La decisione del Consiglio Federale svizzero di abbandonare, dopo sette anni di colloqui infruttuosi, il negoziato con l’Unione Europea per la conclusione di un Accordo Quadro, ben esprime il carattere svizzero

 

Lo scrittore svizzero Friedrich Dürrenmatt, nel racconto ‘FC Helvetia 1291‘, paragona la Confederazione Elvetica a una squadra di calcio che ha smesso di giocare partite internazionali dopo la battaglia di Marignano del 1515 in cui, sconfitta da francesi e veneziani, aveva perduto il controllo del Ducato di Milano.

La metafora calcistica (fra l’altro non inappropriata in questi giorni post Europeo) è trasparente: la Svizzera ha da allora sempre evitato di impegnarsi in campagne militari al di fuori dei propri confini,fino a elaborare ildogmadella sua neutralità. Ma non per questo ha rinunciato alle proprie ambizioni, trasferendole dall’ambito geopolitico a quello strettamente economico e utilizzando a tal fine mezzi spesso poco ortodossi, come l’impiego su larga scala del segreto bancario o l’utilizzo a livelli di quasi sfruttamento della forza-lavoro immigrata.

Dürrenmatt è stato una voce molto critica nel panorama svizzero e non solo dal punto di vista letterario, tanto è vero che la Polizia elvetica lo ha ‘attenzionato’ per decenni. In un discorso tenuto nel 1990, pochi mesi prima di morire, egli si era addirittura spinto a paragonare la Confederazione a un carcere e gli Svizzeri a carcerieri di se stessi: un modo per sottolineare quell’aura di stretto controllo sociale che chiunque abbia vissuto, pur confortevolmente, nel Paese alpino ha percepito almeno in qualche occasione.

Mi sembra interessante, oggi, rileggere alla luce delle teorie del grande scrittore -mai vincitore, e certo non a caso, di alcun premio letterario- la decisione, assunta nello scorso maggio dal Consiglio Federale svizzero, di abbandonare dopo sette anni di colloqui infruttuosi il negoziato con l’Unione Europea per la conclusione di un Accordo Quadro.

Attualmente è in vigore, fra UE e Confederazione, un certo numero di accordi bilaterali, conclusi a cavallo di inizio millennio, che disciplinano altrettanti aspetti delle relazioni fra le due entità. Bruxelles intendeva, con l’avvio del negoziato per l’accordo quadro, pervenire all’istituzione di un mercato unico con un partner, come la Svizzera, imprescindibile in quanto del tutto circondato da Paesi membri: un mercato unicovero‘, con un’effettiva parità di condizioni fra tutti i partecipanti. Da parte elvetica, peraltro, si è costantemente -e volutamenteconfusa la nozione di mercato unico (che presuppone la totale abolizione delle barriere tariffarie e non tariffarie, con libera circolazione di merci, servizi, persone e capitali) con quella di libero scambio (semplice eliminazione dei diritti doganali e delle quote di importazione).

Con queste premesse non potevano non emergere, durante il negoziato, vari seri problemi, fra cui quello degli aiuti di Stato -di cui vari settori dell’economia svizzera continuano a usufruire su vasta scala- e, soprattutto, quello della libera circolazione delle persone. A tale proposito, i negoziatori elvetici avevano chiesto l’esplicita esclusione, per la Svizzera, dell’obbligo di recepire integralmente la Direttiva UE sulla libera circolazione di tutti i cittadini europei, dicendosi disposti a concederne l’applicazione solo per i lavoratori comunitari e i loro familiari: già un notevole risultato se si pensa agli stenti sofferti in passato dagli emigrati italiani e non solo, ma certamente una conclusione non accettabile oggi, considerato anche l’irrigidimento delle norme sui frontalieri contestualmente auspicato da Berna.

Dopo l’annuncio svizzero di voler interrompere le trattative, la Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha fatto severamente notare che un accordo sul mercato unico deve comportare per le due parti le stesse regole e gli stessi obblighi. In effetti, era da tempo chiaro a Bruxelles come l’UE avesse tollerato troppo a lungo il fatto che la Svizzera potesse avere un larghissimo accesso al mercato comunitario, applicandone allo stesso tempo le norme in maniera ampiamente selettiva. “Avoir le beurre et l’argent du beurre”, si dice spesso a Palazzo Berlaymont parlando dell’atteggiamento svizzero: un’espressione che ben sintetizza il modo di muoversi elvetico, non solo nei riguardi degli interlocutori europei.

Dopo la Brexit, poi, l’Unione ha temuto a lungo che il Regno Unito intendesse imitare il modello svizzero, puntando a un no deal che gli avrebbe aperto le praterie del mercato unico europeo, permettendogli però di restarne al di fuori. L’approccio bilaterale, infatti, concepito a suo tempo come alternativa provvisoria al fallimento del referendum popolare sull’adesione della Svizzera allo Spazio Economico Europeo, avrebbe dovuto essere presto sostituito dall’adozione di un quadro di rapporti più organico, che riportasse la Confederazione ai diritti e doveri validi per gli altri Paesi terzi. Il continuo tergiversare di Bernada questo punto di vista e la contemporanea, inevitabile erosione degli accordi bilaterali di settore hanno infine dimostrato, proprio durante il negoziato per la Brexit, la pericolosità di tale approccio ha spinto Bruxelles a non fare più concessioni.

La Confederazione, invece, fedele suo malgrado al ‘modello Dürrenmatt’, ha mostrato ancora una volta di voler insistere nella sua navigazione internazionale di piccolo cabotaggio: strategia, o meglio tattica, che ha del resto spesso utilizzato anche sul piano interno. Se pensiamo, infatti, al sistema di distribuzione di eroina di Stato in vigore in Svizzera da circa trent’anni, possiamo renderci conto delle analogie: una soluzione quanto meno disinvolta dal punto di vista morale, mascherata da atto di difesa della società e giustificata con la conseguente riduzione della piccola criminalità ma che, sostanzialmente, si riduce all’accettazione di una triste realtà che nessuno tenta, e neppure spera, di cambiare. Una reazione molto ‘protestante’, verrebbe da dire, guardando i benpensanti che, a Zurigo come a Berna e nelle altre città svizzere, passano rapidamente vicino ai tossicodipendenti in fila di fronte ai centri di distribuzione, volgendo la testa dall’altra parte.

Vantaggi immediati quindi per gli Svizzeri (o, in questo caso, per la maggior parte di essi), a fronte di una sostanziale rinuncia a incidere realmente nei gangli della società o, nel caso degli accordi con l’UE, sui meccanismi dei rapporti internazionali. D’altra parte, sappiamo bene come per decenni i politici della Confederazione abbiano chiuso un occhio, o tutti e due, in difesa degli interessi dell’onnipotente sistema bancario che, con le ovvie connivenze e convenienze estere, aveva trasformato la Svizzera in un paradiso fiscale di primissimo ordine. Berna è adesso fuori dalle black list internazionali, ma vi è rimasta tranquillamente anche in vigenza della prima generazione di accordi bilaterali con l’UE.

Per quanto concerne lo ‘Swiss way of life‘, la cui imposizione agli immigrati ricordiamo rappresentata in maniera allo stesso tempo esilarante e dolente dal Nino Manfredi biondo del film ‘Pane e cioccolata‘, resta da vedere se continuerà a resistere inalterato anche dopo lo strappo con l’Europa, o se la Confederazione si convincerà infine a una maggiore apertura. Il ritorno di Manfredi in Svizzera alla fine del film, con tanto di sua materializzazione all’inizio del tunnel del Lötschberg (costruito fra il 1906 e il 1911 da maestranze italiane, a costo della morte di decine di operai), induce forse a essere poco ottimisti: ma i tempi, anche a Berna, potrebbero mutare.

 

Di Massimo Lavezzo Cassinelli

Massimo Lavezzo Cassinelli ha fatto parte del servizio diplomatico italiano dal 1982 al 2016. Dopo un primo periodo alla Farnesina presso la Direzione Generale Affari Economici, ha iniziato nel 1985 la sua prima missione all’estero, all’Ambasciata d’Italia in Ecuador. Successivamente ha prestato servizio presso le Ambasciate in Giordania, in Perù e in Egitto, oltre che come capo del Consolato italiano a Berna. E’ stato poi Rappresentante Permanente Aggiunto presso la FAO, il PAM e l’IFAD. Ha infine ricoperto le cariche di Ambasciatore d’Italia in Armenia e nel Principato di Monaco. Ha concluso la carriera al Cerimoniale Diplomatico della Repubblica.