Cosa ci insegnano queste elezioni? Quali gli scenari futuri?
Un «eccezionale successo stanotte». Così Donald Trump ha definito il voto midterm tenutosi ieri. I cittadini americani erano chiamati a rinnovare la Camera, composta da 435 deputati; un terzo del Senato, 35; e i governatori di 36 Stati su 50. I Repubblicani tengono la maggioranza in Senato (51 a 44), ma perdono quella alla Camera (220 seggi contro 193), riconquistata dai Democratici. Per quanto riguarda i governatori, 18 vanno ai Dem contro i 15 sui Repubblicani. «Abbiamo fermato l’onda blu» nonostante le «fake news» della stampa, esulta il Presidente.
Del resto, il risultato sorprende, ma non negativamente. Infatti, sostiene lo speaker repubblicano alla Camera, Paul Ryan: «La storia si ripete. Un partito al potere deve sempre affrontare sfide difficili nelle sue prime elezioni di medio termine». Anche 8 anni fa, a metà del mandato di Barack Obama, i Dem persero 63 seggi (su 69) proprio al Senato. Rare sono state le eccezioni, soprattutto in momenti particolari: solo con Roosvelt, Johnson e George W. Bush il partito che esprimeva il Presidente, aveva vinto le midterm. Inoltre, l’affluenza, in misura maggiore tra giovani e donne, è stata record e, a fronte di questo, probabilmente dovuto alla forte polarizzazione della società statunitense, Ryan ha concluso: «Non serve un’elezione per sapere che siamo una nazione divisa, e ora abbiamo una Washington divisa. Come Paese e come governo dobbiamo cercare un terreno comune».
In molti sostengono che per gli Stati Uniti inizi lo ‘stallo’. La Camera nelle mani dei Democratici costituisce un ostacolo non indifferente per Trump che si potrebbe trasformare in un’’anatra zoppa’: certo, in ballo c’è l’indagine sul ‘Russiagate’ e, attraverso le commissioni dell’Assemblea, potrebbero essere avviate nuove indagini, magari fiscali, sull’ inquilino della Casa Bianca: «Voglio vederci chiaro in tutte le cose che il presidente ha fatto che vanno contro il mandato dei Padri Fondatori nella Costituzione», ha affermato Elijah Cummings, democratico del Maryland, destinato a presiedere la Commissione alla Camera per la Supervisione e le Riforme del Governo. Non si dimentichi il fatto che l’iniziativa legislativa della Casa Bianca potrebbe essere ostacolata. Come sostiene la leader alla Camera, Nancy Pelosi, candidata a divenire nuovamente speaker, «domani sarà un nuovo giorno in America» e il controllo della Camera permetterà di «ripristinare i controlli e gli equilibri costituzionali sull’amministrazione Trump». Tuttavia, un seppur contenuto rafforzamento democratico non implica, automaticamente, per il Presidente, il rischio impeachment la cui procedura è, secondo legge, avviata dalla Camera, oggi a maggioranza democratica, ma spetta al Senato (almeno due terzi) dire l’ultima parola. L’iter naufragherebbe contro la maggioranza repubblicana. Peraltro, sulla questione, i democratici non hanno pareri unanimi e sembrano preoccupati, dato il non impossibile effetto positivo per Trump qualora si decidesse di procedere, come accaduto in passato.
Se, da un lato, per i Democratici tramonta la possibilità di cambiare la rotta del tycoon in merito alla giustizia e alla Corte Suprema i cui giudici sono nominati dal Presidente, ma confermati dal Senato, dall’altro, difendere l’Obamacare, imbrigliare l’estremismo trumpiano sull’immigrazione, tentare di smantellare la riforma fiscale potrebbero essere gli obiettivi principali. Il Partito
Ciò detto, il Partito Democratico ha perso in Ohio, dove il repubblicano Mike DeWine ha sconfitto l’obamiano Richard Cordray; in Nevada dove il democratico Steve Sisolak prenderà il posto del repubblicano Brian Sandoval. Vittorie scontate dei democratici Andrew Cuomo a New York e Tom Wolf in Pennsylvania. Più eclatante la vittoria in Kansas, tradizionalmente repubblicano, di Laura Kelly che ha battuto Kris Kobach. Michelle Lujan Grisham sostituirà il repubblicano Steve Pearce in New Mexico mentre Jared Polis, in Colorado, sarà il primo governatore apertamente gay. In Michigan la dem Gretchen Whitmerha messo fuori gioco il repubblicano Bill Schuette, diventando la seconda donna governatrice dello Stato e J.B. Pritzker conquista il governatorato dell’Illinois. In Wisconsin, il governatore repubblicano uscente Scott Walker viene battuto dal demoratico Tony Evers.
I repubblicani, invece, conquistano i governatori di due Stati tradizionalmente democratici: Larry Hogan in Maryland e Charlie Baker in Massachusetts. Il rappresentante del North Dakota, Kevin Cramer, e l’imprenditore dell’Indiana Mike Braun – entrambi alleati devoti del capo della Casa Bianca – hanno ottenuto seggi che erano dei democratici, sconfiggendo rispettivamente Heidi Heitkamp e Joe Donnelly. In Tennessee, Marsha Blackburn, repubblicana e trumpiana, ha battuto Phil Bredesen, che si era opposto alla politica dei dazi di Trump. Fondamentale è stato l’impegno del Presidente in carica nel rush finale della campagna elettorale: questo ha permesso, in Texas, l’ex avversario di Trump, Ted Cruz, ha battuto Beto O’Rourke.
Centrali nel risultato elettorale, i giovani, le minoranze e le donne. Complice anche il fenomeno Metoo, nell’era del testosterone imperante in politica, una vera rivoluzione: almeno 92 sono le donne siederanno sugli scranni, tra cui 28 nuove elette, in larghissima parte democratiche. Tra queste Alexandra Ocasio-Cortez, la più giovane parlamentare nella storia, Ilhan Omar e Rashida Tlaib, le prime due parlamentari musulmane, Ayanna Pressley, la prima donna di colore eletta in Congresso in Massachusetts, Sylvia Garcia e Veronica Escobar, le prime due ispaniche a conquistare il seggio in rappresentanza del Texas, Deb Haaland in New Mexico e Sharice Davids in Kansas sono invece le prime donne native americane ad entrare al Congresso. In Senato sono 11 le donne elette, compresa la neo-nominata Marsha Blackburn, repubblicana, che ha sconfitto il democratico Phil Bredesen, già governatore del Tennessee. L’’onda rosa’ riguarda anche i governatori, con 9 donne vincitrici.
Ed ora cosa succederà? Si inasprirà il contrasto tra Repubblicani e Democratici? Cambierà la politica interna o la politica estera? Lo abbiamo chiesto al Professor Daniele Fiorentino, docente di Storia e Istituzioni degli Stati Uniti d’ America presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Roma Tre.
Come alle presidenziali, a causa della legge elettorale, 10 milioni di voti in più non sono bastati. L’ ‘onda democratica’ – definita da Trump un’«increspatura» – è riuscita ad aggiudicarsi la maggioranza alla Camera, mentre il ‘muro repubblicano’ ha tenuto in Senato. Il Presidente rivendica un «eccezionale successo», ma davvero così oppure è diventato un’’anatra zoppa’?
Che Trump lo rivendicasse come un successo non credo ci fossero dubbi. Dal punto di vista della politica americana, direi che è il segnale della radicalizzazione dello scontro politico dove abbiamo la Camera e il Senato con due maggioranze diverse e quindi un Congresso diviso. Il che costituisce una complicazione ulteriore: per esempio, il passaggio dei progetti di legge diventa molto più difficile perché essendoci due maggioranze, si esprimeranno lungo due linee politiche diverse. È sintomo della radicalizzazione dello scontro politico voluta da Trump stesso. Inoltre bisogna considerare che il Senato doveva essere rinnovato solo per un terzo ed era difficile aspettarsi che i democratici riuscissero a vincere anche lì. D’altra parte, il successo alla Camera dei Democratici è un successo pieno, ma non è quell’ondata che ci si attendeva. Questo vale anche per i governatori. In una valutazione generale del voto, c’è dunque un ritorno alla partecipazione politica e una polarizzazione dello scontro tra i due partiti sulla quale i Democratici hanno molto puntato, visto che Trump, nel 2016, vinse anche per la forte astensione. Non direi di un successo di Trump, ma di una messa in discussione che vale anche per i Repubblicani. Bisognerà vedere se è una vittoria di misura oppure no. Certamente sarà una complicazione anche per far approvare i disegni di legge.
Cosa si evince guardando la cartina del voto? C’è stato qualcosa di inaspettato?
Non c’è stato niente di eclatante. Direi solo due elementi: i governatori di Michigan e Kansas che potevano essere repubblicani, ma poi sono andati ai Democratici. In particolare il Kansas se l’è aggiudicato, per la prima volta, una donna democratica. E questo è un esempio della grande importanza della partecipazione femminile al voto e alle candidature. Sarebbe stato veramente eclatante se i Dem avessero conquistato anche Florida e Texas. Il mare di rosso che sta tra centro e sud nelle cartine americane, adesso, comincia avere delle macchie di blu. E questo potrebbe far presagire un cambiamento? Difficile dirlo anche perché Trump credo sia ancora in sella, ma con una presenza che disturba alla Camera.
«Se i democratici penseranno di sprecare i soldi dei contribuenti, avviando un’indagine su di noi alla Camera, allora anche noi saremo costretti a considerare di indagarli al Senato per tutte le fughe d’informazioni classificate» ha twittato Trump. Posto che il rischio impeachment, la cui procedura può essere avviata dalla Camera, qualora le indagini giungessero a qualcosa di concreto, è pari a zero data la maggioranza repubblicana al Senato, il Presidente rifiuterà la mediazione ricorrendo, ad esempio, agli ‘ordini esecutivi’ oppure è possibile, come da lui stesso auspicato, un dialogo tra Dem e Repubblicani, nonostante il dibattito pubblico sia così polarizzato?
Lo trovo molto difficile anche perché Trump cercherà di evitarlo. Non va dimenticato che le iniziative legislative partono soprattutto dalla Camera, quindi tenderei a dire che il Presidente ricorrerà con maggior frequenza agli ‘ordini esecutivi’ e dovrà in qualche modo limitare la sua politica di smantellamento, ad esempio, nel campo della sanità e, in qualche misura, sull’immigrazione. Trump spaventa i suoi cittadini in Texas con la minaccia della violenza dei latinoamericani. C’erano in gioco alcuni argomenti centrali e i Democratici hanno molto insistito sulla questione sanitaria, anche considerando la debolezza sul fronte dell’immigrazione. Non vedo una possibilità di dialogo al momento: perfino Obama fallì e la politica americana è polarizzata dalla fine degli anni ’90 e con l’ascesa neocon di George W. Bush. Trump ha inasprito il dibattito e bisognerà vedere se in questo pagherà più i democratici che i repubblicani.
In che misura hanno favorito i Democratici l’attivismo dell’ex Presidente Barack Obama, la partecipazione femminile, le minoranze e i giovani?
Sicuramente il fattore principale che ha favorito i Democratici è costituito, per la prima volta, dalle donne: questa volta le donne hanno scelto e il loro voto è andato soprattutto a donne, anche di minoranza. Si veda l’esempio clamoroso di New York con Alexandria Ocasio Ortez oppure la presenza di due giovani donne musulmane per la prima volta nel Congresso degli Stati Uniti. Sicuramente, ha giocato un ruolo anche l’insofferenza verso Trump e, da questo punto di vista, il contraltare di Obama, la cui presenza ha avvantaggiato i Democratici alla Camera. In ultima istanza, i giovani e i gruppi etnici: in particolare, gli afroamericani sono stati cruciali, come era successo all’epoca di Obama. Il che significa che c’è un gruppo etnico, quello afroamericano, che fa la differenza. Indubbiamente anche i latinos nei Paesi di confine con il Messico: è interessante che in quei luoghi la maggior parte dei voti siano andati ai Democratici. È un segnale importante in quanto è proprio lì che Trump vuole il muro.
Quindi è andando su posizioni più radicali che i Dem sono riusciti a riconquistare la Camera?
Direi proprio di sì. In molti Stati hanno presentato un programma liberal-radicale. E questo ha pagato.
Quanto è stato importante, per il mantenimento della maggioranza in Senato da parte dei Repubblicani, l’attivismo di Trump?
Tantissimo. Ad esempio nel caso di Ted Cruze: probabilmente non avrebbe raccolto i voti in Texas se Trump non fosse andato a sostenerlo. È vero che i Democratici hanno perso due seggi importanti al Senato, ma ricordiamoci che era molto difficile a strapparlo ai Repubblicani data l’ampia maggioranza. Quindi i fattori sono molteplici.
Obama ha detto che «la vittoria con cui i democratici si sono presi la Camera è solo l’inizio per i Dem». Ma, dovendo descrivere lo stato attuale dei Democratici, si può dire che appaiono Divisi e privi di figure in grado di assumere la leadership?
Sì, ma direi che è un po’ lo stato dei partiti in generale, anche in Europa. Pure il Partito repubblicano è in crisi tant’è vero che è dovuto ricorrere ad un personaggio come Trump che era un outsider. Il Partito democratico ricalca un po’ le caratteristiche dei partiti della sinistra europea: spaccature interne, falliti tentativi di conciliazione. Il fatto che ci siano ancora personaggi come Sanders e Clinton che hanno ancora alcune delle frange del partito in mano è inquietante: a distanza di due anni da una sconfitta significativa, il Partito si sarebbe dovuto ricomporre intorno a dei nomi nuovi che, però, non ci sono tanto. Leader emergenti al momento non se ne vedono. Sembrava che queste elezioni potessero dare un’idea di dove era indirizzata la politica americana, invece penso che Trump ne abbia ancora per un po’: non escluderei, a meno di grandi colpi di scena dei prossimi due anni, che possa addirittura vincere di nuovo la presidenza nel 2020 e, in prospettiva, a quel punto, con un Congresso a forte maggioranza democratica.
Da questo punto di vista, fare la guerra a Trump (con indagini, ecc.) non può funzionare come collante per rimettere insieme i cocci dei Democratici?
Non credo proprio possa funzionare perché non si può ricostruire un partito in funzione ‘anti’. Dove hanno vinto i Democratici? Dove ci sono stati progetti e proposte concreti, dove i cittadini sanno cosa stanno votando. Certo Trump riesce a catturare voti, però, d’altra parte, se non c’è la grande personalità, occorre puntare ai programmi. E questa può essere la forza del Partito Democratico.
E il Partito Repubblicano come può risolvere i propri dissidi interni, tra pro e contro Trump?
Di dissidi ce ne sono tantissimi anche lì e le tensioni non mancano anche tra gli anti-Trump. I trumpiani non sono poi così tanti e se lo sono è, molto spesso, perché ora conviene farlo, magari per farsi rieleggere. Ma i trumpiani durano finché dura Trump. Non è un gruppo in grado di guidare i Repubblicani in futuro. Quindi anche il Partito repubblicano farebbe bene a pensare al dopo-Trump. Hanno anche loro bisogno di riorganizzare le fila.
Trump rimane un outsider per i Repubblicani?
Lo è meno. È riuscito ad attirare verso di sé alcuni nomi importanti, ma non credo possa durare. Trump sta attraversando il momento più forte della sua presidenza, ma già queste le elezioni di midterm lo indeboliscono. E rischia di indebolirsi ancora di più: ecco perché può essere che vinca di nuovo lui, ma non è detto che porti alla vittoria i Repubblicani al Congresso.
«Le amministrazioni normalmente fanno cambiamenti dopo midterm» avrebbe confidato ai cronisti qualche giorno fa Trump che nelle ultime ore ha twittato: «Quelli che hanno lavorato con me in queste incredibili elezioni di midterm, abbracciando certe politiche e principi, hanno fatto molto bene. Quelli che non l’hanno fatto, addio! Ieri è stata una vittoria così grande, e tutto sotto la pressione di media cattivi e ostili!». È possibile un reimpasto nell’Amministrazione?
È possibilissimo anche perché Trump lo ha già fatto e lo fa regolarmente. Che questo sarà dovuto a queste elezioni non direi a meno che non decida di intraprendere una politica più conciliatoria. Il che mi sembra improbabile.
Camera ai dem, Senato ai repubblicani. Quali le conseguenze nella politica estera degli Stati Uniti: pensiamo a Iran, Corea del Nord, Cina, Russia, Europa?
Inciderà, ma marginalmente perché, alla fine, il Congresso è sovrano sulle dichiarazioni di guerra e sui Trattati di pace. Deve anche ratificare decisioni che riguardano le sanzioni, l’innalzamento delle barriere doganali. Può incidere indiscutibilmente, ma non in una misura molto significativa. Le linee della politica estera rimarranno queste. Questa situazione potrebbe, al massimo, mitigarle, ma non è detto.
In vista delle europee del 2019, che segnale è per i populisti e sovranisti europei?
Io penso sia un segnale importante. Qualcosa sta di nuovo cambiando. Credo stiamo attraversando una fase di transizione generale. Ma queste elezioni dimostrano che quando si va a votare davvero, come dimostra l’aumento della partecipazione al voto, questo dominio dei sovranisti che c’è al momento non esclude anche l’enorme disaffezione.
Il modello di democrazia americano conferma il proprio stato in salute?
È un importantissimo segno, al contrario di quanto sostenevano alcuni commentatori negli Stati Uniti. Nonostante tutto, la democrazia americana funziona ancora.