La maggiore assertività italiana fa seguito alla presa d’atto da parte dell’Europa della sua sostanziale irrilevanza in Libia. Ma abbiamo i mezzi per una politica così assertiva?
Lo scorso 6 aprile, Mario Draghi ha svolto in Libia la sua prima visita all’estero da Presidente del Consiglio, primo fra i leader europei dopo la formazione del nuovo Governo di unità nazionale. Draghi era stato preceduto, in marzo, da due missioni del Ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, una delle quali in compagnia dell’Amministratore Delegato di ENI, Claudio Descalzi, e l’altra assieme agli omologhi francese e tedesco. L’Italia, dopo un periodo di relativa eclissi, sembra dunque ambire a contare di più su uno scacchiere la cui stabilità costituisce uno dei suoi principali interessi geopolitici.
La maggiore assertività italiana fa seguito alla presa d’atto da parte dell’Europa della sua sostanziale irrilevanza in Libia, evidenziata anche dai successivi fallimenti delle Conferenze di Parigi, Palermo e Berlino. Soprattutto la Francia sembra avere ormai in gran parte rinunciato alla pretesa di indirizzare la transizione libica in una direzione favorevole ai propri interessi particolari.
Mentre attendiamo di constatare se la transizione in corso avrà gli esiti sperati (sono di questi giorni le notizie dei primi contrasti fra il nuovo premier Abdul Hamid al-Dbeibah e Khalifa Haftar), può essere utile ripercorrere rapidamente gli avvenimenti libici degli ultimi anni, sempre ponendoli in rapporto con la nostra azione di politica estera.
Preceduta da una vera e propria criminalizzazione mediatica di Mu’ammar Gheddafi, la ‘guerra umanitaria‘ scatenata nel 2011 da Parigi e Londra, con l’appoggio più defilato degli Stati Uniti, l’avallo del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e l’accettazione ‘obtorto collo’ del nostro Governo, ebbe come reale scopo non la sbandierata protezione della popolazione civile libica, ma il cambio di regime a Tripoli.
Ognuno degli attori in campo aveva in questo quadro i propri particolari obiettivi, a partire dal Presidente francese del tempo, Nicolas Sarkozy, che univa al legittimo appoggio alle ambizioni petrolifere di Total, altri fini meno confessabili, legati agli intensi rapporti che aveva intrattenuto con Gheddafi negli anni precedenti. Il risultato finale fu comunque la sostanziale divisione in due del Paese, con l’affermarsi in Tripolitania di un Governo formalmente riconosciuto dall’ONU e, in Cirenaica, del potere del Generale Khalifa Haftar.
Tale situazione scatenò gli appetiti di diverse potenze straniere, fra cui spiccavano la Russia, grande sponsor di Haftar, e la Turchia, sostenitrice del Governo di Tripoli: due spregiudicati ‘free rider’ internazionali disposti a violare embarghi e inviare nel Paese truppe e mercenari. In questa situazione, poco poteva fare un’Europa debole e divisa e ancor meno poteva fare l’Italia, che ebbe comunque il merito non indifferente di mantenere sempre aperta la propria Ambasciata a Tripoli, oltre a quello di proseguire, nei limiti del possibile, le attività petrolifere di ENI.
Dopo il fallimento dell’offensiva del Generale Haftar in Tripolitania e lo stallo che ne è conseguito, le fazioni in campo si sono infine accordate per la costituzione di un Governo di unità nazionale, che dovrebbe condurre il Paese a elezioni politiche generali il prossimo 24 dicembre. In questo quadro, Draghi sembra dunque aver messo per primo la propria ‘bandierina‘ sulla ricostruzione del Paese.
Ma abbiamo i mezzi per una politica così assertiva?
L’Italia, nel dopoguerra, è sempre stata riluttante ad assumere impegni al di fuori dei processi sponsorizzati dall’ONU o comunque multilaterali: una ‘fuga nel multilateralismo‘ che ha costituito il contraltare della mancanza di una chiara elaborazione del concetto di interesse nazionale.
In realtà, la nostra gestione dei rapporti con la Libia indipendente, dopo la parentesi di Enrico Mattei -che, per le sue posizioni terzomondiste, malviste dalla monarchia senussita, non riuscì comunque a migliorare più di tanto la posizione dell’ENI-, si è spesso rivelata opportunistica. Basti pensare alla visita a Tripoli, nel 1971, di Aldo Moro che, in qualità di Ministro degli Esteri, non sostenne la posizione delle migliaia di cittadini italiani espulsi l’anno prima, con confisca dei propri averi, dal nuovo Governo rivoluzionario, badando invece a ottenere vantaggi per le nostre aziende.
D’altra parte, i rapporti fra l’Italia e la Jamahiriyya sono stati spesso ambivalenti: l’incremento delle relazioni economiche e lo sviluppo delle nostre prospezioni petrolifere in Libia hanno frequentemente coinciso con duri attacchi all’ex potenza coloniale da parte di Gheddafi, sostanzialmente interrotti solo con l’arrivo di Silvio Berlusconi. Ma anche l’ambizioso Trattato di Amicizia, Partenariato e Cooperazione firmato nel 2008 è rimasto lettera morta a causa della caduta del Rais. L’unico risultato concreto della politica berlusconiana è stato costituito dalla riduzione del flusso di immigrati clandestini in Italia, che ha però comportato un nostro forte impegno economico nella fornitura di motovedette e nell’addestramento della Guardia Costiera di Tripoli; risultato, per di più, anch’esso in gran parte vanificato negli anni seguenti.
In realtà, sembra che la politica italiana verso la Libia abbia costantemente risentito, quasi come in un contrappasso, di un ‘loop‘ di ripetizione degli errori compiuti nel passato coloniale, beninteso adattati ai tempi. E’ infatti indubbio che la valorizzazione della colonia libica costò molto cara al nostro Paese, in termini di duro lavoro dei numerosi coloni inviati sul posto e di grande investimento di capitali da parte di un Paese povero, come era l’Italia di allora; e che i suoi ritorni economici furono molto lontani dalle aspettative.
Oggi, la mossa di Mario Draghi è stata probabilmente facilitata anche dall’indubbio prestigio personale del nostro Presidente del Consiglio, a fronte del declino di Angela Merkel e Emmanuel Macron. Ma avremo veramente il peso politico ed economico, nella situazione ancora non del tutto stabile che contraddistingue la Libia e in tempi di grave declino post-pandemico, per evitare certi velleitarismi del passato e ottenere un effettivo riconoscimento dei nostri legittimi interessi nell’ex ‘quarta sponda‘?Come canta il Premio Nobel Bob Dylan, la risposta soffia nel vento (del deserto).