“E’ verosimile che la vicenda delle dimissioni sia legata alle tensioni interne oltre che per decidere chi subentrerà a Khamenei”
La felicità mostrata dai «nemici giurati» dell’Iran, «compreso il regime sionista di Israele dopo le dimissioni di Zarif», dimostra «il successo del ministro degli Esteri iraniano», «corretto, coraggioso e credente», «pioniere nella resistenza contro le pressioni statunitensi contro il Paese», e rappresenta «la ragione migliore perché rimanga al suo posto». Con queste parole scritte dal Presidente iraniano Hassan Rouhani in una lettera si è conclusa la vicenda delle dimissioni annunciate lunedì scorso, a pochi giorni dal quarantennale della Rivoluzione Islamica, via social network, da colui che dal 2013 è il Ministro degli Esteri della Repubblica Islamica, Mohammad Javad Zarif: «Tante grazie» – aveva scritto – «alla generosità del caro e coraggioso popolo dell’Iran e alle sue autorità per questi 67 mesi. Mi scuso per l’impossibilità di continuare a servire e per le carenze (mostrate) durante il mio lavoro. Siate felici e meritevoli».
«Che liberazione» aveva esultato il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, avvertendo, nel bel mezzo della campagna elettorale in vista delle elezioni del prossimo 9 aprile, che «finché sarò qui io, l’Iran non avrà le armi nucleari», ha aggiunto il leader israeliano, in un chiaro messaggio agli elettori in vista delle elezioni del 9 aprile. Più cauto era apparso il segretario di Stato americano, Mike Pompeo: «Ne prendiamo atto, vediamo se le mantiene», aveva affermato in un messaggio su Twitter, ma «in ogni caso lui e (il presidente) Hassan Rouhani sono solo prestanome di una mafia religiosa corrotta. Sappiamo che è (la Guida spirituale) Khamenei a prendere le decisioni finali» e «la nostra politica non è cambiata, il regime deve comportarsi come un Paese normale e rispettare il suo popolo».
«Non do il mio consenso alle sue dimissioni e le considero contrarie agli interessi dello Stato» ha spiegato il Presidente nella lettera con la quale ha respinto le dimissioni rassegnate inaspettatamente dal Ministro, ed ha tenuto a precisare che «Vostra Eccellenza gode della mia fiducia….. Continuate il vostro cammino con coraggio, con forza e ragionevolmente». La decisione di Zarif di lasciare l’incarico era arrivata poche ore dopo la visita a Teheran di lunedì di Bashar al-Assad, la prima dall’inizio della guerra civile in Siria. Il capo della diplomazia si sarebbe risentito per non essere stato invitato all’incontro del leader di Damasco con la Guida Suprema, Ali Khamenei, e con il capo dei Guardiani della Rivoluzione, Qassem Suleimani. In quest’occasione, il presidente siriano aveva ringraziato il governo iraniano per il supporto che l’Iran – a detta dell’ayatollah Khamenei – considera un supporto alla Resistenza, cioè al fronte che si oppone a Stati Uniti ed Israele: «La creazione della zona cuscinetto, che gli americani vogliono stabilire in Siria, è tra quei complotti pericolosi che devono assolutamente essere respinti e contro cui bisogna schierarsi» aveva sottolineato la Guida Suprema.
L’insofferenza di Zarif può essere spiegata nel più ampio contesto del braccio di ferro interno alla Repubblica Islamica tra l’ala moderata, di cui il Ministro è un rappresentante, e quella più conservatrice. Con le dimissioni, il capo della diplomazia intendeva rivendicare le prerogative del ministero degli esteri, ma ancor di più smuovere lo stallo, causato dallo scontro intestino, che ormai caratterizza alcuni dossier. Uno di questi è sicuramente la crisi siriana, la cui gestione è stata fin dall’inizio oggetto di una lotta tra il potere militare, soprattutto le brigate al Qods dei pasdaran, che operano all’estero, e il potere esecutivo, in specie il Ministero degli Esteri. Se nei primi anni aveva prevalso la linea militare e quindi di intervento al fianco del dittatore siriano, col passare del tempo, l’enorme costo economico e politico del supporto ad Assad ha suscitato diverse critiche da parte dell’ala più moderata, convinta della necessità di sviluppare alternative diplomatiche per risolvere la situazione, a maggior ragione dopo le ultime mosse degli Stati Uniti, decisi a lasciare la Siria, ma pronti a costituire un’area cuscinetto ‘profonda 32 chilometri’, al confine con la Turchia. Il fatto di non essere stato invitato al vertice, al quale aveva però partecipato Soleimani, deve aver fatto pensare a Zarif che il ‘vento’ militare potrebbe presto tornare a soffiare sulle iniziative iraniane in Siria – anche perché il sogno della ‘mezzaluna sciita’ da Teheran a Beirut non è mai sopito – e deve averlo spinto a denunciare il suo disaccordo.
Il Ministro degli Esteri è poi al centro della battaglia tra moderati e conservatori circa l’approvazione della normativa per l’anti-riciclaggio e per il contrasto al finanziamento del terrorismo, sulla base delle richieste del Gruppo d’Azione Finanziaria Internazionale (GAFI) dell’OCSE che ad ottobre aveva espresso la delusione il mancato via libera di Teheran alla riforma. Se il governo Rouhani è favorevole all’approvazione della misura per poter mantenere aperti il canale commerciale e bancario con il resto del mondo ed in particolare con l’Europa che sta per rendere operativo il sistema di pagamento INSTEX per aggirare le sanzioni americane, l’area più conservatrice del Consiglio dei guardiani è del tutto contraria, temendo che queste norme possano mettere a repentaglio il sostegno iraniano a diverse milizie all’estero. Lo scorso gennaio, un passo in avanti è stato effettuato dal Consiglio per il discernimento che ha approvato la nuova legge anti-riciclaggio, ma sulla legge contro il finanziamento del terrorismo un’evoluzione non sembra vicina.
Non si può poi non ricordare che Zarif, grande conoscitore dell’Occidente, è stato l’autore, per parte iraniana, della trattativa che ha portato all’accordo sul nucleare JCPOA, da sempre oggetto di controversie tra i più moderati e i più intransigenti i quali accusano il capo della diplomazia di aver svenduto il Paese per aver in cambio un alleggerimento del regime sanzionatorio. Nonostante i Paesi europei, la Russia e Cina continuino a rispettarlo, il ritiro degli Stati Uniti (tra gli organizzatori della recente Conferenza di Varsavia) dall’accordo e la successiva reimposizione delle sanzioni hanno fatto riemergere il divario tra oppositori e sostenitori, come dimostrato da una mozione di diciotto parlamentari, poi decaduta, risalente a non più di dieci giorni fa, per interpellare Rouhani accusato, implicitamente insieme al suo Ministro degli Esteri, di «consumare tutte le capacità diplomatiche del paese per il JCPOA». Tuttavia, per comprendere con maggiore chiarezza le dinamiche che hanno spinto Zarif alle dimissioni, poi respinte, abbiamo chiesto aiuto a Massimo Campanini, noto ed apprezzato islamista, esperto di Medioriente,
La vicenda delle dimissioni di Zarif costituisce l’ennesimo esempio della lotta interna tra l’ala più moderata e quella più conservatrice?
Esatto e lo abbiamo visto già in altre occasioni. Siccome Khamenei, dato per finito molte volte, non muore mai, ci sono delle lotte sotterranee molto intense perché è chiaro che qualora dovesse morire la Guida Suprema, è verosimile che ci sarà un rovesciamento o comunque un tentativo di riscrivere, di rifondare su nuove basi la Repubblica Islamica. Bisogna poi tener conto che la società civile iraniana è molto vivace e molto partecipativa. Da questo punto di vista, è evidente che i successori di Khamenei, rappresentante della vecchia guardia, quindi di un sistema di Repubblica Islamica piuttosto ingessato, dovranno venire alle corte con quelli che, come Rouhani, hanno delle prospettive più riformiste. C’è poi il problema del rapporto con gli Stati Uniti in quanto è innegabile che l’atteggiamento dell’amministrazione Trump di chiusura nei confronti dell’Iran, tenendo conto dell’apertura nei confronti della Corea del Nord – oggi l’incontro ad Hanoi – e dei Talebani, è del tutto pregiudiziale di tipo ideologico, molto influenzato da Israele e non politico o diplomatico con delle prospettive di dialogo. Quindi è certamente verosimile che queste dimissioni siano legate a delle tensioni interne oltre che per decidere chi subentrerà a Khamenei.
Ritiene questa vicenda anche un sintomo del forte contrasto tra il potere esecutivo e il potere ‘militare’?
Così è sempre stato, fin dalle origini. Più che il potere militare, l’elemento condizionante è stato sempre quello dei Pasdaran, ovvero le milizie religiose che hanno sempre avuto una forza militare addirittura maggiore rispetto a quella dell’esercito. Quindi è chiaro che tali milizie rivoluzionarie, che sono di stretta fedeltà khomeinista, hanno sempre avuto, hanno tuttora ed avranno in futuro un ruolo, anche nella successione a Khamenei. Il fatto è che, almeno fino ai tempi di Ahmedinejad, i rapporti tra la Guida Suprema, l’establishment degli Ayatollah e le milizie religiose, non erano sempre cordiali. In questo senso, anche riguardo a queste dimissioni, bisognerebbe in che misura il Ministro degli Esteri, Zarif, era più o meno legato o condizionato, in disaccordo o in armonia, con questa struttura militar-economica – dato il loro rapporto con le ‘bonyad’, ossia le grandi fondazioni che gestiscono il nerbo dell’economia iraniana – che sono i Pasdaran. E’ tutto un sistema di potere economico-militare con una sanzione di tipo religioso che noi, certe volte, data la sua originalità, facciamo fatica a comprendere, anche perché siamo portati a sopravvalutare il ruolo della religione in sé. Religione che c’è, ma, in realtà, in questo discorso, non ha una funzione motrice, ma strumentale a giustificare, ideologicamente, i vari conflitti.
A quanto pare, Zarif avrebbe rassegnato le dimissioni dopo essersi risentito per non essere stato invitato all’incontro tra la Guida Suprema Khamenei, il comandante delle brigate al Qods dei Pasdaran oltre che responsabile del dossier siriano, il generale Qassem Soleimani, e il presidente siriano Bashar al-Assad. Questa circostanza dimostra che all’interno della Repubblica Islamica non c’è accordo sulla linea da seguire in Siria?
Certo, ma questo perché inevitabilmente la linea da tenere in Siria implica un riferimento alla più ampia e globale politica degli Stati Uniti nella zona. E’ recente, tra l’altro, la decisione di Trump di andare via dalla Siria. Decisione che, secondo me, nonostante l’ambiguità diplomatica, è stata concordata con Putin. Ad ogni modo, però, la decisione di Trump di andare via dalla Siria è una decisione abbastanza sorprendente anche perché lì la situazione, obiettivamente, non è risolta. E la scelta dell’amministrazione americana spiana la strada, inevitabilmente, a Putin. Il mancato invito del Ministro degli Esteri implica che Zarif non sia ben visto da questo establishment. Quindi è presumibile che ci siano delle linee politiche diverse che i due blocchi vorrebbero seguire e se Zarif non è stato invitato ad un incontro in cui era presente Bashar al-Assad vuol dire che Zarif non è così favorevole al fatto che ci siano dei legami molto stretti tra la Siria e l’Iran. Il che fa presumere che Zarif è più favorevole ad un’apertura nei confronti di Israele e degli Stati Uniti di quanto lo è l’establishment.
Non si può, poi, non ricordare che il controverso ‘accordo sul nucleare’, dal quale gli Stati si sono ritirati a differenza dei Paesi europei, della Cina e della Russia che continuano a rispettarlo, è il ‘capolavoro’ della diplomazia di Zarif. La reintroduzione delle sanzioni da parte americana ha riacceso il dibattito interno alla Repubblica Islamica ed ha aumentato le pressioni sul governo, soprattutto sul Ministro degli Esteri.
Anche se è del tutto ipotetico, i pezzi del puzzle sono ben messi e il quadro sembra tornare. Anche questa storia delle sanzioni è una vera idiozia perché l’Iran non ha la possibilità né ha, a mio avviso, l’intenzione di dotarsi della bomba atomica. Ecco che la dialettica sembra essere proprio questa e cioè uno Zarif che, avendo contrattato positivamente un allentamento delle sanzioni, appare più favorevole ad una maggiore apertura nei confronti dell’Occidente piuttosto che nei confronti di un Bashar al-Assad che è manovrato da Putin e quindi in contatto con l’ala più oppositiva nei confronti dell’Occidente.
Senza Zarif, quindi, l’accordo sul nucleare iraniano sarebbe seriamente in pericolo. E’ anche per questo, dunque, che Rouhani è stato costretto a respingere le dimissioni di un Ministro che, per certi versi, è un emblema della sua azione di governo?
Certo perché se questo vertice tra Bashar al-Assad, che, secondo me, ha adesso alle sue spalle Putin, e la dirigenza religiosa, evidentemente più dura nei confronti dell’Occidente, è del tutto chiaro che l’accordo sul nucleare iraniano è divenuto merce di scambio, di dialettica, di conflitto. L’establishment vorrà proseguire sulla linea più dura su questo accordo mentre, dall’altra parte, c’è un’area della politica iraniana che sarebbe più favorevole ad un allentamento delle tensioni, ma che, al momento, come dimostra l’episodio di Zarif, pare essere in minoranza. Questo vuol dire che l’establishment è ancora sufficientemente saldo da poter dettare l’agenda.
C’è poi la questione dell’approvazione della normativa sull’antiriciclaggio e sul contrasto al finanziamento del terrorismo, come richiesto dal Gruppo d’Azione Finanziaria Internazionale dell’OCSE. Anche questa battaglia contribuisce ad aumentare le tensioni tra, da una parte, il governo, nella fattispecie Zarif, e, dall’altra, le frange più conservatrici e gli stessi Pasdaran?
Certamente. I conti sembrano tornare secondo quella dialettica che stiamo descrivendo.
Le dimissioni sono state respinte dal Presidente Rouhani, ma questo non vuol dire che le tensioni siano finite. E’ corretto?
Assolutamente sì, anche perché il problema è che, in Iran, il Presidente della Repubblica, avendo una funzione e un ruolo abbastanza ambiguo nel senso che è eletto a suffragio universale e popolare, ma, in realtà, deve piacere all’establishment religioso e politico, si trova un po’ tra due fuochi. Questo è stato anche identificato da molti esperti come il motivo del fallimento di Khatami, quando questi sembrava dovesse rivoluzionare la Repubblica. La questione di fondo è che l’ambiguità del ruolo del Presidente della Repubblica, legittimato dalla volontà popolare, ma che, però, non può muoversi se non ha l’approvazione da parte delle strutture politico-religiose, ne svuota la capacità decisionale. In questo senso, Rouhani, che è sicuramente un moderato ed un riformista, fa il bel gesto di rifiutare le dimissioni di Zarif, ma poi bisognerà vedere quanto Rouhani è in grado di controllare le dinamiche interne al governo e i rapporti tra il governo e il Parlamento, la Guida Suprema e l’entourage di quest’ultima. Nel complesso sistema istituzionale che c’è in Iran di controlli reciproci tra la Guida Suprema e il Consiglio degli Esperti, tra il Consiglio dei Guardiani e il Parlamento, il Presidente della Repubblica sembra tanto un vaso di coccio tra vasi di ferro.
Zarif riprende il suo posto. Ma, da Ministro, a livello interno e a livello estero, torna più rafforzato?
A livello interno direi proprio di no. A livello estero magari sì, però queste sono dinamiche in cui il livello interno è più importante del livello estero. E poi, se veramente non è stato invitato ad un incontro tra Bashar al-Assad, i Pasdaran e Khamenei, questo ne mina la credibilità, anche se gli sono state rifiutate le dimissioni. Può essere un bene per gli Stati Uniti, Israele che Zarif sia rimasto al suo posto? E’ difficile dirlo anche perché siamo proprio sicuri che a Stati Uniti e ad Israele torni più utile un governo moderato piuttosto che un governo più aggressivo?