Una vittoria probabile, una sconfitta (im)possibile
Domenica 24 giugno, in Turchia, dalle 08.00 alle 17.00 (ora locale) si terranno le elezioni presidenziali e parlamentari, le prime dopo il referendum popolare del 2017 che rafforza i poteri del presidente. Banco di prova, dunque, per la leadership di Recep Tayyip Erdogan, 64 anni, a capo del Partito Giustizia e Sviluppo (AKP) e ai vertici del potere dal 2003, prima come premier poi come presidente. Ma andiamo con ordine.
L’ Alto consiglio elettorale(YSK) ha reso noto che sul territorio nazionale hanno diritto al voto 53 milioni 34 mila persone (con età pari o superiore a 18 anni) insieme agli oltre 3 milioni elettori registrati all’estero e spalmati in 61 Paesi. Gli elettori residenti all’estero sono stati messi nelle condizioni di votare sia presso le rappresentanze consolari che nei seggi collocati in 34 varchi di frontiera. Se l’ affluenza dovesse mantenere il livello delle politiche del novembre 2015, si attesterebbe sull’ ordine dell’ 85%.
81 sono le province in cui si voterà per rinnovare i membri del parlamento unicamerale. Sì perché, come appena ricordato, ad esser rinnovato sarà sia la presidenza che il parlamento. Va detto che si tratta di un voto anticipato di ben 17 mesi (la scadenza naturale sarebbe stata il 3 novembre 2019) per volere del presidente uscente Erdogan che, a seguito di un incontro con Devlet Bahceli, leader del Partito movimento nazionalista (Mhp), aveva chiesto elezioni anticipate. «Abbiamo deciso di tenere le elezioni di domenica, 24 giugno 2018», aveva detto Erdogan in una conferenza stampa ad Ankara annunciando che «l’Alto Consiglio elettorale inizierà immediatamente i preparativi per queste elezioni», e motivando la decisione con «l’accelerazione degli sviluppi in Siria» e con l’ esigenza di dare risposte e «decisioni importanti» per l’economia.
Nonostante le grandi perplessità espresse dagli osservatori internazionali sulla regolarità della campagna elettorale e del voto, il referendum del 16 aprile del 2017 fu vinto con una percentuale pari al 51,41% (contro il 48,59 del ‘No’) dal ‘Sì’ all’ approvazione di più di una dozzina di emendamenti alla Costituzione turca che prevedevano: la trasformazione del sistema politico da parlamentare a presidenziale; l’ aumento del numero dei seggi in Parlamento, la Grande Assemblea, passando da 550 a 600; l’ ampliamento dei poteri del presidente, soprattutto sulla Corte costituzionale(nominando 12 su 15 giudici), sul Supremo Consiglio dei Giudici e dei Procuratori (HSYK), organo che controlla la magistratura, e sul Parlamento. Infatti, al presidente viene assegnata la prerogativa di nominare alti funzionari, ministri, di sciogliere il Parlamento, emanare decreti e far scattare lo stato di emergenza, in vigore dai primi giorni successivi al fallito golpe del luglio 2016 e che ha fatto da sfondo al referendum dello scorso anno e lo farà alle votazioni di domenica. Stato d’ emergenza che Erdogan ha promesso di cancellare qualora vincesse la tornata elettorale e che ha comportato forti restrizioni nell’ ambito della comunicazione e dei media, compreso, come testimoniato da Amnesty International e dalla Turkish Journalist Association, l’ arresto di centinaia di giornalisti, oltre che ingenti epurazioni nell’ apparato militare e nel comparto pubblico, motivate con il sospetto di collusione con l’ arcinemico di Erdogan ideatore del colpo di stato, Fethullah Gulen, in esilio negli USA.
A marzo, il parlamento turco ha approvato una nuova legge elettorale, il cui disegno era stato presentato dall’ AKP e dall’ MHP, che prevede alleanze tra i partiti politici, oltre che la riduzione a 18 anni dell’età per candidarsi alle elezioni locali. Ancor più significativi sono stati i ritocchi alla soglia prevista perché un movimento politico sia rappresentato in parlamento: infatti, la vecchia normativa stabiliva una soglia minima del 10 per cento dei voti a livello nazionale per ottenere un seggio in parlamento e questo sbarrava la strada ai partiti più piccoli. Con la nuova legge, la stessa soglia verrà applicata anche ad una coalizione: ciò vuol dire che per vincere seggi basterà che sia stata la coalizione a cui si appartiene a superare la soglia.
A contendersi la partita vi sono, sostanzialmente, due blocchi i quali, però, giocano contemporaneamente su due diversi campi da gioco, quello del voto parlamentare e quello del voto presidenziale: da una parte l’ Alleanza del Popolo (o People’s Alliance), formata dall’Akp, ormai da quasi 16 anni al governo; dall’MHP; dal Great Unity Party(BPP); dall’ altra l’ Alleanza Nazionale (o National Alliance), composta dal Partito popolare repubblicano, di opposizione e di centro-sinistra (CHP), purtroppo incapace a darsi una più incisiva leadership in grado di adattare ai nuovi tempi la tradizione kemalista; dal nuovo partito di destra, il Partito Buono (IYI); dal Partito della Felicità (o Saadet Partisi, SP), frutto di una scissione all’ interno di un movimento islamista e per questa caratteristica potrebbe erodere voti all’ AKP; dal Partito Democratico (DP). Unitamente alla nuova legge elettorale che allarga i margini di manovra, è stata l’ avversione ad Erdogan e alle sue mire egemoniche, a fare da collante ai quattro partiti – ognuno molto diverso dall’ altro tanto da non aver sottoscritto una piattaforma programmatica comune – che costituiscono il blocco dell’ opposizione e che potrebbero indebolire e non poco il leader dell’ Akp. L’ elemento nazionalistico, patriottico sembra essere il fil rouge che accomuna i due blocchi avversari e che ha precluso al Partito Popolare Democratico (HDP), filocurdo, di poter entrare a far parte dell’ Alleanza nazionale. L’ incognità dell’ ‘HDP’, che ha dovuto nominare un nuovo leader dopo l’ arresto per terrorismo di Selahattin Demirtaş, ora candidato alla presidenza, rimane sul tavolo: qualora superasse il 10%, potrebbe creare ulteriori problemi ad Erdogan.
Spostandosi sul versante presidenziale di queste elezioni, sono sei i candidati alla guida del Paese. L’8 gennaio scorso, l’ erede dei Lupi Grigi, il leader del Mhp Bahceli, aveva già annunciato che il suo partito avrebbe sostenuto il presidente turco e leader del partito al governo, Erdogan, piuttosto che presentare un proprio candidato. Stessa linea è stata poi assunta anche dall’ altro alleato, il Partito della grande unità (Bbp). In questo modo, l’ Alleanza del Popolo si è vista confermata anche nelle elezioni presidenziali.
Lo stesso non è avvenuto nello schieramento opposto dove ogni partito dell’ Alleanza Nazionale ha deciso di presentare il proprio candidato al primo turno, evidenziando le diversità dei propri programmi anche se, come sostengono alcuni, potrebbe essere un modo per non appiattire il voto, nell’ ottica di una maggiore competitività con il blocco avversario. Per il CHP, correrà Muharrem Ince, 54 anni, ex docente di fisica e, dal 2002, parlamentare. L’ unica candidata donna è quella proposta dal Buon partito (Iyi), Meral Aksener, oramai soprannominata ‘la donna di ferro turca’. Grande nazionalista e conservatrice di destra del, nel 1996-1997 ricoprì la carica di ministro degli Interni e ha fatto parte per tanto tempo del partito del Movimento nazionalista (Mhp) dal quale è stata espulsa dopo essere entrata in forte contrasto con il leader Bahçeli. Il motivo della divergenza era la contestazione da parte della Aksener all’ appoggio del Mhp al referendum del 2017 per la modifica della Costituzione voluto da Erdogan del cui partito, l’Akp, ha criticato il profilo fortemente islamico. Selahattin Demirtas, sebbene in carcere da oltre un anno, è il candidato proposto dal Partito democratico dei popoli (Hdp) mentre il Partito della Felicità Saadet (Sp) sarò rappresentato da Temel Karamollaoglu e il Partito Patriottico da Dogu Perincek.
Qui il punto fondamentale. Se Erdogan riuscisse a ottenere il 50% + 1, sarebbe eletto subito presidente. Qualora non riuscisse, andrebbe al ballottaggio, previsto per l’8 luglio, con l’ altro candidato più votato. Quest’ ultimo potrebbe essere Muharrem Ince o Meral Aksener, entrambi dati in grande ascesa dai sondaggi che non danno, invece, per certa la vittoria al primo turno di Erdogan il quale risentirebbe, ad esempio, dei problemi economici: il deficit delle partite correnti ha raggiunto il 6% del PIL; l’ inflazione tocca l’ 11%; la lira ha perso più del 20% rispetto al dollaro dall’ inizio dell’ anno e questo ha fatto sì, dopo le iniziali resistenze di Erdogan, che la Banca centrale turca intervenisse, con un rialzo record dei tassi di interesse (oltre 300 punti base).
A questo, va aggiunto che la disoccupazione supera il 10% e il dato non migliora soprattutto quando si fa riferimento ai giovani, considerando che la metà della popolazione turca non supera i 30 anni e che quest’anno sono oltre 1.585.000 i neo-elettori. I giovani sono perlopiù disinteressati alla politica, partecipando solo attraverso l’ esercizio del diritto di voto. Se, a seguito delle proteste di Gezi Park, anche nelle elezioni del 2015, era stato soprattutto il partito filo curdo HDP, insieme all’ MHP, ad intercettare le istanze dei giovani, sferrando un importante colpo ad Erdogan, chi lo farà questa volta? Non va dimenticato, poi, che sono soprattutto i giovani, quelli non ancora imprigionati, ad essere preoccupati per quanto riguarda l’ occupazione e il futuro.
Se, da una parte, Aksener potrebbe, in virtù del suo ultranazionalismo, contendere voti al Reis, ma non quello dei curdi, Ince, dall’ altra, dovrebbe contare sull’ appoggio di tutte le altre forze politiche sue alleate (ha già incassato il sostegno dell’ Aksener in un ipotetico secondo turno contro Erdogan), curdi compresi. E questo potrebbe non essere così scontato anche perché l’ AKP risulta forte in molte province a maggioranza curda. In entrambi i casi, l’ Alleanza Nazionale ha promesso che si schiererebbe unita a fianco del candidato che ha ottenuto più voti.
Qualora la maggioranza parlamentare non dovesse rispecchiare l’ esito delle elezioni presidenziali, si potrebbe andare incontro ad una forte instabilità che lascerebbe ben poche alternative a nuove elezioni. Quel che appare certo è che chiunque dovesse vincere, dovrebbe far fronte alla necessità di un importante rilancio dell’ economia, in particolare in un momento di calo di fiducia da parte dei mercati internazionali.
Di sicuro l’ esito elettorale non potrà non avere dei riflessi nella politica estera e nei rapporti con l’ Occidente, in particolare con l’Unione Europea, principale partner commerciale, la NATO, fondamentale dal punto di vista della sicurezza nazionale e gli Stati Uniti. Con la prima, le relazione si sono fatte più tese, in particolar modo a partire dal golpe del 2016 a causa dello stato d’ emergenza con le conseguenti purghe nei confronti di militari, giornalisti, dipendenti pubblici. Il regime di Erdogan ha accusato più volte Paesi come la Germania di proteggere alcuni cospiratori, non nascondendo insofferenza per l’ incostanza nel dialogo per l’ ingresso nell’ Unione. «La Turchia ha ottemperato ai suoi obblighi di Stato-candidato ma non possiamo continuare questo processo da soli. Anche l’Ue deve fare la sua parte, a cominciare dal mantenere le promesse fatte», ha sostenuto ad inizio anno il presidente turco, specificando che «l’Ue blocca l’accesso al negoziato e lascia intendere che la carenza di progressi dipende da noi. È ingiusto. Come lo è che alcuni Paesi Ue avanzino per noi opzioni diverse dall’adesione … Desideriamo la piena adesione all’Ue. Altre opzioni non ci soddisfano». Per questo – specificava il presidente – «ci aspettiamo che l’Ue rimuova il più presto possibile ogni ostacolo artificiale alla nostra adesione, assumendo un approccio costruttivo. L’adesione della Turchia non può essere sacrificata a calcoli di politica interna».
In seguito alle tensioni con l’ Italia per via del blocco della nave ENI a largo delle coste di Cipro, ma, ancor più, per l’ aumento degli attriti con la Grecia, nella sua relazione, la Commissione ha osservato come la Turchia si sta allontanando dai valori europei, restringendo i diritti e le libertà fondamentali, comprimendo lo spazio d’ indipendenza della magistratura.
Nonostante il nulla di fatto del vertice di Varna con il presidente della Commissione UE Juncker e del consiglio europeo Tusk, Erdogan da due anni, a fronte di sei miliardi ricevuti (3 ogni anno) da Bruxelles, gestisce la spinosa emergenza dei rifugiati: oltre 3milioni e 800mila sono quelli ospitati sul territorio turco anche se in condizioni difficili. «Un vero successo in merito all’assistenza umanitaria in Turchia, che ha cambiato la vita di oltre 1,1 milioni di rifugiati» lo ha definito il commissario europeo per gli Aiuti umanitari Christos Stylianides. L’ accordo, però, sarebbe, secondo alcuni media internazionali, nelle mire del nuovo esecutivo italiano che vorrebbe bloccare il finanziamento che l’ UE ha deciso di destinare ad Ankara.
Sul finire di maggio, è stato reso noto che, sebbene nell’ ambito del piano annunciato di riduzione degli attuali 25 ministeri a 15, qualora venisse riconfermato alla presidenza, Erdogan abolirà il ministero per gli Affari Europei, che verrà accorpato a quello degli Esteri. La delega ai rapporti con Bruxelles sarebbe poi probabilmente affidata a uno dei 4 vicepresidenti che il possibile neo-confermato presidente vorrebbe nella sua eventuale prossima amministrazione. Ciononostante, come si legge nel manifesto elettorale presentato dall’ Akp, «la Turchia rafforzerà ulteriormente le sue relazioni politiche ed economiche con diverse entità regionali, e in particolare con l’Ue».
Con la NATO e soprattutto con Washington, l’ attrito si è venuto a creare in seguito alla decisione di Ankara, nel 2017, di acquistare unsistema di difesa missilistica S-400 dalla Russia. L’ intesa con Mosca prevede l’ acquisto di due batterie, la prospettiva di una futura cooperazione tecnologica nell’ ambito dello sviluppo dell’ S-400 in Turchia. Lunedì, il Senato degli Stati Uniti ha approvato il progetto di bilancio per la difesa per il 2019, che prevedrebbe la cessazione della partecipazione della Turchia al programma di produzione dell’F-35: il timore di alcuni senatori riguarderebbe l’eventuale cessione di tecnologia del caccia a “paesi terzi”. Una minaccia è stata definita tale decisione dal vicepremier turco Bekir Bozdag mentre secondo il premier, Binali Yildirim, ne ha parlato affermandone la contrarietà alla partnership tra i due Paesi. Tuttavia, nella giornata di ieri, la compagnia americana Lockheed Martin ha tenuto a Fort Worth in Texas una cerimonia per il trasferimento del primo caccia turco e il ministro degli Esteri, Mevlut Cavusoglu, ha rassicurato che comunque gli aerei arriveranno in Turchia nel 2020, una volta completati i corsi di addestramento per i piloti turchi negli Stati Uniti.
«Quella degli Stati Uniti nei confronti della Turchia è una posizione assolutamente sbagliata, visto che Ankara è un alleato strategico della NATO, può trasformarsi in una perdita per loro», ha detto Erdogan. Infatti i terreni di scontro tra i due Paesi non finiscono qui: come dimenticare la questione ‘Gulen’, in esilio in Pennsyilvania, considerato dal presidente uscente la mente del fallito colpo di stato e per questo è stata più volte chiesta la sua estradizione; il verdetto di colpevolezza emesso da una corte di giustizia americana nei confronti del banchiere turco Mehmet Hakan Atilla, dirigente della banca statale turca Halkbank, accusato di aver aiutato l’Iran ad evadere le sanzioni statunitensi; la detenzione in Turchia del pastore americano Andrew Brunson, accusato di attività terroristiche; il sostegno all’ accordo sul nucleare iraniano, da cui l’ Amministrazione Trump ha fatto uscire unilateralmente gli Stati Uniti; la cooperazione americana con leUnità di protezione del popolo curdo (YPG) e il dialogo privilegiato di Ankara con Mosca e Iran, in relazione al dossier ‘Siria’, dove Erdogan vuole allargare la sua sfera di influenza che, dopo Afrin, arrivi a toccare la Rojava orientale contro i curdi dell’ YPG che hanno fronteggiato i jihadisti dello Stato Mambij.