Crisi sanitaria, economica e malessere sociale: una ‘tempesta perfetta’ che il Comitato nazionale della Conferenza politica consultiva del popolo cinese e la plenaria dell’Assemblea nazionale del popolo devono assolutamente evitare. Nel mirino anche Taiwan e Hong Kong
Anche in tempi di Coronavirus COVID-19, sebbene con un ritardo di due mesi dovuto all’emergenza sanitaria, prendono avvio le ‘lianghui’, le ‘Due Sessioni’, l’annuale del Comitato nazionale della Conferenza politica consultiva del popolo cinese (Cppcc) ieri, e la plenaria dell’Assemblea nazionale del popolo (Npc), oggi. Nella liturgia istituzionale, trattasi di due assemblee deputate a recepire le direttive del Partito Comunista Cinese, indicando la direzione che la Repubblica Popolare seguirà a livello politico ed economico.
Tuttavia, non sono la stessa cosa: la prima è l’organizzazione incaricata di rappresentare i vari partiti politici della Repubblica popolare sotto la direzione del Partito Comunista Cinese (Pcc). Costituita da 2100 delegati membri di partiti politici, associazioni di categoria provenienti da Cina, Hong Kong, Macao e Taiwan, il suo massimo organo è il Comitato nazionale, che funge da assemblea plenaria e costituisce, pur non avendo potere legislativo, l’unico canale istituzionale in cui il ‘basso’ può dire la sua sulle prospettive del Paese.
La seconda, l’Assemblea nazionale del popolo cinese, costituita da 2.957 deputati, rappresenta invece la più alta istituzione statale e l’unica camera legislativa della Repubblica popolare che quest’anno avrà due riunioni plenarie, una delle quali verrà convocata tramite videoconferenza, e poi sei riunioni di gruppo. L’agenda dell’Assemblea è prefissata e sono veramente rari, nella storia di questa istituzione, i momenti in cui non è stata approvata il noto caso della costruzione della ‘Diga delle tre gole’, un progetto a gravità idroelettrica proposto dall’ex-Premier Li Peng, rispetto al quale si astenne o votò contro quasi un terzo dei delegati dell’Assemblea del 1992.
Sarà un’annata particolare dato che, nonostante la confermata presenza di tutti i cinquemila delegati previsti, entrambi gli eventi avranno una durata inferiore al normale, una settimana (la conclusione è prevista per il 27 Maggio) invece che due. Guo Weimin, portavoce della terza sessione del 13mo Comitato nazionale della Conferenza consultiva, ha annunciato ieri che la sessione annuale del principale organo di consultazione del Paese si concluderà quattro giorni e mezzo in meno rispetto agli scorsi anni.
In piena pandemia, i delegati sono stati obbligati a sottoporsi al test sierologico qualche giorno fa, le finestre saranno tenute aperte, ma tutti dovranno indossare le mascherine. I giornalisti saranno presenti, ma in misura ristretta e diverse interviste saranno concesse in videoconferenza.
Del resto la pandemia non è finita: la città di Shulan, con 700mila abitanti e non molto distante dal confine con la Russia, ha disposto restrizioni molto ferree, simili a quelle imposte a Wuhan. Gli abitanti di Shulun debbono rispettare un duro lockdown: solo una persona per nucleo familiare è autorizzata a uscire per fare la spesa, ma non tutti i giorni. Dalla città non si può né uscire né entrare se non con autorizzazioni speciali o per emergenze.
L’avvio dei lavori, ad emergenza ancora in corso, potrebbe essere anche interpretata come un modo per convincere l’opinione pubblica e il mondo intero della capacità del governo cinese di gestire l’epidemia, senza rimandare ancora i principali appuntamenti della vita pubblica del Paese. Quindi, un’occasione di propaganda per respingere le critiche e consolidare la leadership di Xi Jinping. Sicuramente è anche sulla scorta di questo ragionamento che il Comitato permanente del Partito ha commentato la deliberazione sulla convocazione dell’Assemblea spiegando che “la situazione di prevenzione e controllo dell’epidemia di Covid-19 in Cina sta stabilmente migliorando e la normale vita economica e sociale sta gradualmente riprendendo” e quindi “esistono le condizioni per convocare in un momento appropriato la terza riunione della tredicesima Assemblea nazionale del popolo”. Ma la situazione è molto più complessa.
Un minuto di silenzio è stato osservato durante la cerimonia di inaugurazione della Conferenza politica consultiva in omaggio alle vittime della pandemia di COVID-19 e a coloro che hanno perso la vita nella lotta contro l’epidemia. “La proposta di osservare un minuto di silenzio non solo mostra il rispetto delle persone per la vita, ma mostra anche che l’ufficio Cppcc sta lavorando al processo di ricezione delle proposte dei membri per trovare modi innovativi per adempiere ai propri doveri”, ha affermato Feng Danlong, membro del Comitato nazionale Cppcc.
Secondo un sondaggio del quotidiano China Youth Daily è riportato dall’agenzia ‘Xinhua’, la maggior parte dei giovani intervistati, 88,1%, ha dichiarato che, rispetto agli anni precedenti (66,4% nel 2019), presterà più attenzione alle “Due Sessioni” di quest’anno. E, stando ad un’altra rilevazione riportata sempre da ‘Xinhua’, quattro dovrebbero essere le priorità su cui le due riunioni dovrebbero intervenire: gestione sociale, welfare, reddito, educazione. Istanze su cui lo stesso Xi è tornato nelle ultime settimane, ma che per certi versi costituisce il clou del suo sogno cinese, lo ‘zhōngguó mèng’, e dei due obiettivi centenari: il raggiungimento di una condizione di “moderata prosperità” entro il 2021, anniversario della fondazione del Partito comunista cinese, e la piena modernizzazione nel 2049 quando si festeggerà la Repubblica popolare.
In agenda, a farla da padrone sarà ovviamente la crisi scaturita dal COVID-19, una crisi multiforme, non solo sanitaria, ma anche economica, sociale e politica. Per questo motivo, c’è molta attesa per il discorso programmatico che il Premier Li Keqiang pronuncerà inaugurando l’Assemblea, definendo gli obiettivi politici, economici e sociali per l’anno in corso. In discussione ci sarà anche la bozza del bilancio della difesa cinese per il 2020 oltre al progetto del primo codice civile che dovrebbe comprendere disposizioni generali su proprietà, contratti, diritti della persona, matrimonio e famiglia, nonché eredità e responsabilità civile.
Ma si proceda con ordine. Sul tavolo ci sono ben 17 proposte di legge e 400 suggerimenti riguardanti la sanità da discutere, dalla prevenzione delle epidemie animali alla biosicurezza. Il 9 maggio la Commissione Salute ha annunciato un programma di riforme per rendere il sistema sanitario nazionale più centralizzato ed efficiente, aumentando il coordinamento tra governo centrale e governi locali e tra diversi dicasteri.
Spiegazioni: sarà questo il primo passo che le ‘Due Sessioni’ dovranno fare riguardo alla crisi attuale, cercando di individuare responsabilità ed errori. Tanto Ma Xiaowei quale Direttore della Commissione Salute quanto Gao Fu quale Direttore del China Center for Disease Control saranno messi sulla graticola come, del resto, il sindaco di Wuhan, Zhou Xianwang, e il governatore dell’omonima provincia, Wang Xiaodong. A seconda delle risposte, potrebbero venire messi da parte. Ma una spiegazione eccessiva potrebbe finire problematica quanto dire troppo poco. Ottenere il giusto equilibrio tra il sembrare competente e fiducioso o meno non sarà facile.
Le fondamenta dello sviluppo economico e sociale della Cina sono stabili nonostante l’impatto senza precedenti dell’epidemia di COVID-19. Ad affermarlo Guo Weimin, portavoce della terza sessione del 13° Comitato nazionale della Conferenza consultiva politica del popolo cinese, sottolineando il vantaggio di disporre di grandi dimensioni di scala, oltre che di una forte flessibilità, di un enorme potenziale e di capacità di manovra. A detta di Guo, la Cina ha prontamente introdotto una serie di politiche e misure per mitigare l’impatto del virus, ha rafforzato gli adeguamenti anticiclici mirati e ha offerto un supporto pratico alle micro, piccole e medie imprese. “Crediamo che supereremo le difficoltà e gli ostacoli con l’unità e gli sforzi concertati”, ha tenuto a precisare.
In attesa del tredicesimo piano quinquennale che sarà annunciato nel 2021, con un PIL in calo, per la prima volta dal 1992 da quando si registrano i dati trimestrali, del 6,8% nel primo trimestre 2020 a causa del Coronavirus, il Premier Li Keqiang non annuncerà un target di crescita annuale come non accadeva dal 1998. Il motivo lo ha spiegato ieri proprio il Primo Ministro: “Quest’anno dobbiamo dare priorità alla stabilizzazione dell’impiego e alla tutela degli standard di vita, alla vittoria della battaglia contro la povertà, e al conseguimento dell’obiettivo di edificare una società moderatamente prospera in tutti i suoi aspetti”.
Sarà necessaria una revisione degli obiettivi di crescita, che prevedevano un aumento del PIL del 5,6 per cento quest’anno. È più probabile che l’obiettivo di crescita del Pil di quest’anno si attesti tra il 3 e il 3,5%, allontanandosi il raggiungimento il tanto agognato raddoppio del PIL del 2010. Il National Bureau of Statistics cinese ha annunciato ufficialmente la prima contrazione economica dal 1976, quando il Paese affrontava la fase finale della Rivoluzione Culturale. Il tutto reso ancora più complicato dalla guerra commerciale in corso con Washington.
È comunque un momento delicato considerata la centralità che ha l’economia non solo per la prosperità della Cina, ma anche per la sua stabilità. Certo è, infatti, che la disoccupazione è uno spettro che fa paura. Secondo i dati ufficiali il tasso di disoccupazione era del 6,2% a Febbraio, del 5,9% a Marzo mentre ad Aprile il tasso di disoccupazione è stato del 6%, con una marcata crescita di quello giovanile (13,8%, con un incremento dello 0,5%). I numeri reali sarebbero ancora più grandi di quelli delle statistiche, comunque cifre ‘monstre’ che potrebbero effettivamente configurarsi come una grande minaccia sociale: a detta di UBS Securities, 80 milioni di posti di lavoro sono stati persi nei servizi, nell’industria e nelle costruzioni per effetto della pandemia. L’Economist Intelligence Unit ha calcolato invece che 250 milioni di lavoratori cinesi perderanno tra il 10 e il 50% dei loro guadagni. Addirittura, per Zhongtai Securities, il tasso di disoccupazione in Cina è al 20,5% (circa 70 milioni di lavoratori).
Nel cuore manifatturiero del Paese, l’area del Delta del Fiume delle Perle (Guangdong), il guadagno mensile dei lavoratori dell’industria è passato dai 5mila yuan pre-pandemia ai 2mila attuali: le ragioni sono da ricercare nel crollo degli ordini dall’estero che ha causato un taglio della produzione con riduzione degli straordinari, senza i quali le famiglie operaie non guadagnano abbastanza per la propria sussistenza quotidiana.
Nelle aree rurali, da dove provengono milioni di lavoratori migranti ora senza impiego e più colpiti anche per il progresso tecnologico, la situazione è anche più drammatica. Secondo dati dell’Ufficio nazionale di statistica, il reddito pro-capite in questa parte di Cina è di 3218 yuan, il 3% in meno rispetto allo scorso anno. Nelle cifre ufficiali, non sono conteggiati 300 milioni di lavoratori che fanno ritorno nelle campagne da dove provengono, trascinandosi dietro grandi bagagli. Ciò dopo esser arrivati nelle regioni più produttive del Paese (Guangdong, Zhejiang, Henan, Heilongjiang e Shandong) e dopo aver scoperto che le fabbriche non assumono, o che i salari sono troppo bassi per sostenere le spese per il vitto e l’alloggio. A questi lavoratori non è riconosciuta la residenza nelle città o nelle zone industriali dove possono ottenere impiego. Il governo ha deciso di estendere alcuni benefici ai migranti disoccupati, ma finora solo 2,3 milioni di lavoratori cinesi, su un totale di 430 milioni residenti nelle aree urbane, hanno ottenuto un sussidio di disoccupazione.
Il malessere tra la popolazione senza impiego rimane ancora assolutamente ad un livello fisiologico. Il China Labour Bulletin riporta decine di piccole proteste da parte di lavoratori in grave difficoltà per la crisi pandemica: le più recenti si sono avute a Shanghai, nel Jiangxi, Shanxi, Hebei e Fujian, ma se si guarda agli scioperi nei primi quattro mesi del 2020, essi sono stati 142, in netto calo rispetto ai 483 del 2019. Servizi e trasporti sono i settori che hanno visto il maggior numero di scioperi. Se è vero che ad aprile la produzione nel ramo dei servizi è scesa del 4,5% su base annua mentre nei primi quattro mesi dell’anno il calo è stato del 9,9%, si può affermare che quella manodopera che prima del COVID-19, una volta licenziata dalle industrie, veniva assorbita dal settore dei servizi, ora non è più così.
Non va dimenticato che il 2020-2021 doveva essere nelle intenzioni della dirigenza cinese l’anno dell’eliminazione della povertà assoluta, una missione che Pechino si è impegnata comunque a portare a compimento nonostante la crisi attuale. Non sono pochi quelli che stanno cominciando a nutrire dubbi, anche se il numero di persone che vivono in condizioni di povertà è calato a 5,51 milioni alla fine del 2019 da 98,99 milioni alla fine del 2012 e la classe media è sempre più grande: se si pensa che tra Gennaio a Febbraio, al principio dell’epidemia, l’economia cinese ha prodotto 3,54 milioni di nuovi posti di lavoro, un milione in meno rispetto a quelli generati nello stesso periodo dello scorso anno, ma comunque posizioni part-time o a giornata, figuriamoci cosa potrà succedere nei mesi a venire.
Il problema cruciale, a questo punto, a fronte di una esportazioni azzerate e di una domanda interna a livelli rasoterra, è mettere i soldi direttamente nelle tasche dei consumatori nell’intento di ridurre gli effetti della disoccupazione e la mancanza di liquidità, incoraggiando i consumi. La Banca Popolare Cinese (PBOC) ha annunciato l’arrivo di politiche fiscali e monetarie, senza fornire però molti dettagli. Tuttavia, l’economia cinese è diventata troppo grande e complessa per riavviarsi con la stessa velocità del 2008, quando Pechino mise in piedi in pochissimo tempo un piano per spendere più di 586 miliardi di dollari. E l’ipotesi di fare nuovo debito pubblico non è musica per le orecchie di Pechino.
Ciò nonostante, dalle ‘due sessioni’ non possono non attendersi pacchetti di stimoli interni, come quanto già fatto filtrare: la China Banking and Insurance Regulatory Commission (CBIRC) starebbe concedendo a tutte le PMI un periodo di grazia dal 25 gennaio al 30 giugno, durante il quale i prestiti possono essere rinnovati senza alcuna penalizzazione; il governo centrale starebbe iniettando un totale di 1.26 trilioni di renminbi (180 miliardi di dollari) nelle casse dei governi provinciali e locali a sostegno dell’emissione di assicurazioni sanitarie, dell’implementazione dei servizi di igiene pubblica, e dei fondi per contrastare la crescente disoccupazione, per un totale complessivo di 6.28 trilioni di renminbi (897.24 miliardi di dollari); sempre gli dipartimenti finanziari a livello provinciale e locale, sparsi sull’intero territorio cinese, un totale complessivo di 110.48 miliardi di renminbi (pari 15.78 miliardi di dollari) sarebbe disponibile per limitare i danni della pandemia; il Ministero delle Finanze avrebbe contribuito direttamente con 25.75 miliardi di renminbi (pari a 3.68 miliardi di dollari) dell’importo totale; sarebbe temporaneamente modificata la ripartizione del gettito fiscale tra il governo centrale e i governi locali – garantendo a quest’ultimi fondi supplementari fino a fine giugno per un valore complessivo di circa 110 miliardi di renminbi (pari a 15.72 miliardi di dollari); sarebbe ridotta inoltre la pressione fiscale sulle aziende, alleggerendole di circa 1.000 miliardi di renminbi (pari a 142.87 miliardi di dollari) di prestazioni previdenziali a loro carico.
Non solo PMI, ma anche grandi progetti infrastrutturali: i governi provinciali e locali hanno emesso un totale di 1.200 miliardi di renminbi (pari a 171.45 miliardi di dollari) di obbligazioni nel periodo gennaio-febbraio, di cui quasi il 70% è stato diretto al finanziamento di infrastrutture. In questo modo si possono sostenere i grandi colossi e, quindi, milioni di lavoratori. Ma ciò non dovrebbe esser fatto a scapito dei servizi pubblici locali, a cui è stato indirizzato meno del 15% dei fondi.
Una ripresa della crescita in Cina sarà possibile solo se la pandemia del nuovo Coronavirus subisce una frenata a livello globale, ha avvertito oggi Pechino. “Le aziende devono ancora affrontare importanti sfide operative e di produzione“. Ci vorrà ancora del tempo “per sperare in un ritorno alla normalità”, ha osservato sulla stampa il ministro dell’Industria e dell’Information Technology, Miao Wei. Il ministro non ha escluso una ripresa nel secondo trimestre, ma, ha avvertito, questo scenario sarà possibile solo “se la pandemia verrà messa gradualmente sotto controllo in tutto il mondo”.
È ormai accertato che la Cina non dipende più come in passato dalle merci e dai servizi venduti all’estero, che, nel 2019, rappresentavano il 17,4% del PIL nazionale, contro il 33% nel 2002. Eppure le esportazioni impiegano, direttamente o indirettamente, 112 milioni di cinesi. Donald Trump ha recentemente parlato della pandemia come “la fine della globalizzazione”. Anche se così non fosse, è opinione diffusa tra molti che il Coronavirus avvierà una riorganizzazione della supply chain globale. Il processo si stava già verificando prima del virus e le azioni intraprese da Pechino durante la pandemia globale non faranno che accelerare lo spostamento delle fabbriche al di fuori della Cina. E più il rischio politico aumenta, più questa eventualità rischia di farsi reale.
In ogni caso, l’economia della Cina prenderà un serio colpo dal quale la ripresa sarà lunga ed è forse anche per questo che potrebbe diventare sempre più indispensabile, agli occhi del governo dì Pechino, iniziare a pensare a perseguire sempre di più la strada del mercato: a questo proposito, il 9 Aprile scorso la Cina ha reso nota una proposta per un nuovo piano di riforme economiche che “potrebbe finalmente realizzare alcune delle liberalizzazioni a favore del settore privato annunciate, ma non ancora implementate, nel Terzo Plenum del 18esimo Congresso del Partito del Novembre 2013″.
Pechino dovrà decidere in queste ore cosa ne sarà del suo futuro. Da questo punto di vista interessante sarà vedere i riflessi sul progetto infrastrutturale via terra e via mare della Nuova Via della Seta (One Belt One road initiative). Un piano a lungo termine, ma dai grandi costi, che rischia di dover essere ripensato, ma a cui Xi Jinping ha legato la sua Presidenza. Altrettanto interessante sarà valutare quali saranno le ricadute sul Piano quinquennale 2021-2025 potrebbe avere nel rafforzamento del mercato interno e nell’innovazione tecnologica le principali missioni.
Tecnologia che è sempre più strategica quale strumento politico, soprattutto nella crescente competizione strategica con gli Stati Uniti. E lo si ravvisa anche nel documento, dal titolo “US Strategic Approach to the People’s Republic of China”, inviato dall’Amministrazione americana al Congresso: “Da quando gli Stati Uniti e la Repubblica popolare cinese hanno stabilito relazioni diplomatiche nel 1979, la politica degli Stati Uniti nei confronti della Repubblica popolare cinese è stata in gran parte fondata sulla speranza che un impegno più profondo avrebbe portato a una fondamentale apertura economica e politica nella Repubblica popolare cinese e al suo emergere come uno stakeholder globale costruttivo e responsabile, con una società più aperta. Più di 40 anni dopo, è diventato evidente che questo approccio ha sottovalutato la volontà del Partito comunista cinese di limitare la portata delle riforme economica e politica in Cina. Negli ultimi due decenni, le riforme sono state rallentate, bloccate o invertite. Il rapido sviluppo economico della Repubblica popolare cinese e il maggiore impegno verso il mondo non hanno portato alla convergenza con l’ordine libero, aperto e incentrato sui cittadini come speravano gli Stati Uniti. Il Partito comunista cinese ha scelto invece di sfruttare il mondo libero e aperto e di tentare di rimodellare il sistema internazionale a suo favore. Pechino riconosce apertamente che sta cercando di trasformare l’ordine internazionale in linea con gli interessi e l’ideologia del Partito comunista cinese. L’uso crescente dei poteri economico, politico e militare da parte del Partito comunista cinese per costringere al consenso gli Stati nazionali danneggia i vitali interessi americani e mina la sovranità e la dignità di Paesi e individui in tutto il mondo”.
Stati Uniti che, dopo aver puntato il dito contro ZTE, tentano di colpire Huawei, il colosso ormai tra i più avanzati, per esempio, nell’ambito del 5G, ma soprattutto l’emblema della corsa alla superiorità tecnologica in cui si è imbarcata Pechino. A questo riguardo, il Dipartimento del Commercio americano ha modificato la normativa che regola le catene di fornitura americane così da predisporre sanzioni a qualsiasi azienda che venda tecnologia con componenti americane al gigante cinese.
Anche nel corso delle ‘Due Sessioni’, il tema della tecnologia sarà prioritario, e i delegati non potranno evitare di confermare la necessità di velocizzare il progresso in questo campo. Il che vuol dire impegnare risorse ed in tempo di Coronavirus, la tecnologia potrebbe essere una valida alleata e, perciò, subire una notevole propulsione.
Un altro fondamentale aspetto dell’appuntamento delle ‘linghuai 2020’ sarà l’approvazione del primo Codice civile cinese, comprendente 1.260 articoli, suddivisi in disposizioni generali e sei parti relative a proprietà, contratti, diritti della persona, matrimonio e famiglia, eredità e responsabilità civile. Tra le novità più eclatanti, la nascita di un embrionale ‘codice per la privacy’ per la popolazione cinese oltre che, nella sezione relativa al matrimonio e al diritto di famiglia, l’assoluto divieto al matrimonio omosessuale, nonostante siano arrivate numerose richieste in senso opposto ai legislatori.
Per tornare nell’ambito dello scontro con Washington, cruciale anche la discussione sulla bozza del bilancio della Difesa cinese per il 2020. Il bilancio per il 2019 è stato di 1.190 miliardi di yuan (oltre 167 miliardi di dollari), in crescita del 7,5 per cento rispetto al 2018. Dal 2016 la Cina ha mantenuto una crescita a una cifra nel suo bilancio annuale della difesa e quest’anno il trend potrebbe essere confermato a causa delle crescenti minacce alla difesa nazionale, nonostante la grande incertezza in merito all’impatto della pandemia sull’economia nazionale. L’Esercito popolare di liberazione vorrebbe innalzare la crescita al 9%. Come ben spiegato nel documento del 2019 intitolato ‘La Difesa nazionale della Cina nella nuova era’, l’obiettivo cinese è ‘avanzare in modo completo nella modernizzazione’ di tutte le componenti delle Forze armate entro il 2035, così da poter avere a disposizione entro il 2050 di uno strumento militare ‘world-class’.
Sicuramente quanto uscirà dagli incontri di questi giorni sarà un elemento da non sottovalutare. D’altro canto, il clima con Taiwan si è fatto molto pesante, soprattutto dopo la vittoria alle elezioni presidenziali di Tsai Ing-wen e il suo secondo insediamento di poche ore fa, nel corso del cui giuramento ha ribadito le istanze indipendentiste, rigettando il Consenso del 1992. E la rivalità non farà che aumentare a causa delle mosse degl Stati Uniti che proprio su Taiwan sembrano puntare per indispettire Pechino e che con sempre maggiore frequenza, inoltre, inviano navi e jet nel Mar Cinese Meridionale e nel Mar Cinese Orientale. Proprio nelle ultime ore, dopo aver provato con scarso successo e con l’opposizione cinese a far rientrare Taipei nell’Assemblea dell’OMS, il Dipartimento di Stato Usa ha approvato in via preliminare la vendita a Taipei di 18 siluri pesanti avanzati Mk-46 Mod6 e di forniture accessorie per un valore stimato di circa 180 milioni di dollari: “La relazione tra Cina e Stati Uniti è ora in un momento critico ed è essenziale che entrambe le parti insistano per evitare conflitti o scontri, impegnandosi nel rispetto reciproco e nella cooperazione vantaggiosa per entrambe le parti”, ha dichiarato in conferenza stampa Zhang Yesui, ex ambasciatore cinese negli Stati Uniti e portavoce della terza sessione della 13ma Npc. Il governo centrale di Pechino mantiene una linea dura sull’applicazione del cosiddetto principio “della Cina unica”, secondo cui “esiste una sola Cina al mondo e Taiwan è parte integrante del territorio cinese”, respingendo ogni tentativo di interferenze nei cosiddetti “affari interni” da parte di paesi stranieri. C’è poi la competizione spaziale, con la Cina sempre più ambiziosa in materia e Trump che ha annunciato la creazione di una Space Force. Ma non mancano tensioni anche con l’India, a sua volta coinvolta in un triangolo ‘pericoloso’ con Washington e Pechino.
In questo contesto si inserisce anche un disegno di legge sulla sicurezza nazionale, una sorta di stretta per Hong Kong, che il governo cinese presenterà all’Assemblea nazionale. Nell’ex colonia britannica, con l’allentamento delle misure anti-contagio, sono tornate le proteste proprio contro quelle restrizioni considerate repressive e nei prossimi mesi, essendo previste delle elezioni, gli animi non faranno che surriscaldarsi. Il disegno di legge dovrebbe vietare “le attività sovversive, le interferenze straniere e il terrorismo” nell’ex colonia britannica. Proprio oggi, il comitato nazionale del Cppcc ha ribadito il sostegno al sistema che regola i rapporti anche tra Pechino e i territori di Hong Kong e Macao. Ad Hong Kong, in particolare, “il sistema politico è stato messo in discussione dalle proteste anti-democratiche innescate dalla proposta di legge sull’estradizione”, ha affermato Wang Yang, Presidente del Comitato nazionale della Cppcc. “Faremo pressione per la stabilità a lungo termine del principio ‘Un paese, due sistemi’ […] e continueremo a sostenere il miglioramento e il sostegno dello stato di diritto”, ha aggiunto. Da Washington, però, Donald Trump, rispondendo ai reporter alla Casa Bianca, ha già avvertito che gli Usa avranno una reazione molto forte se la Cina imporrà una nuova legge sulla sicurezza nazionale a Hong Kong.
Nelle discussioni durante le ‘Due Sessioni’, potrebbero essere stabiliti nuovi indirizzi sulla politica estera, in merito alla ‘health (o mask) diplomacy’ e alla ‘wolf warriors diplomacy’, gli ambasciatori e diplomatici cinesi nel mondo che stanno ribattendo, senza esclusione di colpi, alla propaganda e alle accuse provenienti dall’altra riva del Pacifico.
Il ‘decoupling’ con Washington, ad oggi, potrebbe divenire una tendenza inarrestabile. Dopo le accuse per aver dato origine (anche in modo involontario) alla pandemia e dopo aver criticato l’inefficienza dell’OMS in quanto ‘burattino’ in mano di Pechino, il Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha segnalato un ulteriore deterioramento delle sue relazioni con la Cina, dicendo in un’intervista con l’emittente ‘Fox News’ che non ha alcun interesse a parlare subito con il presidente Xi Jinping, e ha fatto capire che potrebbe tagliare i legami con la seconda economia mondiale. Trump ha dichiarato di essere molto deluso dall’incapacità della Cina di contenere la pandemia, e che anche l’accordo commerciale con Pechino stipulato a gennaio è in bilico.
“Non avrebbero mai dovuto lasciare che ciò accadesse”, ha detto Trump. A Trump è stato chiesto anche del suggerimento di un senatore repubblicano di negare il visto agli Stati Uniti agli studenti cinesi che chiedono di studiare in materie legate alla sicurezza nazionale, come il calcolo quantistico e l’intelligenza artificiale. “Ci sono molte cose che potremmo fare. Potremmo interrompere l’intera relazione “, ha risposto il Presidente.
Negli ultimi giorni, in sede di Assemblea Mondiale OMS, Trump ha continuato ad attaccare la Cina e, insieme ad un altro centinaio di Paesi, gli Stati Uniti hanno chiesto un’indagine internazionale sulle cause della pandemia. ‘Non è il momento opportuno’, ha glissato Pechino che, oggi, per bocca il portavoce del Congresso nazionale del popolo, Zhang Yesuia, ha rimarcato che in caso di sanzioni da parte del Congresso americano per una presunta responsabilità cinese nella pandemia, “ricorreremo a una risposta ferma e a misure di ritorsione”.
Il nemico esterno rappresentato dagli Stati Uniti tornerà utile anche dal punto di vista interno, per serrare i ranghi del Partito. Ma come ne usciranno il PCC e la leadership di Xi Jinping dalle ‘Due Sessioni’? Le ‘Due Sessioni’ saranno fondamentali per capire i prossimi eventi. La stabilità del regime e quindi di Xi Jinping è legata a doppio filo a quanto verrà deciso in queste ore.
Anche nella risposta alla pandemia, dopo un’iniziale affidamento alle amministrazioni locali, dal 20 di gennaio il centro è tornato protagonista con una reazione attribuita a tutto il Comitato permanente del Politburo, quasi in controtendenza con il carattere anti-collegiale della leadership di Xi come dimostra l’inserimento nello Statuto del Pcc del ‘Pensiero di Xi’. Ma è stata solo una parentesi: una volta riportata sotto controllo la situazione, ma centralità di Xi è tornata preponderante.
Da questo punto di vista, anche la mappa interna al Partito o al sistema amministrativo e, di conseguenza, la presa che di questo ha Xi potrebbe subire delle modifiche.
Già lo scorso 19 Aprile, Sun Lijun, segretario di Meng Jianzhu – Segretario di Partito della Central Political and Legal Affairs Commission dal 2012 al 2017 e appartenente alla Shanghai Gang – è stato messo sotto inchiesta. Wang Xiaohong, fedele di Xi Jinping nel Fujian e responsabile dell’arresto di Sun Lijun, potrebbe assumere la guida del Ministero della Pubblica Sicurezza, oggi in mano a Zhao Kezhi. Sarebbe un modo per Xi di relegare ai margini esponenti della ‘vecchia guardia’ come Guo Shengkun, Segretario di Partito della Commissione Politica e Giuridica, o Zhou Qiang, Presidente della Corte Suprema del Popolo.
Rimarrebbero poi da rimpiazzare a breve personalità come Chen Wu, il Presidente del governo del Guangxi, Sun Zhigang, il Segretario di Partito a Guizhou, Chen Hao, il Segretario di Partito nello Yunnan, e Chen Qiufa, Segretario del Partito nello Liaoning.