«Chiedo ai membri di essere razionali e saggi mentre affrontano le questioni nazionali»

 

«Bisogna contribuire alla stabilizzazione della Libia, i Paesi instabili diventano un’occasione per i gruppi terroristici che vi cercano spazio». Lo ha dichiarato il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte a Niamey, durante la visita ufficiale in Niger e Ciad. Poche settimane prime, lo stesso premier italiano aveva auspicato che «il 2019 fosse l’anno della svolta».

Stando a quanto sta accadendo nelle ultime ore, potrebbe esserlo, ma non si sa in che modo. Infatti, nel corso del fine settimana, tre vice del premier del Consiglio libico, ovvero Ahmed MaiteeqAbdul Salam e KajmanFathi Magbari,  hanno pubblicamente sfiduciato l’operato di Fayez Al-Sarraj: l’accusa rivoltagli, sostanzialmente, consiste non solo nell’incapacità gestire il dossier della sicurezza, ma anche di agire in modo individuale, senza rendere partecipi i vice delle sue decisioni. Tale comportamento, secondo i tre vice, violerebbe l’accordo che è alla base del Governo di accordo nazionale e del Consiglio presidenziale e sarebbe a rischio la stessa intesa su cui si basa la fragile esperienza del governo di Tripoli. In altre parole, l’azione di governo di Sarraj non avrebbe rispettato gli accordi di Skirat, firmati il 17 dicembre 2015, che comprendevano sviluppo, la lotta al terrorismo, all’immigrazione clandestina e ai trafficanti di persone oltre che, ovviamente, una pacifica transizione che avesse come obiettivo un nuovo inizio democratico. Il risultato ‘di politiche governative mal concepite e azioni irresponsabili’ senza alcuna consultazione condivisa – sostengono Meitiq, Magbari e Kajman – è stato, bensì,  solo instabilità che rischia di portare il paese «verso l’ignoto e ad un nuovo scontro armato tra fazioni». Non più tardi della scorsa settimana, sempre i tre vice avevano esortato il governatore della Banca Centrale della Libia e il capo dell’Audit Bureau libico a non dare il via libera alla decisione di Serraj di nominare Suleiman Al-Shanti come capo della Autority per il Controllo Amministrativo.

Proprio all’inizio del nuovo anno, Maria Ribeiro, la coordinatrice umanitaria delle Nazioni Unite per la Libia, non aveva nascosto la sua preoccupazione per le tensioni a Derna tanto da chiedere «fermamente un accesso umanitario incondizionato, senza ostacoli e duraturo ai civili colpiti». Già a dicembre, un triplice attentato terroristico aveva colpito più o meno nelle stesse ore un ospedale di Bengasi, il ministero degli Esteri nella capitale e un nosocomio di Tripoli.

Dal canto suo, il capo del Consiglio presidenziale (PC), Sarraj ha risposto alle accuse rimandandole al mittente e rimarcando come siano alcuni membri del PC ad iniziare i conflitti all’interno del PC invece di lasciarli al di fuori di esso. In un’intervista rilasciata all’emittente TV ‘TRT’, è arrivato ad affermare che alcuni partiti libici sarebbero desiderosi di mantenere lo status quo attuale nel paese. Per questo – ha chiesto il premier – «chiedo ai membri di essere razionali e saggi mentre affrontano le questioni nazionali», mettendo da parte gli estremismi e le rigidità ideologiche. E poi, «non credo che gli attuali conflitti politici possano diventare violenti», ha assicurato Al-Sarraj, spiegando che non ci possono essere elezioni in Libia fino all’adozione della base costituzionale. E’ dunque necessario «trovare un quadro costituzionale per le elezioni prima che vengano fissate».

In realtà, secondo osservatori e fonti riservate, dietro alla frattura in seno al Consiglio Presidenziale, vi sarebbero ben altri interessi rispetto alla motivazione ufficiale: ad esempio, la spartizione degli introiti del petrolio e della nuova maxi imposta del 183 per cento sulla vendita di valuta estera introdotta nel 2018 che ha già fatto incassare più di dieci miliardi di dinari. Cifre da capogiro, dunque. Se prendiamo i ricavi da petrolio, nel 2018 si sono attestati a 24,5 miliardi di dollari,  in aumento del 78% rispetto all’anno precedente. La compagnia petrolifera statale NOC guidata da Mustafa Sanalla punta ad aumentare la produzione a 2,1 milioni di barili al giorno entro il 2021. Attualmente, ricorda Reuters, la Libia produce circa 950.000 barili al giorno, meno della sua capacità di guerra pre-civile di 1,6 milioni di barili, poiché il più grande giacimento di petrolio del paese El Sharara rimane chiuso da quando è stato occupato l’8 dicembre da tribù, manifestanti armati e guardie statali che chiedevano il pagamento dello stipendio e fondi di sviluppo. L’aumento dei proventi da petrolio (nonostante l’insicurezza che caratterizza le strutture, ancora bersaglio di attentati e attacchi) – certifica la Banca Centrale – ha ridotto il deficit di bilancio libico a 4,6 miliardi di dinari (3,32 miliardi di dollari) nel 2018 rispetto ai 10,6 miliardi di dinari nel 2017 grazie a un aumento delle entrate petrolifere. In questo senso, le risorse provenienti dal petrolio fanno gola a tutti: lo si è visto già nel giugno 2018, quando Haftar ha conquistato militarmente i terminal della ‘mezzaluna petrolifera’ libica e, successivamente, la Banca Centrale, attraverso la quale transitano gli stipendi dei funzionari pubblici e delle milizie, sia nell’Est che nell’Ovest del Paese.

Occorre, poi, fare una digressione riguardo chi sono i tre vice che hanno sfiduciato Sarraj. Ahmed Maiteeq è un imprenditore 47enne di Misurata (nota per le potenti milizie che dalla caduta di Gheddafi fino ad oggi hanno acquisito sempre più peso), formalmente non legato ad alcuna forza politica, era stato eletto primo ministro nel maggio del 2014, ma la nomina ben vista dalla Fratellanza musulmana, era stata rifiutata dalla Corte suprema il mese successivo. Due anni dopo, Maiteeq diventa vicepresidente del Consiglio presidenziale e vicepremier del Governo di accordo nazionale. Proveniente dal Fezzan, Abdel Salam Kajman inizia la sua attività politica con la Fratellanza musulmana e fino al febbraio 2018 membro del partito di Giustizia e Costruzione. Ha sempre dichiarato la sua opposizione ad alcune decisioni del capo del governo così come ha più volte ribadito la carenza di attenzione dell’esecutivo rispetto alla guerra tra tribù che devasta il sud del Paese. Guerra che non ha altro scopo che il controllo dei traffici illeciti di armi, droga ed essere umani e che, purtroppo, è fomentata dal mancato rispetto, di cui è colpevole anche l’Italia, degli accordi siglati a Roma il 31 marzo 2017 tra i capi delle principali tribù. Il più controverso è, invece, Fathi al Majburi, considerato vicino alle Guardie delle strutture petrolifere guidate da Ibrahim Jadhran e da molti accusato di essere il responsabile di ingenti danni economici inferti alla Libia tramite attentati ai terminal petroliferi, come accaduto, per sfilarli alla controparte di Tobruk, nel giugno 2018 a Sidra e Ras Lanuf. Inoltre Jadran è accusato, a detta del portavoce dell’Lna, Ahmed al Mismari, di aver ricevuto circa 100 milioni di dinari libici dal Qatar per finanziare la riconquista delle strutture petrolifere. Il che è stato sempre negato da Doha, ma non ha impedito alla magistratura libica di indagare lo stesso Jadran e di spiccare un mandato di cattura per il suo fedele, Abdulhakim Belhaj. ex comandante del gruppo combattente islamico libico, sodale della Fratellanza musulmana, e attivo anche contro il regime di Gheddafi.

Colpisce che ad accomunare, in modo più o meno evidente, i tre ‘sfidanti’ di Sarraj, sia la vicinanza alla Fratellanza musulmana, rinvigorita, per esempio, dal recente arrivo a Misurata di navi cargo colme di armi turche. Proprio la Turchia, insieme al Qatar, sono sostenitori dei Fratelli musulmani e delle maggiori milizie che imperversano nella Tripolitania, E, non a caso, proprio nelle stesse ore della sfiducia da parte dei tre vice, sono scoppiate polemiche contro Serraj anche al summit sullo sviluppo economico e sociale della Lega Araba del 12 gennaio, durante il quale la delegazione libica arrivata per l’incontro è stata duramente criticata da parte libanese in quanto considerata meno legittima rispetto, ad esempio, alla rappresentanza siriana, di presenziare alla riunione.

A spiccare nella frattura interna al PC, la figura di Maiteeq che lunedì, 14 gennaio, ha incontrato l’inviato speciale delle Nazioni Unite in Libia, Ghassan Salameh, e il suo vice con delega agli affari politici, la diplomatica statunitense Stephan Williams. Salameh che, nel weekend, è volato nel sud del paese, a Sabha, nella sua prima visita ufficiale dalla nomina, e in questa circostanza ha criticato, seppur velatamente, gli organi istituzionali esistenti, descrivendoli «poco performanti e il loro lavoro non è all’altezza degli standard richiesti. E’ tempo di cercare alternative. La settimana prossima porterà reali cambiamenti in Libia».

Certo, che il cammino verso le elezioni fosse disseminato di ostacoli e trappole non era cosa imprevedibile. Anzi già lo aveva messo in chiaro Salameh, al termine della Conferenza di Palermo, dove non si era andati molto oltre una condivisione di intenti. Ciononostante, la stabilità della Libia non sembra ancora essere un obiettivo a portata di mano. Salameh, partecipando alla conferenza siciliana, aveva annunciato di voler convocare entro la fine del gennaio 2019 l’Assembla Nazionale, definendola «un importante momento di dialogo tra i massimi esponenti della società civile libica in preparazione delle elezioni generali». Assemblea che dovrebbe essere composta da 140 membri, dei quali: 43 delle rappresentanze delle 22 province e dei maggiori consigli comunali; 31 dei partiti politici; 18 militari, tra cui esponenti delle più importanti milizie della Tripolitania e dell’esercito di Haftar; 12 del Parlamento; 6 dell’Alto Consiglio di Stato; 6 della Costituente. Ma regna ancora molta confusione sul chi e sul come debba sedere nell’Assemblea così come aumenta progressivamente la tensione nei Parlamenti.

Al contempo, si avvicina il referendum costituzionale, prima tappa della road map definita dalle Nazioni Unite nella direzione delle elezioni parlamentari e presidenziali (sulle quali incombe la possibile candidatura di Saif al-Islam Gheddafi), puntando sul riconoscimento del governo di Sarraj e sul coinvolgimento di Khalifa Haftar, dominus della Cirenaica. Come ribadito all’evento nel capoluogo siciliano, le Nazioni Unite  appoggiano la creazione di un unico esercito nazionale e un accentramento del potere. Il tutto non potrebbe prescindere dalla fissazione di elezioni, secondo l’ONU, nella primavera del 2019 che dovrebbero dare vita ad un nuovo organo legislativo e alla sostituzione del Parlamento di Tobruk e anche dell’Alto Consiglio di Stato di Tripoli. Il nuovo Parlamento sarebbe, a quel punto, chiamato ad emendare la Costituzione vigente e scrivere una legge elettorale per le presidenziali, così da tirare fuori finalmente la Libia all’embargo recentemente rinnovato dall’Onu fino al 2020.

Pochi giorni fa, il presidente dell’Alta Commissione elettorale nazionale libica,Emad al Sayeh, dopo un incontro a Tobruk con il presidente della Camera dei rappresentanti (HoR) Aqilah Saleh, ha confermato che la consultazione referendaria dovrebbe tenersi entro la fine di febbraio. Mancherebbe solamente l’erogazione dei 40 milioni di dinari libici (circa 25 milioni di dollari) dollari necessari ad installare duemila seggi elettorali in tutto il paese. Al referendum, dunque, i libici dovrebbero esprimersi sulla bozza di Costituzione del 29 luglio 2017, nella quale, tra le altre cose, all’articolo 106, viene stabilito che il presidente della Repubblica assumerà il comando supremo delle Forze armate. Va detto che, secondo la regola approvata dal Parlamento di Tobruk, il quorum minimo dovrebbe essere del 50+1 in Tripolitania, Fezzan, Cirenaica e due terzi al livello nazionale. Trattasi di un quorum molto alto che, secondo molti, sarebbe stato voluto proprio per far saltare il voto. Inoltre, l’anomalia per la quale questa legge sia stata approvata il 26 novembre 2018 durante una votazione alla quale erano presenti solo 104 deputati, mentre il quorum minimo richiesto fosse di 114, potrebbe costituire un intralcio? No, sostiene al Sayeh.

In caso di fallimento, come detto, per iniziare a sbrogliare la matassa e quindi risolvere i nodi principali, rimane la grande assemblea, la conferenza nazionale aperta a tutti gli attori libici, anche ai seguaci del Rais, Muhammar Gheddafi, così come esponenti delle forze di Haftar che, nel frattempo, stanno consolidando la presa nel Fezzan, dove, stando a quanto comunicato dal Ahmed al-Mismari, portavoce dell’autoproclamato Esercito nazionale libico, il generale ha inviato rinforzi per dare la caccia ai terroristi dello Stato islamico e di al-Qaeda, ma anche ai ribelli di Ciad, Sudan e Niger. Il primo ministro del governo libico ad interim di Tobruk con base nella località orientale di Al Baida, Abdullah Al Thinni, ha consegnato nei giorni scorsi armi e attrezzature alle forze di sicurezza del sud del paese.

 «La situazione in Libia continua a riservare nuovi colpi di scena, ammesso che la sfiducia da parte di Serraj ad opera dei suoi vice possa considerarsi tale. Su tale vicenda, che vede coinvolta in larga parte l’Italia se non altro per la scelta degli interlocutori che negli scorsi anni ha inteso darsi – da un lato lo stesso Sarraj e, dall’altro, il rapporto privilegiato dell’era Gentiloni con il vicepresidente misuratino Maiteeq – rischia di frantumarsi ancor più il quadro complessivo. Sebbene appaia già evidente fin dalle rivolte dello scorso mese di agosto la precarietà di Sarraj, è oggi evidente la sua delegittimazione e quella dell’intero governo, vice inclusi. Con un indebolimento della Tripolitania il rischio di una nuova guerra civile aumenta sensibilmente e le tentazioni di ‘risolvere’ l’intera partita libica con il ricorso alle armi, nonostante i freni della comunità internazionali e dei paesi interessati, rischia di essere più di un’opzione. A proposito, ma il Premier Conte non aveva dichiarato che dopo la Conferenza di Palermo la situazione in Libia era in via di soluzione? La politica estera richiede serietà e prudenza, merce che in questo momento sembra non abbondare in certe stanze di Palazzo Chigi» ha commentato Stefania Craxi, senatrice di Forza Italia (FI) e vicepresidente della Commissione Affari esteri.

Per l’Italia, la sfiducia di al Sarraj è sicuramente una grana. E’ vero che, in misura sempre maggiore, anche per contenere l’iniziativa di Parigi e tentare di far fronte all’ormai centrale questione migratoria, Roma ha portato avanti il dialogo tanto con Sarraj quanto con Haftar, come testimoniato dalla stessa Conferenza di Palermo e dall’ultimo viaggio del premier Conte in Libia a dicembre. Peraltro, tra parentesi, in questa circostanza, Enav si è aggiudicata un contratto da 2 milioni di euro da parte dell’Autorità per l’aviazione civile libica per la modernizzazione delle apparecchiature nella torre di controllo dell’aeroporto internazionale di Tripoli. Ciò detto, Conte ha affermato che «non vogliamo decidere le sorti del popolo libico, ma siamo un Paese che ha a cuore le sorti del popolo libico ed è questa la ragione per cui ci siamo incontrati a novembre a Palermo e per cui oggi sono qui. C’è una premura da parte dell’Italia di offrire un contributo affinché possiate trovare un percorso di pace e di stabilità». Parole d’ordine che vengono anche dagli Stati Uniti di Donald Trump, poco interessati alle dinamiche interne libiche quanto piuttosto al non dilagare del terrorismo islamico. Ecco che, un approccio internazionale, o meglio europeo, comune e coerente appare imprescindibile, soprattutto in un momento delicato come quello attuale nel quale lo scricchiolio del governo di Sarraj potrebbe tramutarsi in qualcosa di peggiore, facendo crollare tutto quanto costruito fino ad oggi e rigettando il Paese nel caos. Con tutte le conseguenze che questo può avere per l’Europa.