del Perù. Keiko Fujimori, contemporaneamente, ne ha riconosciuto il successo.

La figura del cinquantunenne nuovo Presidente, di origine indigena e terzo dei nove figli di una coppia di contadini analfabeti, non è semplice da decifrare. Presentato dalla maggior parte dei media nazionali e internazionali comecomunista‘ e ‘marxista‘, l’ex maestro elementare e sindacalista ha presentato in realtà un programma elettorale in cui tali termini, come del resto la parola ‘socialismo’, non appaiono.
Castillo ha più volte sottolineato di essere profondamente cattolico e nei suoi discorsi è stato prodigo di citazioni bibliche, dicendosi fra l’altro personalmente contrario all’aborto (la cui depenalizzazione è invece presente nel programma del suo partito), all’eutanasia e al matrimonio fra persone dello stesso sesso, poco interessato alle tematiche di genere e critico dell’immigrazione incontrollata, oltre chefavorevole alla reintroduzione della pena di morte. La sua agenda riformista, che prevede fra l’altro l’emanazione di una nuova Costituzione, la ripresa del controllo statale sulle ricchezze minerarie del Paese, il freno alle importazioni contrarie all’interesse dell’industria nazionale e l’incremento dell’intervento dello Stato in molti settori della società, dovrebbe andare nella direzione, secondo le sue stesse parole, di «un Perù inclusivo, giusto e libero», fine per il quale egli invita «tutti i settori della società a costruire insieme».

Non sono poche, come vedremo in seguito, le differenze fra ilPlan de gobiernodi Castillo e l’ideologia ufficiale del suo partito, Perù Libre, certamente di stampo marxista. D’altra parte il Presidente eletto ha la necessità didomareun Congresso in cui Perù Libre ha la maggioranza relativa (37 seggi su 130), ma deve comunque trovare alleanze: cosa che non sarà facile, dato che Fuerza Popular della rivale Keiko Fujimori è il secondo partito con 24 seggi e che anche i restanti 59 deputati sono in gran parte vicini alle istanze conservatrici.
Potrebbe quindi riproporsi quel conflitto fra i poteri esecutivo e legislativo che ha caratterizzato il Paese sudamericano all’inizio della prima presidenza di Alberto Fujimori (che sciolse d’autorità il Congresso nel 1992, con il cosiddetto autogolpe), e poi soprattutto negli ultimi anni, fino all’impeachment di Martìn Vizcarra nel novembre 2020, che diede il via a una grave crisi costituzionale chiusasi proprio con l’elezione di Castillo. In proposito, il Presidente eletto ha lanciato il guanto di sfida, facendo appello alle sue qualità di sindacalista e affermando che «se il Congresso ci metterà i bastoni fra le ruote andremo in piazza»: ma è legittimo prevedere che Castillo farà tutto il possibile per trovare sui banchi parlamentari le necessarie alleanze.

Vale la pena di sottolineare che José Pedro Castillo -nonostante l’ostentato uso del cappello bianco a larghe falde tipico del nord del Paese e, spesso, anche del poncho- non è, come capita talvolta di leggere, il primo Presidente peruviano di ascendenza indigena: erano tali anche Alejandro Toledo (2001-2006), figlio di un poverissimo pastore delle Ande, e, ancor più di lui, Ollanta Humala (2011-2016), il cui padre era il principale ideologo della corrente politica del ‘nazionalismo sociale’, fondata sull’esaltazione del passato incaico del Paese. Castillo è semmai il primo Presidente indigeno dichiaratamente di sinistra, anche se -come si è visto- l’intensità del suo orientamento izquierdista resta ancora da verificare.

E’ pur vero che Castillo ha più volte lodato l’azione politica del boliviano Evo Morales e dell’ecuadoriano Rafael Correa, campioni della sinistra latinoamericana: ma, al contrario, dopo essersi dichiarato vicino al Presidente venezuelano Nicolàs Maduro, successore di Hugo Chàvez, ne ha sostanzialmente preso le distanze fra il primo e il secondo turno elettorale, affermando testualmente che «no hay chavismo aquì».

E proprio quest’ultima affermazione ci porta a quella che, dopo avergli aperto le porte della Casa de Pizarro, potrebbe essere la maggior pietra d’inciampo per il maestro-sindacalista Castillo: l’ingombrante presenza del suo mentore Vladimir Cerròn, fondatore e ideologo di Perù Libre.

Cerròn, neurochirurgo di fama ed ex Governatore della Regione di Junìn, è infatti il vero leader del partito e soltanto l’interdizione dai pubblici uffici,comminatagli a seguito di una condanna per corruzione, gli ha impedito di correre alle presidenziali. Dal punto di vista della maggior parte dei militanti di Perù Libre, quindi, Castillo è semplicemente il delfino di Cerròn, proprio come Maduro lo era di Chàvez; come tale, ne è anche unsurrogatoche il vero leader potrebbe in ogni momento disconoscere.

In effetti, leggendo l’’Ideario presente sul sito Internet del partito -ove, fra l’altro, il nome di Castillo è raramente citato- ci si può rendere conto di come il nuovo Presidente abbia in qualche modo ‘annacquato’ il messaggio di Cerròn, dichiaratamente marxista e per certi versi non lontano dal populismo di sinistra delle giunte militari peruviane degli anni Settanta. Castillo dovrà evidentemente fare i conti con queste relazioni pericolose‘: allo stesso tempo, come si è detto, dovrà molto mediarein direzione oppostaper ottenere il necessario appoggio parlamentare alle sue riforme.

Proprio su questo pericolosissimo crinale il nuovo Capo dello Stato si giocherà le sorti del suo mandato; egli dovrà perciò dimostrare un’abilità che, data la sua mancanza di esperienza politica, non può al momento essergli accreditata né negata. L’homo novus per eccellenza della politica peruviana degli ultimi decenni, Alberto Fujimori, fu capace di dimostrare, nel bene e nel male, qualità inaspettate che gli permisero, anche a costo di gravi malefatte che pagò in seguito, di restare al potere per oltre dieci anni, ma non aveva alle sue spalle alcun ingombrante patrono da retribuire. Le sue caratteristiche conservatrici, inoltre, lo mettevano al riparo dall’opposizione delle classi dominanti tradizionali, che anzi lo videro di buon occhio per molti anni. Per Castillo le cose stanno in maniera del tutto diversa: sapremo presto come riuscirà a disimpegnarsi nel guidare, con queste non facili premesse, un Paese ricchissimo di risorse ma storicamente piagato dalla povertà e dalla corruzione. «Non più poveri in un Paese ricco», recita lo slogan del suo partito: vedremo se e come il nuovo Presidente saprà metterlo in pratica, facendo quanto i suoi elettori, ma in ultima analisi la grande maggioranza dei peruviani, si attendono da lui.

Di Massimo Lavezzo Cassinelli

Massimo Lavezzo Cassinelli ha fatto parte del servizio diplomatico italiano dal 1982 al 2016. Dopo un primo periodo alla Farnesina presso la Direzione Generale Affari Economici, ha iniziato nel 1985 la sua prima missione all’estero, all’Ambasciata d’Italia in Ecuador. Successivamente ha prestato servizio presso le Ambasciate in Giordania, in Perù e in Egitto, oltre che come capo del Consolato italiano a Berna. E’ stato poi Rappresentante Permanente Aggiunto presso la FAO, il PAM e l’IFAD. Ha infine ricoperto le cariche di Ambasciatore d’Italia in Armenia e nel Principato di Monaco. Ha concluso la carriera al Cerimoniale Diplomatico della Repubblica.