Tutto quello che c’è da sapere sulla tornata elettorale
Domani, sabato 12 maggio, l’Iraq andrà al voto per eleggere i 329 membri del parlamento monocamerale, il Consiglio dei Rappresentanti, i quali poi dovranno mettere insieme una maggioranza per formare il nuovo esecutivo ed eleggere il prossimo Presidente della Repubblica. Il voto sarà elettronico e, per dare qualche numero, si parla di 23.109.138 votanti; 53mila seggi elettorali; 253mila scrutatori; 27 coalizioni; 7376 candidati. E’ una tornata elettorale importante per una regione che vive l’ ennesima crisi: avviene ad una settimana esatta dalle elezioni in Libano che hanno visto trionfare Hezbollah e ad oltre un mese dalle elezioni in Turchia (24 giugno).
Qualche settimana fa, si è ricordato il quindicesimo anniversario da quel 9 aprile 2003 che vide la statua bronzea, alta 12 metri, di Saddam Hussein venire abbattuta sulla Piazza Al Ferdous di Baghdad, poche ore dopo l’entrata in città delle truppe americane, al termine di un attacco durato poco più di 20 giorni. Le famose ‘armi di distruzione di massa’ che avevano motivato l’ intervento statunitense, dopo l’ 11 Settembre, non sono mai trovate. In compenso, il regime è crollato e il Paese è sprofondato in una grave crisi politica, sociale ed economica di cui non ha ancora finito di pagare le conseguenze.
Una di queste è stata l’ inasprimento dei conflitti tra le diverse realtà etnico-religiose (sciiti, 60% della popolazione; sunniti 20%; curdi 15%). Questo, sommato al progressivo e mal ponderato disimpegno americano, ha spianato la strada, soprattutto nelle comunità sunnite più marginalizzate, al reclutamento da parte di Daesh e alla nascita dello Stato Islamico, sancita a Mosul nel 2014 dal leader Abu Bakr al-Baghdadi. L’ IS era riuscito a conquistare quasi un terzo del territorio nazionale e solo dopo una lunga battaglia che ha visto scendere in campo una coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti, ma anche curdi (peshmerga) e lo stesso esercito iracheno, sono iniziate a cadere, una dopo l’ altra, le roccaforti di Mosul, Raqqa fino a che il governo di Baghdad guidato da Haider al-Abadi non ha dichiarato, il 9 dicembre 2017, la vittoria, ringraziando «l’unità e lo spirito di sacrificio» della nazione proclamando il 10 dicembre giorno di festa nazionale.
Un successo per il premier che, però, si trova a dover fare i conti con un Paese in macerie. Per questo, diversi attori ed investitori internazionali, oltre che i rappresentanti di 70 Paesi, si sono riuniti, qualche mese fa, in occasione di una conferenza in Kuwait: tra i 90 e i 100 miliardi di dollari sarebbero necessari per la ricostruzione del Paese. E se gli Stati Uniti hanno respinto l’ ipotesi in un proprio coinvolgimento in questo progetto, Riad si è fatta avanti, offrendosi per contribuire, a patto che questi finanziamenti non vadano a giovare a Teheran, la cui influenza, come è noto, si espande fino a Beirut, nella cosiddetta ‘mezzaluna sciita’. E’ difficile, dunque, non incastonare l’ Iraq nell’ ambito della crisi e delle tensioni in medioriente. Come se non bastasse, Baghdad, nel settembre 2017, si è trovata a gestire la questione del referendum per l’ indipendenza del Kurdistan che messo al centro anche il controverso dossier delle risorse economiche del Paese, tra cui il petrolio che rimane la principale fonte di proventi. Nonostante la guerra contro lo Stato Islamico, l’ estrazione ha avuto un trend positivo negli ultimi anni e, nel gennaio di quest’ anno, i soli giacimenti meridionali sono riusciti a produrre 4,4 milioni di barili al giorno.
L’ Iraq è avviato verso «un autentico rinascimento e negli ultimi tre anni ha raggiunto numerosi successi in vari settori» ha dichiarato il primo ministro iracheno al-Abadi, durante il suo intervento in occasione della presentazione del Piano nazionale per lo sviluppo 2018-2022, ribadendo che il governo ha «una responsabilità per lo sviluppo e le questioni sociali, che non possono essere trascurate»; l’ingiustizia e le diseguaglianze «sono gravi, ma verranno eliminate … verranno edificate abitazioni e scuole, saranno creati posti di lavoro e verranno forniti servizi in materia di sanità e istruzione».
al-Abadi si presenta alle elezioni con una sua lista Nasr al-Iraq (Vittoria dell’ Iraq), all’ interno di una coalizione laica, nazionalista e trasversale, l’ Alleanza Nasr, nel tentativo di capitalizzare i successi ottenuti nella lotta contro l’ IS e quindi riscuotere i consensi sia tra i sunniti che tra gli sciiti.
A fargli da contraltare, nell’ ambito sciita, l’ex Premier (dal 2005 al 2014) Nouri al-Maliki, alla testa del partito Dawa (ex partito di Abadi) e nella cornice della coalizione Dawlat al-Qanun (lo Stato della Legge), preoccupante per le sue derive settarie. Pericolo che si intravede anche nella coalizione I’tilaf al-Fatih, guidata da Hadi al-Ameri e formata dalle Unità di Mobilitazione Populare (PMU o Hashd al-Shaabi), molto vicine all’ Iran e tra i fautori della sconfitta dello Stato Islamico. Dopo il fallimento del tentativo di al-Abadi di allearsi con le PMU, è venuto meno anche il sodalizio con l’ayatollah Ammar al-Hakim che concorrerà come candidato indipendente, alla guida del suo partito al-Hikma al-Watanyi (Movimento della saggezza nazionale). Tra gli altri, poi l’ alleanza I’tilaf al-Sa‘irun formata dal Partito comunista iracheno dalla lista dell’ayatollah Muqtada al-Sadr.
Frammentazione si registra anche nel blocco sunnita dove spiccano la lista Qarar al-Iraqyi, capeggiata dall’ ex presidente Osama al-Nujaifi e dal fratello Atheel al-Nujaifi oggi sindaco di Mosul, e l’ alleanza laica e nazionalista I’tilaf al-Watanyi, il cui leader è Ayad Allawi avvicinatosi al portavoce del Parlamento Salim al-Jabouri. Così anche nel fronte curdo se è vero che, con il referendum per l’ indipendenza si è aperto il vaso di Pandora, e se il partito che guida il Governo Regionale Curdo (KRG), il Partito Democratico del Kurdistan (KDP), non ha presentato nessun candidato, l’ opposizione ha presentato la lista Nishtiman.
In un recente sondaggio, l’ 85% del campione di cittadini iracheni intervistati ha dichiarato di avere molta fiducia nell’ esercito. A seguire, in ordine decrescente, nei movimenti popolari (73%), nelle autorità religiose (58%), nei tribunali (26%), nel governo centrale (24%), nelle amministrazioni locali (15%), nel Parlamento (8%), nei partiti politici. Il 79% (contro il 21%) degli intervistati si è detto soddisfatto della premiership di al-Abadi e questo trend pare accomunare sia nel Sud, che a Baghdad con picchi di approvazione nelle aree liberarate dall’ oppressione dell’ IS e di disapprovazione nelle zone del Kurdistan. Oltre il 70% ha sostenuto di voler prendere parte alle elezioni e questo quasi ovunque, tranne che nel Kurdistan dove scende di poco sotto il 60%. Grande rilievo avranno per gli elettori, nel decidere chi votare, la situazione economica (52%), le opportunità di lavoro (51%) e la sicurezza (43%). E quest’ ultimo tema rimane al centro delle preoccupazioni se è vero che l portavoce di IS, Abu al-Hassan al-Mujahir, ha avvertito che vi potrebbero essere degli attacchi contro i seggi elettorali.
Per fare un po’ di chiarezza nell’ ingarbugliata situazione politica dell’ Iraq, alla vigilia delle elezioni, ci siamo rivolti a Silvia Colombo, Responsabile di ricerca per il Mediterraneo e il Medioriente dello IAI (Istituto Affari Internazionali)
Dovendo fare un bilancio, in quale condizione si presenta al voto il premier al-Abadi?
L’ attuale primo ministro iracheno è sicuramente in una condizione di forza e arriva a queste elezioni con un capitale politico abbastanza solido anche se sono stati anni particolari per l’ Iraq che, soprattutto, per una serie di vicende regionali, si è ritrovato al centro del vortice. Il premier gode di alcuni vantaggi, ad esempio, per quella che è stata l’ esperienza del suo predecessore, Nouri al-Maliki, che aveva terminato il suo mandato con un giudizio molto negativo per il progressivo deteriorarsi della situazione interna del Paese, in particolare dal punto di vista sociale e dei conflitti tra le varie componenti etnico-settarie che, di fatto, ha aperto la strada alla crescita dello Stato Islamico. al-Abadi, invece, è riuscito a gestire una fase in cui la lotta allo Stato Islamico è stato l’ obiettivo prioritario, beneficiando del supporto determinante di un contesto regionale e globale che ha fatto di questo obiettivo uno dei cardini strategici delle politiche mediorientali quindi, appunto, alla coalizione che si è formata per la lotta contro il terrorismo e che ha sostenuto in maniera importante, sia per quanto riguarda i Paesi europei sia per quanto riguarda gli Stati Uniti, lo sforzo compiuto, in particolar modo, dalle forze di sicurezza e dall’ esercito iracheno. In questo viene dato credito ad al-Abadi e non soltanto a lui, ma, più in generale, alla leadership che ha guidato il Paese in questi ultimi due o tre anni, riconoscendogli il merito di essere riusciti a mettere in campo delle forze abbastanza significative per sconfiggere lo Stato Islamico. Sicuramente lo sforzo finale per la liberazione di Mosul e la dichiarazione di questa vittoria nel dicembre 2017 hanno rappresentato il punto più alto della parabola di crescita di questo leader. al-Abadi si è di gran lunga appropriato di questo risultato, già, potremmo dire, in vista elettorale dato che è in corso ormai da mesi la campagna elettorale per raccontare, soprattutto agli iracheni, in modo abbastanza efficace, quello che è stato il contributo del suo governo alla lotta contro lo Stato Islamico.
Quale potrebbe essere il tallone d’ Achille del primo ministro di Baghdad?
Ci sono diversi elementi da considerare. Questa narrativa di al-Abadi quale ‘salvatore’, giocata molto in chiave nazionalista, si è andata in realtà offuscando nel momento in cui, soprattutto dal 2018: il primo ministro iracheno ha gestito bene la questione del referendum per l’ indipendenza curda così come la riconquista di Kirkuk a ottobre scorso, ma dal gennaio di quest’ anno il tentativo di alleanza con la coalizione Fatah, che riunisce le Forze di Mobilitazione Popolare e sostenute anche da al-Sistani, frange di chiara matrice paramilitare, provenienti dalla galassia delle milizie appoggiate dall’ Iran oltre che molto ben radicate nel territorio, e proprio sulla scorta di questa caratteristica ottenere un maggiore controllo del Paese in vista del voto, ha mostrato come al-Abadi fosse disponibile a mettere da parte la propria retorica nazionalista o, meglio, a piegarsi a quest’ alleanza con queste forze per raggiungere un buon risultato alle elezioni. Questo, potremmo dire, è stato il suo tallone d’ Achille: aver attraversato il confine nella costruzione delle alleanze per mantenere il potere dopo le elezioni. Questa prova di intesa è fallita, ma la macchia sul curriculum di al-Abadi perché da molti iracheni, soprattutto dall’ opposizione, si è levata una forte critica rispetto a questo tentativo di schiacciare il pluralismo iracheno.
La modalità di gestione delle risorse economiche potrebbe costituire un punto a favore del premier uscente?
Su questo aspetto, ci sono ancora moltissimi passi da compiere. Come la questione curda ha dimostrato, uno dei nodi è proprio quello: come garantire una gestione efficace, ma anche giusta di queste risorse, trattandosi di uno Stato che basa gran parte della propria ricchezza sul petrolio. Ci sono delle leggi che regolano la ripartizione. Al-Abadi può vantare di essere riuscito a mantenere questo quadro abbastanza al sicuro da contestazione. Il tema fondamentale è fare in modo che la gestione delle risorse tenga conto dei bisogni della popolazione.
Guardando ai numeri delle coalizioni, dei partiti, dei candidati, appare evidente l’ enorme frammentazione che regna sul panorama politico iracheno così come nelle diverse realtà etnico-religiose. Ciò detto, in che modo sarà possibile una trattativa per la formazione di una maggioranza di governo che, con ogni probabilità, non potrà essere monocolore?
In questi contesti, la caratteristica ‘monocolore’ corrisponde all’ appartenenza settaria e questo è, da sempre, il problema dell’ Iraq, aggravatosi dopo la caduta di Saddam Hussein. La politica viene vista attraverso queste lenti dell’ appartenenza religiosa, anche con una competizione di gruppi che rientrano nello stesso bacino di appartenenza, ma che, in realtà, si competono perché hanno interessi di altra natura, tribali piuttosto che etnici. La frammentazione riguarda le coalizioni, la quantità dei partiti, ma se poi si va a vedere la piattaforma dei temi sui quali si sta svolgendo questa campagna elettorale, si nota che questa frammentazione viene meno perché, comunque, c’è un’ attenzione abbastanza omogenea rispetto a quelli che sono i temi caldi dell’agenda, soprattutto economico-sociale che è il punto debole del Paese, ma che rappresenta la base del malcontento e della frustrazione che aveva creato un bacino di reclutamento per lo Stato Islamico. Quindi, tutti parlano di lotta alla corruzione, tutti parlano del miglioramento della sicurezza o del puntellamento di alcune aree che sono tornate ad essere oggetto di attacchi terroristici e di azioni violente da parte di alcuni guerriglieri dello Stato Islamico che sono ancora presenti sul territorio: si parla della zona a Nord di Baghdad, dell’ area di Kirkuk, che sono da sempre punto di partenza di questo tipo di manifestazioni violente. Poi c’è quello che riguarda la gestione dei beni pubblici: se nelle grosse città, in particolare a Baghdad, negli ultimi anni, si sono fatti grossi passi avanti nel miglioramento delle condizioni di vita, dall’ accesso all’ acqua potabile alle fognature, in altre aree del Paese, ciò ancora non avviene. E quindi è necessario superare questa marginalizzazione per evitare l’ allentamento dei legami tra il potere centrale e le singole istanze a livello regionale. E’ certo che, come ricordava lei, sarà difficile ricomporre in termini di voti e di distribuzione del potere tra le diverse alleanze, però non farà grande differenza tra un governo ‘monocolore’ più vicino ad al-Abadi, che comunque ha una forza molto consistente, e un governo più frammentato al proprio interno in cui un ruolo centrale rivestirà la componente sciita che rappresenta, tutt’ oggi, un elemento di collante per il Paese e, soprattutto, a livello di leadership dove non c’è stato ancora un bilanciamento con la componente sunnita.
Anche il fronte curdo si presenta spaccato alle elezioni. In che modo potrebbe incidere sull’ esito elettorale?
Anche la frammentazione curda rientra in questo contesto generale frantumato e va ricordato che i curdi non sono mai stati interamente uniti e queste differenze di visione sono venute al pettine anche nel momento del referendum. Quindi, influirà sul voto, ma non credo inciderà più di tanto. Bisognerà vedere quali forze prenderanno il potere e quali rapporti si instaureranno.
L’ ex premier Nouri al-Maliki potrebbe costruire un ostacolo non indifferente per la conquista da parte di al-Abadi del suo secondo mandato?
Al-Abadi e Nouri al-Maliki così come lo speaker del Parlamento, nell’ ambito di questa gestione personalistica del potere, agevolano l’ enorme frammentazione. Credo sarebbe molto preoccupante, considerando i trascorsi di al-Maliki, che l’ Iraq, a distanza di diversi anni, si ritrovasse ad avere di nuovo lui come primo ministro nel senso che, da una parte il panorama politico è molto cambiato negli ultimi anni e poi c’è la questione della curda che rimane da gestire dal punto di vista politico nonché economico, dall’ altra al-Maliki ha dimostrato di non avere grandi capacità, tenuto conto del fatto che, adesso, l’ Iraq, dopo la fine della lotta allo Stato Islamico e dopo il venir meno dell’ ingente impegno della coalizione internazionale (anche se la presenza e il supporto rimangono), tuttavia, non costituisce più il centro dello scacchiere mediorientale soprattutto perché quei Paesi che sono stati artefici in questi anni del funzionamento di questo Paese nel bene e nel male si sono pian piano sfilati e questo a causa del fatto che la politica estera, in particolare quella americana, non è così radicata nel territorio: ci sono altre questioni e per questo le elezioni in Iraq rischiano di avere una risonanza minore anche a livello internazionale. In un certo senso, dal mio punto vista, al-Maliki perde ancor di più possibilità perché la sua gestione è stata estremamente legata a quello che gli Stati Uniti hanno potuto fare fornendogli una base di sostegno. Adesso, non essendoci più questo approccio da parte americana, l’ Iraq dovrebbe poter camminare con le sue gambe. La domanda è se è in grado di farlo e se gli iracheni, visti i precedenti, glielo permetteranno. Al-Maliki potrebbe costituire un elemento di competizione molto importante per al-Abadi, ma, sicuramente, non sarebbe un elemento positivo.
Quale potrebbe essere il ruolo delle Forze di Mobilitazione Popolare? Potrebbero essere l’ ago della bilancia?
Questo sì perché un po’ tutti le hanno corteggiate sapendo che sono delle forze ben radicate sul terreno e che hanno svolto un ruolo fondamentale nella lotta contro lo Stato Islamico, potendo contare su un capitale politico molto elevato. Potrebbero essere la grande novità di questa tornata elettorale e, pur non potendo pensare di poter detenere, da sole, le sorti del Paese, potrebbero essere un elemento di disturbo o di sostegno ad una futura coalizione. Però, essendo legate a doppio filo all’ Iran e all’ establishment iraniano, occorrerà guardare anche all’ andamento delle questioni regionali. Quindi, da questo punto di vista, l’ Iraq potrebbe tornare al centro dell’ attenzione, a seconda di quello che succederà nell’ area.
A questo proposito, negli ultimi mesi, l’ Arabia Saudita ha iniziato, in modo neanche troppo nascosto, anche nell’ ambito della ricostruzione del Paese, ad intavolare una partnership con l’ Iraq che, però, rientra in quell’ area sulla quale l’ Iran espande la sua influenza. Quale esito elettorale potrebbe essere gradito alle due potenze rivali del Medioriente?
L’ apertura che l’ Arabia Saudita o altri Paesi del Golfo hanno fatto con l’ Iraq, dopo l’ uscita di scena di al-Maliki, risponde al tentativo di mantenere un canale di dialogo con un regime, quello di Baghdad, che è considerato abbastanza moderato. Quindi, laddove l’ Arabia Saudita e le altre monarchie del Golfo non sono riuscite ad implementare la propria strategia, con l’ Iraq, invece, sono riuscite a mantenere aperto questo dialogo. Di fondo continuerà a rimanere un terreno di competizione, però, allo stato attuale, vista l’ esistenza di altri centri di tensione, il governo di Baghdad, anche sulla base di come si è posto sulla questione curda o nella lotta contro lo Stato Islamico, ha rappresentato una sorta di punto di moderazione, di incontro che ha fatto comodo sia all’ Iran, visto che rientra nella sua sfera di influenza, sia all’ Arabia Saudita, perché è riuscita a giocare la carta del riavvicinamento. L’ Arabia Saudita non si fa illusioni di poter avere chissà quale influenza nel Paese, stante le condizioni attuali del Paese e considerando che, dal punto di vista interno iracheno, gli sciiti iracheni sono molto autonomi rispetto all’ Iran, ma comunque presenti in modo massiccio. Quindi Ryad guarda alle elezioni nella speranza che ci sia una continuità piuttosto che una rottura e una crescita marcata delle Forze di Mobilitazione Popolare potrebbero creare non pochi problemi all’ Arabia Saudita.
Tanto a Ryad quanto a Teheran non sarebbe, dunque, sgradito un secondo mandato di al-Abadi?
Non sarebbe sgradito, ma, anzi, sarebbe la soluzione migliore anche perché per l’ Iran vorrebbe dire mantenere il polso della situazione senza doversi esporre in un momento in cui sicuramente non è auspicabile per Teheran aprire un altro fronte di scontro o farsi vedere troppo belligerante.
Anche l’ Occidente, Stati Uniti in testa, non vedrebbe di cattivo occhio un secondo mandato di al-Abadi?
Penso di sì, per quanto riguarda i Paesi europei e gli Stati Uniti la collaborazione con gli europei è stata positiva. C’è ancora molto margine di miglioramento, ma certamente vedrebbero di buon occhio la continuazione di questo trend.
E la Turchia?
La postura di al-Abadi nei confronti dei curdi così come nella gestione del referendum fanno dell’ Iraq di al-Abadi l’ unico potenziale alleato di Ankara nell’ affrontare la questione curda. Le prospettive di un secondo mandato ad al-Abadi potrebbe essere vista con favore anche dalla stessa Turchia che potrebbe in questo modo beneficiare delle politiche messe in atto dal governo di Baghdad.
La questione economica sarà uno dei temi decisivi di questa tornata elettorale. Pochi mesi fa, in Kuwait si è tenuta una conferenza per la ricostruzione dell’ Iraq dove sono stati messi a disposizione dalla Comunità Internazionale 30 miliardi di dollari, pari a circa un terzo del necessario. A seconda dell’ esito delle elezioni, la ricostruzione potrebbe trovare un accelerazione o un rallentamento?
Qualunque governo dovrà occuparsi di queste questioni e al-Abadi è stato molto criticato in questi ultimi mesi. Perciò, nel caso fosse rieletto, avrebbe questa come priorità assoluta. Ma l’ organizzazione di una conferenza è stata una mossa del governo per dimostrare che c’è un processo in corso e che non deve essere interrotto altrimenti si rischia di ricominciare da capo. Come per altri Paesi che hanno compiuto una fase di stabilizzazione e che si sono dotati di istituzioni più o meno democraticamente funzionanti, la vera sfida è la questione economica: come tradurre questa stabilità in possibilità di lavoro, in un miglioramento delle condizioni di vita.
Quelle che si terranno domani sono le prime elezioni dopo la lotta e la sconfitta dello Stato Islamico. In che modo, secondo lei, questa sfida ha cambiato il panorama politico e sociale iracheno, considerando che, per rispondere alla minaccia dell’ IS, si era creata una maggiore, almeno apparente, coesione nel tessuto collettivo?
Nel 2017, non solo la risposta allo Stato Islamico, ma anche la questione del referendum curdo ha sicuramente dato all’ Iraq una maggiore consapevolezza della propria diversità interna, ma anche della capacità di questi diversi gruppi di lavorare insieme per un obiettivo comune o per il Paese. Quindi, sicuramente la frammentazione politica è figlia di questi lunghi anni di guerre e di conflitti, ma c’è anche una maggiore consapevolezza della possibilità che queste differenze possano essere messe appianate o, comunque, messe a fattor comune per trasformarsi in qualcosa di costruttivo, come nel caso della lotta allo Stato Islamico. C’è, però, molto bisogno di tenere alta l’ attenzione perché ci sono rischi di una destabilizzazione da parte dello Stato Islamico dato che le cellule ancora presenti minacciano di ostacolare il processo elettorale. In questo senso, si vedrà se questo avrà un impatto sulla partecipazione degli elettori.
Dovendo fare una previsione, cosa aspettarsi dalle elezioni del 12 maggio?
E’ un momento così convulso che è difficile fare previsioni, ma è soprattutto difficile mantenere una coerenza nelle analisi. Probabilmente, la continuità emergerà come l’ elemento vincente. Continuità sia nelle figure chiave sia per quanto riguarda il cammino che l’ Iraq ha intrapreso negli ultimi anni e che credo proseguirà senza colpi di scena.
Anche perché, dalla caduta del regime, gli iracheni hanno sempre rispettato le scadenze elettorali.
Questo dimostra che il percorso istituzionale è ben tracciato. Ora bisognerà vedere come la politica farà seguito.
Senza dubbio, potrebbe essere dirimente l’ abilità di trattativa di una figura come al-Abadi.
Occorrerà, infatti, sentire le voci di tutti e speriamo che il quadro che uscirà dalle elezioni permetta di condurre questo tipo di politica, continuando a lavorare per il pluralismo.
Secondo un recente sondaggio, l’ esercito iracheno gode del più alto livello di fiducia tra le principali istituzioni statali, più dei partiti politici. Perché?
Questo è un elemento che viene da lontano ed è una costante nei Paesi della regione dove c’è una persona forte come un primo ministro piuttosto che un sovrano che rappresentano il perno del sistema politico e poi, come nella tradizione autoritaria, i partiti politici erano delle conchiglie vuote usate per distribuire cariche di potere. Nei Paesi dove si è assistito ad una transizione più o meno democratica, si è cercato di dare nuovo contenuto a queste istituzioni, ma la fiducia si è ancora manifestata poco perché ci vuole molto tempo e dei risultati tangenti prima che avvenga un’ inversione di tendenza. La fortuna è che c’è un buon bilanciamento tra le autorità civili e le autorità militari: non siamo nel rischio militarizzazione di un regime militare, anzi c’è una buona capacità della componente civile di penetrare quella militare. In questo senso, è stato fatto un ottimo lavoro da parte delle varie missioni, anche grazie al contributo italiano.
E il sentimento anti-occidentale risulta affievolito?
Pare essere diminuito però rischia di riemergere dato che l’ Iraq si trova in una regione delicata. C’è sicuramente un atteggiamento più rilassato che deriva soprattutto da una maggiore fiducia che gli iracheni hanno in loro stessi.