“Se l’’accordo di Riyadh’ verrà rilanciato con un nuovo compromesso tra governo riconosciuto e Consiglio di transizione del Sud, questo potrà temporaneamente calmare le acque tra i diversi alleati di sauditi ed emiratini”. L’intervista ad Eleonora Ardemagni (ISPI)

 

Sono di nuovo ai ferri corti i secessionisti del Consiglio di transizione del Sud(CTS), appoggiato dagli Emirati Arabi Uniti, e il governo yemenita riconosciuto dalla Comunità internazionale, sostenuto dall’Arabia Saudita e guidato dal Presidente Abd Rabbo Mansur Hadi. Una scena simile si era già verificata  la scorsa estate, prima di arrivare alla sottoscrizione di un accordo a Riyadh il 5 novembre 2019. Anche in quell’occasione il movimento che chiede la secessione del sud dello Yemen dal resto del Paese si era ribellato salvo poi chiedere una spartizione del potere. Secondo i separatisti,  l’esecutivo yemenita sarebbe dominato dal partito islamico Islah che cospirerebbe contro le ambizioni meridionali di autonomia mentre, nel nord, la guerra contro i ribelli Houthi, sempre più vicini all’Iran prosegue, con le forze governative, seppur appoggiate dalla Coalizione militare a guida saudita, in seria difficoltà sul fronte di Mareb, dove a febbraio hanno subito una pesante sconfitta come la perdita della città di Hamz, nella provincia di Jawf.
I separatisti sono, dunque, tornati a criticare il governo di Hadi per la mancata applicazione dell’’accordo di Riyadh’, decidendo di dichiarare l’autogoverno ad Aden, nonostante il cessate-il-fuoco di due settimane proclamato unilateralmente dalla Coalizione per combattere la pandemia da Coronavirus e poi prolungato di un mese, ma che non è stata mai accettato dai ribelli Houthi.
«Il CTS dichiara l’autonomia nel sud e un comitato inizierà i suoi lavori sulla base di un elenco di compiti assegnati dalla presidenza del consiglio», hanno spiegato i separatisti in un comunicato stampa mentre il governo di Hadi ha affermato che la decisione del CTS avrà «conseguenze catastrofiche» per l’accordo di pace sottoscritto lo scorso novembre 2019. «L’annuncio da parte del cosiddetto consiglio di transizione equivale a una ripresa della sua insurrezione armata (…) e al completo ritiro dall’accordo di Riad», ha scritto su Twitter il ministro degli Esteri dello Yemen, Mohammed al Hadhrami.
La dichiarazione di autogoverno non ha convinto tutte le province del sud: diverse di queste – tra cui Hadramaut, Al Mahra, Abyan, Socotra e Shabwa – hanno manifestato il loro dissenso, parlando, con sfumature diverse, di «colpo di Stato» contro il governo riconosciuto.
La Coalizione a guida saudita ha richiamato alla necessità di ripristinare lo status quo ante nel sud dello Yemen, annullando qualsiasi azione che violi l’accordo di Riyadh. Da parte sua, il Ministro degli Esteri saudita, Faisal bin Farhan, ha scritto sul suo account su Twitter: «Vogliamo che lo Yemen ottenga ciò che l’’accordo di Riyadh’ ha garantito circa il lavoro congiunto tra le due parti per soddisfare gli interessi del popolo yemenita (…) per raggiungere la sicurezza e la stabilità. Ciò richiede l’attuazione dell’accordo e il ritorno della situazione a prima che il Consiglio di transizione dichiarasse lo stato d’emergenza». A queste parole hanno fatto eco quelle del Vice Ministro della Difesa saudita, il Principe Khalid bin Salman, secondo cui «la Coalizione si è detta sorpresa per l’annuncio del Consiglio di transizione meridionale. Il Regno e gli Emirati Arabi Uniti confermano il lavoro permanente per la sicurezza e la stabilità in Yemen, riportando le condizioni alla normalità, tornando ad attuare l’accordo di Riad e a sostenere il governo legittimo» e «accelerare l’attuazione dell’accordo di Riad è una responsabilità nazionale che ricade sui due firmatari in risposta alle aspirazioni del popolo yemenita e al suo desiderio di pace».
Anche il Ministro di Stato agli Esteri saudita, Adel al Jubeir, si è espresso duramente: «Gli interessi del popolo yemenita non sono all’asta» e «il Regno, insieme agli Emirati Arabi Uniti, ha affermato che ci deve essere un ritorno alla situazione precedente. Rifiutiamo fortemente il mettere l’interesse degli yemeniti all’asta con posizioni e spostamenti che ostacolano la realizzazione di opportunità positive per vivere in sicurezza e stabilità».
Il riferimento agli Emirati Arabi Uniti ha una sua logica perché, come vedremo, è proprio la competizione tra i due Paesi ‘fratelli coltelli’ a fornire una chiave di lettura della crisi in corso tanto da spingere il Ministro di Stato degli Esteri emiratino, Anwar Gargash, ad affermare che la piena attuazione dell’accordo di Riyadh tra il governo yemenita e il Consiglio di transizione del sud «è essenziale per l’azione politica nella prossima fase» e che «la frustrazione per il ritardo nell’attuazione dell’accordo non dovrebbe essere una ragione per cambiare la situazione». Per questo, ha concluso,  «la nostra fiducia nell’impegno della sorella Arabia Saudita per attuare l’accordo di Riyadh è assoluta».
Intanto ieri i miliziani del Consiglio di transizione del Sud dello Yemen hanno occupato i ministeri e le sedi governative ad Aden, colpita pochi giorni da una forte alluvione che ha causato la morte di 21 persone ed ingenti danni, e nel bel mezzo di un’epidemia da Coronavirusche nel Paese sembra invisibile, ma non assente, nonostante, ad oggi ci sia un solo caso riconosciuto. Esiste una “probabilità molto reale” che il nuovo coronavirus circoli in Yemen, hanno chiarito nelle ultime ore le Nazioni Unite, avvertendo che una carenza nel finanziamento degli aiuti comprometterebbe gli sforzi per combattere il virus in uno dei Paesi più vulnerabili. L’ufficio del capo degli aiuti delle Nazioni Unite nello Yemen ha poi reso noto che sulla base dei modelli di trasmissione in altri Paesi e dopo 17 giorni da quando lo Yemen ha riferito il suo primo caso, “le agenzie stanno avvertendo che ora esiste una probabilità molto reale che il virus stia circolando senza essere rilevato e non mitigato nelle comunità ” e “ciò aumenta la probabilità di un’impennata di casi che possono rapidamente sopraffare le capacità sanitarie“. Dal Regno Unito sono già partiti i primi aiuti sanitari, ma a rendere tutto più complicato è la mancanza di coordinamento tra le autorità governative e quelle locali.

Cosa ne sarà dell’’accordo di Riyadh’? Come potrebbe evolvere la divergenza tra Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti? Quale impatto avrà il COVID-19 sulla guerra yemenita? Lo abbiamo chiesto ad Eleonora Ardemagni, associate research fellow presso l’Istituto Studi di Politica internazionale (ISPI) e Gulf analyst presso la Nato Defense College Foundation.

 

Due giorni fa, i secessionisti del Consiglio di transizione del Sud hanno dichiarato l’autogoverno ad Aden, rompendo, di fatto, l’’accordo di Ryad’, siglato neanche sei mesi fa. Come si è arrivati a questa decisione?
Considerei tre elementi: innanzitutto il Consiglio di transizione del Sud ha firmato nel novembre del 2019 d’accordo di Riyadh, anche se questo accordo non menziona mai la questione dell’autonomia del Sud. Quindi un accordo che nasce già con una grande contraddizione interna e fu allora contraddittorio che un movimento come quello che ha dato vita al Consiglio di Transizione del Sud firmasse un accordo che non specifica mai la possibilità di un’autonomia per il Sud. Allora lo fecero su grande pressione da parte sia degli Emirati Arabi Uniti, che sostengono informalmente i secessionisti del Sud, sia da parte dell’Arabia Saudita. in secondo luogo, in questo momento, i secessionisti del Sud hanno compreso che c’era la possibilità nuovamente di provare a ribaltare l’accordo perché l’Arabia Saudita contemporaneamente stava cercando un compromesso con i ribelli Houthi del Nord e quindi c’era la possibilità di provare a trovare un equilibrio migliore. In terzo luogo, negli ultimi giorni, ci sono state delle inondazioni ad Aden e ci sono state delle proteste di parte della popolazione locale contro la mancanza di servizi e questo si è rivolto sia contro il governo riconosciuto che, di fatto, ha sede ad Aden, sia contro le autorità locali che sono in gran parte legate ad un Consiglio di transizione del Sud. Da questo punto di vista, reclamare adesso l’autonomia di Aden e proclamare un autogoverno è anche un modo del Consiglio di transizione del Sud per togliersi da una situazione scivolosa anche dal punto di vista interno riguardo l’incapacità di fornire una governance soddisfacente ai cittadini.
Cosa contestano i secessionisti? Nel comunicato si fa riferimento a mala gestione, corruzione, complotto ai danni delle istanze del Sud perpetrato dal Partito islamico dominante e vicino ai Fratelli Musulmani, Islah.
Sì, di fatto il governo riconosciuto dalla Comunità internazionale è composto sia da coloro che ancora appoggiano il Presidente Hadi, che, non dimentichiamo, era Vice-presidente dell’ex Presidente Saleh, sia dalle componenti di Islah, il Partito costituito in parte dai Fratelli Musulmani e in parte dai salafiti. Quindi, siccome Islah è fortemente impegnato per mantenere l’unità nazionale a differenza dei secessionisti del Sud, questo è un altro punto di tensione costante. Il governo riconosciuto, visto il deterioramento delle condizioni di sicurezza generale del Paese, non è più in grado di gestire costantemente gli edifici pubblici, fornire i beni essenziali. Dunque, a queste situazioni che durano da tempo si è aggiunta l’insoddisfazione della mancata applicazione dell’ ‘accordo di Riyadh’ che doveva creare delle istituzioni condivise e quindi anche una spartizione di potere tra il governo riconosciuto e il Consiglio di transizione del Sud dal punto di vista politico e militare.
Le critiche nei confronti della mancata applicazione dell’ ‘accordo di Riyadh’ possono dirsi fondate?
Sì, l’accordo non è mai stato applicato così come lo stesso accordo per la città di Hodeida nel dicembre 2018 dalle Nazioni Unite tra gli insorti Houthi e il governo riconosciuto non è stato applicato. Sono due accordi simili, anche se hanno avuto una genesi diversa perché l’accordo di pace per Hodeida è stato negoziato dalle Nazioni Unite mentre quello di Riyadh è stato fortemente voluto dall’Arabia Saudita. Genesi differenti, ma entrambi guidati da volontà di risolvere questioni locali e, quindi, privi di una cornice nazionale e così non possono risolvere il conflitto in modo stabile. Possono cristallizzare la situazione di forza in determinate aree del Paese, ma non possono offrire una soluzione ai problemi che si trovano alla radice.
In quest’ottica, il governo riconosciuto di Hadi, già marginale, rischia di indebolirsi ancor di più, anche rispetto al contrasto alla ribellione Houthi?
Sì, le istituzioni e il governo del Presidente Hadi sono estremamente deboli come lo sono state dall’inizio proprio per lo scarso seguito militare che il Presidente ha sempre avuto sul campo per il fatto che, riparatosi ad Aden dopo il golpe degli Houthi nel gennaio 2015 a Sanaa, Hadi ha incontrato la contestazione e, poi, le mosse dei secessionisti del Sud.
Secondo alcuni osservatori, dietro la difficoltà di mantenere il controllo su Aden, vi sarebbe anche la circostanza per cui, una volta riconquistata, l’esecutivo del Presidente Hadi, fisicamente a Riyadh, non ha mai messo piede sul territorio, lasciando spazio ai movimenti separatisti per espandere la propria influenza locale. È d’accordo?
Sì, i territori intorno ad Aden sono stati liberati dall’avanzata degli Houthi già nell’estate del 2015 grazie ad un intervento di terra organizzato e guidato dalle forze militari degli Emirati Arabi Uniti con l’appoggio delle milizie locali. La città di Aden non è mai stata stabilizzata: quindi, formalmente, è diventata la sede del governo riconosciuto, che però, fino a questa estate quando poi sono scoppiati gli scontri tra governo Hadi e Consiglio di transizione del Sud, controllava solo pochi distretti della città, in particolare intorno al palazzo presidenziale. Da questo punto di vista, si tratta di una città sì liberata da una minaccia avanzata degli Houthi, ma su cui non si è mai accordati a livello di gestione locale. E la rivalità e la competizione tra governo riconosciuto e Consiglio di transizione del Sud sono sempre rimaste presenti e lo si è visto anche nella modalità con cui la città ha cercato di organizzare delle misure per contrastare la diffusione del Coronavirus.
Storicamente, però, è molto radicato ad Aden il sostegno ai secessionisti?
Certo, Aden fu la capitale della Repubblica popolare dello Yemen quindi con un territorio è una città a sé rispetto al resto del Sud dello a Yemen. Occorre anche tenere a mente che il Consiglio di transizione del Sud non è così forte e così come vuole sembrare perché questa dichiarazione di autogoverno è stata rigettata da gran parte dei governatori delle regioni del Sud. Penso sia una mossa più che altro ad utilizzo interno, innanzitutto per spostare l’attenzione dalle incapacità di governance a livello locale. Inoltre, il Consiglio di Transizione del Sud, che di fatto è sostenuto da gruppi e milizie locali, in questo modo cerca anche di contare la sua forza: per esempio, nei mesi scorsi, in alcune regioni del Sud-est yemenita, penso all’Hadramaut, c’era un collegamento maggiore tra queste formazioni, come le forze d’elite (dell’Hadramaut), sostenute anche dagli Emirati Arabi Uniti, e la leadership del Consiglio di transizione del Sud ad Aden. Ma, ieri, quando c’è stata la dichiarazione di autogoverno, il governatore dell’Hadramaut ha preso le distanze.
Oltre al governatore dell’Hadramaut, anche quelli di altre province del Sud come il Lahj, l’Abyan, l’Al Mahra, lo Shabwa e il Socotra hanno rigettato la dichiarazione dell’autogoverno, definendola un “colpo di Stato”. A cosa è dovuta questa presa di posizione contraria?
Non tutte le regioni del Sud vogliono essere governate da Aden, da un centro di potere che, comunque, avrebbe una prevalenza sul resto del Sud, dal punto di vista storico e di transizione, oltre che economico e commerciale. Ci sono delle identità regionali fortemente diverse tra Aden e la zona del Sud-Ovest yemenita rispetto, invece, al Sud-Est, quindi l’Hadrammaut, l’Al Mahra (al confine con l’Oman). Tradizioni ed identità regionali differenti e quindi agende diverse. Di fatto questi governatorati che hanno rigettato la dichiarazione di auto-governo del Consiglio di transizione del Sud aspirano a forme di autonomia locale e, in questo senso, non intendono essere parte di un possibile Yemen del Sud guidato da Aden. In più occorre tenere presente che i governatori di queste regioni che hanno gridato al colpo di stato contro il Consiglio di transizione del Sud sono nominati dal governo riconosciuto e, quindi, in molti casi, sono legati al partito dell’Islah, il primo competitor dei secessionisti.
E sono rivali della linea emiratina?
Sì. Aggiungerei, inoltre, che il fatto che questi governatori abbiano rigettato la dichiarazione di autogoverno del Consiglio di transizione del Sud non li trasforma automaticamente in sostenitori del governo riconosciuto, quindi in sostenitori di uno Yemen unito, in quanto alcuni, in particolare l’Hadramaut, che è la regione più ricca di petrolio dello Yemen così come l’Al Mahrah,  che è una delle regioni più povere, portavano avanti già da anni, acuendosi durante il conflitto, una forma di autogoverno locale e, in quest’ottica, aspirano a localizzare sempre di più i poteri, economici e amministrativi, opponendosi, in questo, allo stesso governo riconosciuto e alle aspirazioni dell’Arabia Saudita in Yemen, cioè di mantenere il Paese unito così da controllarlo più facilmente.
Non tutti i governatori delle province del Sud hanno detto no alla dichiarazione di autogoverno dei secessionisti. Uno di questi è stato il governatore dell’Al Dhalae. Perché?
Al momento non ci sono stati segnali di opposizione a questa dichiarazione da parte, per esempio, del governatorato dell’Al Dhalae che, in realtà, sono aree piccole che circondano Aden, ma strategiche in quanto si tratta del vecchio confine tra lo Yemen del Nord e lo Yemen del Sud. La leadership del Consiglio di transizione del Sud, dal punto di vista politico e militare, è di fatto originaria della zona di Aden e delle province limitrofe. Ed è in questa zona che hanno un bacino di consenso ed anche di forte reclutamento militare.
Il rifiuto di sostenere la dichiarazione di autogoverno, come ha ben illustrato poc’anzi, da parte di diverse regioni del Sud, anche strategicamente ed economicamente rilevanti se pensiamo, per esempio, all’Hadramaut, rischia di indebolire i secessionisti?
Certamente. Il Consiglio di transizione del Sud, alla luce delle reazioni alla dichiarazione di autogoverno, vede il suo consenso territoriale più ridotto rispetto a quello che si poteva interpretare questa estate. Ciò è dovuto al fatto che i territori che, al momento, fanno parte della zona di autogoverno, sono appunto Aden e poche province limitrofe. Non bisogna però dimenticare che all’interno di alcune regioni del Sud-Est yemenita, come l’Hadramaut e, in parte, anche Shabwa, regione vicina e ricca sopratutto di gas ed infrastrutture energetiche, c’è la presenza di milizie yemenite, organizzate dagli Emirati Arabi Uniti e a loro alleate, che sono favorevoli alla secessione, come le forze d’élite dell’Hadramaut e quelle di Shabwa che sono più frammentate di qualche mese fa, ma che comunque potrebbero generare scontri in queste due regioni con le fazioni armate legate all’Islah e al governo riconosciuto. Da questo punto di vista, la dichiarazione di autogoverno ci mostra sì che il Consiglio di transizione del Sud è più debole di quanto si pensasse perché molti governatori l’hanno rigettata, ma, all’interno di questi governatorati, esistono delle forze militari miste che potrebbero, appunto, scontrarsi è che, dal punto di vista regionale, sono più vicine all’Arabia Saudita e al governo riconosciuto o più vicine agli Emirati Arabi.
Dal punto di vista geopolitico, perché è così importante Aden?
Aden è il principale porto yemenita, importante per la proiezione strategica e commerciale dello Yemen nell’Oceano Indiano. Vicino ad Aden, passa il collegamento, grazie allo Stretto del Bab el-Mandeb, tra Mar Rosso, Golfo di Aden ed Oceano Indiano.
Per interpretare la dichiarazione di autogoverno del Consiglio di transizione del Sud, non si può prescindere dalla competizione e dalla tensione tra Arabia Saudita, che sostiene il governo riconosciuto, e gli Emirati Arabi Uniti, che appoggiano i secessionisti. Cosa ha portato ad una nuova divergenza? In molti segnalano, tra i vari fattori, i recenti aiuti emiratini inviati all’Iran, dopo l’allentamento delle sanzioni per il Coronavirus, e le aree ricche di petrolio scoperte in Yemen, al confine con l’Oman. Lei che ne pensa?
Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti sono sempre stati alleati e lo sono ancora. È un’alleanza che viene messa alla prova in modo frequente e, sempre più frequente, dalle ambizioni geopolitiche degli Emirati Arabi Uniti che hanno visto nello Yemen la possibilità di diventare una media potenza regionale sempre più proiettata dal punto di vista politico, militare è strategico su tre continenti, Medioriente, Africa orientale, Asia Meridionale. Lo Yemen non è altro che un Paese cerniera tra questi tre mondi che lì si intersecano. Dall’inizio del conflitto, nel 2015, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti si sono di fatto spartiti i compiti in Yemen, entrambi parti di quella coalizione guidata dall’Arabia Saudita che è intervenuta contro gli Houthi: l’Arabia Saudita si è occupata della parte settentrionale, della lotta contro gli Houthi perché questa era la loro maggiore preoccupazione e quindi hanno puntato molto sui bombardamenti sul Nord del Paese mentre gli Emirati Arabi si sono occupati delle aree meridionali e del contrasto agli Houthi, ma soprattutto ad Al-Qaeda nella penisola arabica, informalmente anche alle milizie legate ad Islah, e alla gestione della sicurezza locale, addestrando milizie yemenite che sono quelle di cui oggi parliamo anche perché affiliate al Consiglio di transizione del Sud, ma non solo. Questa è, dunque, una competizione strisciante che vede gli emiratini, di occasione in occasione, cercare di promuovere i loro interessi e disegni geopolitici regionali anche attraverso lo Yemen. È stato conveniente per gli emiratini ritirare, qualche mese fa, una buona parte dei loro militari dallo Yemen perché dal punto di vista dell’immagine, della sostenibilità politica, anche per gli Emirati Arabi rimanere sul terreno era diventato più faticoso e questo anche nei confronti dell’alleanza con l’Arabia Saudita. Tuttavia, questo ritiro, che è stato pressoché totale, non ha per nulla scalfito quella capacità di influenza che gli emiratini sono riusciti a ricavare in questi anni proprio grazie alle alleanze locali e che ora sono alla prova. Sicuramente anche gli elementi ricordati contribuiscono ad alimentare questa competizione, ma non sono decisivi. Ricordiamo che, finora, l’Arabia Saudita ha avuto bisogno degli Emirati Arabi in Yemen e non dimentichiamo che c’è una tensione che periodicamente riemerge tra le due diverse agende politiche: i sauditi hanno avuto bisogno degli emiratini per quello che riguarda le forze di terra, per mettere in sicurezza alcune aree come quella costiera del Bab el-Mandeb e contenere l’espansione degli Houthi nel Sud. Gli emiratini sono stati, da questo punto di vista, decisivi ed è ovvio che gli interessi di lungo periodo dei due Paesi in Yemen restano divergenti.
È possibile ed in che modo per Arabia Saudita ed Emirati Arabi trovare un compromesso per salvare l’accordo di Riyadh ed evitare rotture o “conseguenze traumatiche” come ha affermato, in una nota, il governo del Presidente Hadi?
Non penso a rotture traumatiche così come non ci sono state questa estate, quando le forze del governo riconosciuto e quelle del Consiglio di transizione del Sud si scontrarono ad Aden e addirittura ci furono i bombardamenti contrapposti, quello dell’Arabia Saudita contro forze separatiste e quello degli Emirati contro il governo riconosciuto da loro definite ‘terroriste’. Ci fu proprio uno scontro indiretto, anche aereo, da non sottovalutare. Escludo una rottura traumatica perché non è né nell’interesse dei sauditi né degli emiratini, soprattutto vedendo come il precedente del Qatar abbia segnato il modo di relazionarsi all’interno del Consiglio di Cooperazione del Golfo. Penso che se l’ ‘accordo di Riyadh’ verrà rilanciato con un nuovo compromesso tra governo riconosciuto e Consiglio di transizione del Sud, dato anche lo scarso appoggio di questa dichiarazione di autogoverno da parte di molti governatori del Sud, questo potrà temporaneamente calmare le acque tra i diversi alleati dei sauditi e degli emiratini in Yemen. Occorre quindi un compromesso, una ricucitura che, però, non può sanare le grandi contraddizioni che sono alla base di questo accordo, tra cui il mancato riferimento alla questione dell’autonomia del Sud nonostante il Consiglio di transizione del Sud  lo abbia firmato. Credo che per il governo riconosciuto sia essenziale ricucire con i secessionisti del Sud in questo momento perché, nel frattempo, al Nord gli Houthi stanno avanzando militarmente.
Nell’ultima settimana, la coalizione a guida saudita ha prolungato di un mese il cessate-il-fuoco unilaterale. Perché? E crede che, dopo gli ultimi sviluppi, tale impegno sarà mantenuto?
Il cessate-il-fuoco di due settimane è stato prolungato di un altro mese, ma in via unilaterale in quanto gli Houthi non hanno accettato al momento perché hanno chiesto che venga rimosso l’embargo imposto dalla coalizione a guida saudita sullo Yemen. I sauditi, da almeno sei mesi, hanno dato chiari segni di voler trovare una soluzione politica al conflitto in Yemen e quindi di voler ridurre l’impegno militare, soprattutto aereo, nel Paese. Questo non soltanto perché i sauditi hanno compreso che non possono vincere il conflitto in Yemen e forse non possono neanche uscirne in maniera migliore di come sono entrati, ma anche perché c’è stato un attacco alle stazioni petrolifere di Saudi Aramco nel novembre 2019, attacco rivendicato dagli Houthi, partito, visto che molto sofisticato come hanno ricostruito gli Stati Uniti, o dal Sud dell’Iraq o dall’Iran, comunque non dal territorio yemenita, che ha fatto capire ai sauditi che è un rischio per la sicurezza sempre maggiore lasciare che gli Houthi si saldino al fronte delle milizie sciite guidate da Teheran, come è saltato all’occhio negli ultimi mesi. C’è quindi un interesse saudita a concludere questo conflitto, trovando un compromesso politico. In un certo qual modo, sembra quasi che gli Houthi siano più forti di cinque anni fa perché hanno mantenuto sotto il loro controllo Sanaa, tutta l’area tribale intorno alla capitale, Hodeida, città congelata di fatto dall’accordo ONU però di fatto sotto il controllo degli Houthi, addirittura starebbero spingendo verso Mareb dove c’è il quartier generale dell’esercito e quindi l’ultimo bastione del governo riconosciuto oltre che ingenti risorse petrolifere, in una situazione del genere, i sauditi non si possono permettere un qualsiasi accordo diplomatico con gli Houthi. Anche per questo motivo, la rottura che ora si è creata sull’ ‘accordo di Riyadh’ con i secessionisti del Sud pone un problema grave. Per quanto riguarda il cessate-il-fuoco, esso non è mai cominciato, non si è mai rivelato tale sul campo visto che, da due settimane di cessate-il-fuoco unilaterale saudita, i bombardamenti sono aumentati proprio sulle aree in cui gli Houthi stanno provando a sfondare ed in certi casi ce l’hanno anche fatta. È, dunque, più che altro un’intenzione di cessate-il-fuoco che non è stata accolta dagli Houthi e che non è stata, di fatto, applicata da nessuno sul campo. Quindi potrebbe anche essere rinnovata oltre questo mese per rilanciare una volontà anche comunicativa dei sauditi di modificare il loro approccio al conflitto.
È possibile che la crisi economica e petrolifera attuale conseguente alla pandemia COVID-19 imponga all’Arabia Saudita una rimodulazione dei capitoli di spesa, rendendo necessaria una riduzione dell’impegno in Yemen e, quindi, una risoluzione più rapida del conflitto?
Ovviamente la crisi economica causata da COVID-19 rende, anche per i sauditi, ancor più costosa la continuazione di un conflitto che già lo è stato, pur non essendo stato vincente da un punto di vista strategico. Questo è il primo fattore che ha portato i sauditi a riconsiderare il proseguimento dell’impegno.
Oltre che i sui bilanci del Regno, certamente la questione yemenita pesa sul futuro della leadership del Principe ereditario Mohammed Bin Salman.
Il futuro della leadership di Mohammed Bin Salman è legato alla questione yemenita nel senso che dipenderà molto da tre questioni che il Principe ha voluto giocare in contemporanea, collegandole tra di loro: la preparazione della successione al trono con l’imposizione della sua linea (modernizzazione dall’alto, arresto dell’élite saudita, famiglia reale compresa); il successo delle sue riforme economiche, soprattutto il piano ‘Vision 2030’ e la sua capacità di mantenerlo così ambizioso e così diversificato rispetto al settore petrolifero; le mosse di politica internazionale, lo Yemen innanzitutto, che però in questi primi anni di ‘gestione MBS’ hanno reso il Golfo più polarizzato e più diviso di prima, dai rapporti con l’Iran a quelli con il Qatar e al conflitto in Yemen. Sono tutti elementi che, secondo me, non possono più essere separati perché la leadership di Mohammed Bin Salman – che non è ancora Re, ma fa di tutto e, di fatto, lo è un dominus nel suo Paese – ha sempre meno contrappesi proprio per le sue mosse. Khālid bin Salmān Āl Saʿūd, Viceministro alla difesa Saudita e fratello minore del Principe ereditario Mohammed Bin Salman, si sta spendendo da mesi, e non a caso appare solo lui nei comunicati sauditi sullo Yemen, sostituendo il fratello.
Sulla base di queste osservazioni, appare chiaro che gli unici a guadagnare da questa dichiarazione di autogoverno sono gli Houthi.
Esattamente.
E cosa faranno? Approfitteranno degli ultimi avvenimenti per avanzare verso, ad esempio, la roccaforte di Mareb?
Sì, anche gli Houthi hanno il loro progetto di Stato, un progetto che nei fatti è un’area di autogoverno che esiste ormai dal 2015 e che, di fatto, era cominciata anche prima perché già dal 2011 gli Houthi controllavano le loro aree a nord di Sanaa. Anche gli Houthi hanno l’obiettivo di dare una forma sempre più ‘statuale’ alla loro presenza sul territorio e credo che questa rottura dell’’accordo di Riyadh’ li spingerà a proseguire militarmente nelle aree che sono ormai il cuore di ciò che resta del governo yemenita e questo li avvantaggerà.
Musica per le orecchie di Teheran, da qualche mese orfana del Generale Suleimani, l’ex capo delle forze Al Quds?
Sì. Ogni problema o difficoltà dell’Arabia Saudita, dati i rapporti degli ultimi anni, diviene inevitabilmente un punto a favore dell’Iran. Credo sia questa l’interpretazione iraniana. Teheran vedono in Yemen un susseguirsi di fallimenti da parte dell’Arabia Saudita, il che avvantaggia gli iraniani perché permette loro di capitalizzare questa grande frammentazione che si crea: quindi sia nel Nord con Houthi, che non sono attori per procura dell’Iran, ma che sono sempre più vicini al mondo delle milizie transnazionali sciite di Teheran e, nel Sud, con la faglia tra il governo riconosciuto e i secessionisti che mette a soqquadro, di fatto, la strategia che l’Arabia Saudita aveva negoziato con l’’accordo di Riyadh’.
Come è stata vista questa rottura dell’’accordo di Riyadh’ dal vicino Oman? 
L’Oman guarda con preoccupazione ad una crescita di conflittualità nel Sud dello Yemen in quanto condivide con esso un confine, con mobilità di merci, di persone. Tale confine è andato progressivamente ad occupare il centro delle preoccupazioni dell’Oman, ma anche dell’Arabia Saudita la quale sostiene che gran parte degli aiuti che l’Iran fornisce ai ribelli Houthi in realtà entri in Yemen attraverso i confini di terra e di mare dell’Oman. Non è un caso che l’Arabia Saudita abbia accresciuto, negli ultimi mesi, la sua presenza militare ad Al Mahrah, la regione confinante dello Yemen con l’Oman il quale vuole proseguire la tradizionale influenza nell’Est yemenita. I secessionisti del Sud sono sostenuti in gran parte dagli Emirati Arabi Uniti e l’Oman vede nelle scelte e nell’ingerenza emiratina in Yemen una minaccia ai suoi interessi nazionali e alla sua tradizionale politica di influenza nel Paese vicino.
È già in corso una trattativa per evitare il rischio escalation?
In questo momento, la trattativa principale è quella tra gli insorti Houthi e l’Arabia Saudita, trattativa iniziata nel settembre 2019 dopo i fatti di Saudi Aramco. Il governo yemenita, come succede ormai da diversi anni, è tenuto in secondo piano volutamente dall’Arabia Saudita, proprio a causa della debolezza del Presidente Hadi, debolezza a lungo coltivata dagli stessi sauditi proprio per avere un controllo diretto su ciò che accadeva nelle parti yemenite ancora sotto il controllo del governo. Se alla fine ci sarà un accordo tra i sauditi e gli Houthi, questo accordo sarà di fatto imposto a ciò che rimane del governo riconosciuto dello Yemen, non sarà il frutto di una condivisione anche con il governo riconosciuto.
L’’accordo di Riyadh’ può essere effettivamente salvato? O si dovrà ricominciare le trattative per un nuovo accordo?
Se verrà salvato, come è anche probabile che sia, sarà la pressione dei sauditi e degli emiratini sulle due parti a ricucire temporaneamente le relazioni. Non credo ad una nuova trattativa di mesi come è stato per l’’accordo di Riyadh’.
Teme contraccolpi o sfaldamenti per la Coalizione a guida saudita?
La Coalizione è sempre più Arabia Saudita e meno ‘a guida saudita’ rispetto agli inizi: per esempio, l’anno scorso, il Marocco ha ritirato le poche forze militari che aveva inviato in Yemen, nella Coalizione; all’inizio c’era un appoggio aereo giordano che poi, con la crescita della minaccia dello Stato Islamico ai confini, era stato messo in standby dalla stessa Giordania; il Qatar è stato espulso dalla coalizione dopo la rottura nel 2017; l’Egitto ha inviato qualche nave da guerra per la libertà di navigazione, ma non ha mai inviato truppe in Yemen. Quindi, ormai, questa coalizione, che è stata a lungo a guida saudita e emiratina, proprio per quella spartizione dei ruoli di cui si parlava prima, è sempre più solo Arabia Saudita con le forze emiratine pronte a voltare pagina rispetto alla presenza fisica in Yemen.
È possibile che Houthi e secessionisti del Consiglio di transizione del Sud trovino una qualche forma di coesistenza o convergenza?
Non lo escludo perché sono interessati a governare territori diversi dello Yemen, sono entrambi forze delle periferie yemenite e, quindi, sono state marginate ed escluse dal governo centrale per molti anni, non soltanto durante la transizione, ma già durante il regime di Ali Abdullah Saleh. Ecco perché non escluderei uno scenario in cui Houthi e secessionisti del Sud evitano di scontrarsi su alcune linee del fronte.
In questa grande frammentazione istituzionale, il terrorismo, Al Qaeda, potrebbe trovare terreno fertile?
Al Qaeda, all’interno della penisola arabica, non controlla più città o villaggi importanti dello Yemen a differenza di quello che accadeva 2016-17. Anche Al Qaeda ha dunque subito un indebolimento, ma nelle retrovie è sempre presente e sempre pronta a rimobilitarsi. Penso che l’evoluzione delle dinamiche all’interno del mondo che nello Yemen meridionale guarda alla secessione dello Stato, cioè Consiglio di transizione del Sud e altre milizie locali che aspirano all’autonomia dei propri territori, condizionerà anche il ruolo di Al Qaeda in Yemen in quanto la presenza degli emiratini e la creazione di queste milizie locali che gestivano il territorio e, al contempo, aspiravano alla secessione, ha drenato molto di quella galassia salafita che, di fatto, faceva parte anche della galassia di Al Qaeda. Nel Sud dello Yemen, in questo momento, molto spesso i favorevoli alla secessione sono anche i salafiti militanti e questa saldatura funziona per sostenere il Consiglio di transizione del Sud fino a quando c’è un’ipotesi concreta di raggiungere questa ambizione; altrimenti, nel caso in cui il Consiglio di transizione del Sud perdesse la sua capacità di attrazione politica, queste frange salafite potrebbero spingersi di nuovi verso il mondo del jihadismo armato.
In che modo gli Stati Uniti interpretano gli ultimi eventi in Yemen?
Gli Stati Uniti, dal 2015 in poi, hanno guardato allo Yemen in chiave di contrasto al terrorismo internazionale nella penisola arabica e, attraverso lo Yemen, ridurre l’influenza dell’Iran nella regione. C’è una terza dinamica che è quella dell’alleanza con l’Arabia Saudita. L’indebolimento della strategia saudita in Yemen, con la rottura dell’’accordo di Riyadh’ da parte dei secessionisti e con gli Houthi ancora capaci di tenere testa all’Arabia Saudita come cinque anni fa, penso che gli Stati Uniti guardino con preoccupazione a quanto è accaduto e che dopo diversi anni di conflitto l’Arabia Saudita si ritrova in una situazione peggiore rispetto a quella di cinque anni fa in Yemen.
L’Italia e l’Europa come dovrebbero leggere questi ultimi sviluppi e cosa dovrebbero fare?
Premesso che non penso che, purtroppo, lo Yemen rientrerà presto tra le priorità politica italiana ed europea, adesso più giustificabile rispetto a prima, se consideriamo quanto stiamo vivendo in Italia e in Europa per la crisi del Coronavirus. Penso che l’approccio migliore che l’Europa e l’Italia possano avere nei confronti dello Yemen, adesso, sia quello di isolare il più possibile lo Yemen stesso dalla competizione regionale tra Arabia Saudita, Iran ed Emirati Arabi Uniti. Quindi cercare di utilizzare un approccio quanto più locale possibile, nel tentativo di facilitare mediazioni e accordi che abbiano un respiro nazionale, ma negoziati direttamente dagli attori yemeniti. Penso sia importante consultare e coinvolgete diplomaticamente Iran, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti perché hanno un ruolo, questo è innegabile, oltre che una solida tradizione nei rapporti con lo Yemen, ma non possiamo pensare che, grazie agli attori regionali, vi possa essere una pace duratura.
In questo sforzo, gli Stati Uniti possono dare il loro contributo?
Questa amministrazione americana è stata subito percepita in Yemen come fortemente filo-saudita, ma non va dimenticato che, già prima che i sauditi iniziassero i loro negoziati con gli Houthi nel settembre 2019, sono stati gli americani, nell’agosto 2019, un canale aperto tra l’amministrazione e gli insorti Houthi e questo ha facilitato l’avvio della trattativa tra Houthi e Arabia Saudita. Lo Yemen, da parte degli Stati Uniti di Trump, è considerato un campo di battaglia nello scontro con l’Iran e credo che questo sia l’approccio più sbagliato in quanto è quello che ha spinto gli insorti Houthi, negli ultimi anni, ad avvicinarsi politicamente e militarmente all’Iran. Gli Houthi hanno una loro agenda politica interna, quella dell’autonomia del Nord, ed hanno anche la capacità di essere molto pragmatici nelle alleanze, come dimostra il passato, e questo può facilitare un dialogo.
Non solo guerra civile, ma anche Coronavirus. Al momento ci sarebbe solo un contagio accertato ufficialmente. Il sistema sanitario, anche se stanno giungendo degli aiuti, è estremamente fragile e non è possibile escludere un ‘disastro umanitario’. Cosa sappiamo dello Stato dell’epidemia in Yemen?
Per quanto riguarda il problema dei numeri, secondo me è legato al fatto che, prima di essere contati, i casi devono essere identificati. Questo è dovuto non solo alla scarsità di test, che pure sono arrivati, ma soprattutto nelle grandi città e non nelle grandi aree rurali che sono la maggioranza, ma anche alla mancanza di coordinamento tra Houthi e governo riconosciuto e tra lo stesso governo e le autorità locali che si muovono in modo autonomo, nonostante ci sia una legge che regola questo rapporto, a fronte di un governo che, però, è debolissimo. L’unico caso riconosciuto è quello in una città costiera dell’Hadramaut, ma ci sarebbero dei casi anche a Sanaa, in territorio Houthi che, a differenza di altre milizie sciite della regione che stanno anche cercando di promuovere il proprio profilo nazionale in grado di gestire l’epidemia, non hanno investito per niente in questo. Hanno messo a disposizione delle strutture per la quarantena, elaborando delle misure per limitare gli assembramenti, hanno chiuso le scuole e i voli, ma non stanno giocando a loro favore la partita del Coronavirus forse perché sanno che non potrebbero gestirla. Stanno continuando invece a mantenere alta l’attenzione sul fronte con i sauditi.
Dovendo fare una previsione, a partire dal Coronavirus, cosa avverrà nei prossimi mesi in Yemen? 
La mia previsione, se guardiamo all’impatto che anche il Coronavirus può avere sullo Yemen, è che le autorità locali avranno sempre più margine di azione rispetto ai centri di potere che siamo abituati a guardare, cioè il semi-governo degli Houthi, governo riconosciuto e Consiglio di transizione del Sud. L’incapacità di questi tre centri di potere che al momento si stanno affrontando in Yemen di offrire alla popolazione non soltanto i beni essenziali, ma proprio la gestione del bene pubblico, penso che questo, creando un intreccio tra vita quotidiana e conflitto, darà sempre più spazio alla frammentazione dello Yemen, all’emergenza di piccole aree di autogoverno e renderà sempre più difficile arrivare ad un accordo nazionale che possa ricucire il Paese.