La causa sarebbe la loro ‘vicinanza al regime russo’

 

Minacce USA su veri o presunti amici di Putin corresponsabili però di una massiccia fuga di capitali vanamente combattuta con amnistie fiscali

Oligarchi, chi sono costoro? Nell’antica Grecia erano i detentori plurali del potere in contrapposizione a singoli monarchi o dittatori. Ma il termine è tornato di moda oggi, in Russia, per designare qualcosa di diverso, anche rispetto al breve periodo in cui, dopo la morte di Stalin, si parlò di “direzione collegiale” dell’Unione Sovietica. In terra russa, i decenni e i secoli passano ma si continua di regola a preferire l’”uomo solo al comando”, quale che sia il suo colore.

Adesso regna a Mosca, praticamente da 17 anni, Vladimir Putin, che secondo facili previsioni sarà confermato presidente della Federazione russa, nel prossimo marzo, per altri 6, grazie a consensi popolari eccezionalmente elevati. I quali contrastano, significativamente, con indici di apprezzamento assai più bassi per altri politici nazionali, che si tratti dei più stretti collaboratori del “nuovo zar”, di suoi alleati o di residui e più o meno combattivi oppositori.

Decisamente impopolari sono poi i membri di una speciale categoria di cittadini, quella appunto dei cosiddetti oligarchi, comparsa nella Russia post-sovietica all’indomani del collasso dell’URSS. Si trattava in origine degli imprenditori già tali, ma soprattutto improvvisati, che avevano saputo approfittare in vario modo del colossale quanto sbrigativo processo di privatizzazione dell’economia collettivizzata attuato sotto la presidenza di Boris Elz’in, liquidatore del regime comunista e predecessore di Putin.

Imprenditori per lo più improvvisati ma capaci di arricchirsi rapidamente e diventare veri e propri magnati alla testa di grandi aziende o gruppi spesso a carattere monopolistico operanti in più campi. Se con Elz’in, però, avevano carta bianca sotto ogni aspetto, con Putin, pur conservando ampia libertà di movimento sul terreno economico, hanno dovuto rinunciare a velleità politiche incompatibili con il volere del Cremlino. Con le buone o le cattive, insomma, sono stati messi in riga. I pochi restii a piegarsi hanno pagato cara la loro indocilità, mentre tra gli altri molti hanno guadagnato in potenza e prestigio solo allacciando e coltivando stretti rapporti personali con il capo supremo, unico vero detentore del potere politico.

La qualifica di oligarchi, dunque, è scarsamente appropriata, e lo è ancor meno quando viene estesa, come spesso accade, ad una diversa categoria di magnati: i massimi dirigenti di grandi aziende e altri enti statali, il cui peso complessivo nell’apparato economico nazionale è sensibilmente aumentato negli ultimi anni. La loro autorevolezza, certo, è fuori discussione, ma rimane pur sempre fondata sui loro singoli e più o meno stretti legami con la vetta del “potere verticale”.

Attenzione, però. L’esistenza stessa della categoria non è un dato pacifico. C’è chi la nega, o fa mostra di negarla, come ad esempio il partecipante russo di più alto rango al recente appuntamento internazionale di Davos: il giovane vice premier Arkadij Dvorkovic, considerato un esponente della corrente più riformista all’interno del governo federale. Presumibilmente ostile, perciò, all’ulteriore espansione del settore statale o parastatale, Dvorkovic può dunque avere avuto le sue buone ragioni per dichiarare in un’intervista che in Russia gli oligarchi non esistono più essendo stati rimpiazzati da uomini d’affari “responsabili”.

Che è come dire, per un verso, politicamente allineati, ma per un altro meritevoli di essere difesi sia all’antipatia popolare che li circonda tutti sia dalle critiche che una larga parte di loro riceve anche a livello politico per non essere abbastanza disciplinata e quindi neanche tanto responsabile. Se poi il vice premier (ce n’è più d’uno, va ricordato) può avere comunque ragione dal punto di vista semantico, resta però il fatto che un’esistenza sia pure controversa o addirittura immaginaria degli oligarchi fa comodo a più parti in causa e diventa perciò, in certo qual modo, reale e concreta.

Lo prova l’ultimo atto dell’escalation sanzionatoria americana a carico di Mosca in parallelo agli sviluppi del Russiagate negli USA. Ottemperando ad una legge approvata dal Congresso nella scorsa estate, il Dipartimento del tesoro di Washington ha pubblicato a fine gennaio una lista di 210 persone passibili di misure punitive a causa della loro vicinanza al regime russo”: divieto di intrattenere rapporti d’affari con soggetti americani, negazione del visto d’ingresso degli USA, sequestro dei loro beni negli States e simili. Sono punizioni già inflitte ai massimi dirigenti e alti dignitari russi, ritenuti corresponsabili delle ormai famose interferenze di Mosca nelle ultime elezioni presidenziali americane, ed estensibili adesso ad una cerchia molto più ampia di ancor meno credibili rei, comprendente 114 politici minori e 96 oligarchi nel senso sopradescritto del termine.

Mentre tra i primi sono state notate alcune curiose assenze (come quella dei presidenti delle due Camere che formano il Parlamento federale o quella di Aleksej Kudrin, ex ministro delle Finanze tuttora di tendenza liberale ma pur sempre alto consigliere di Putin), sono soprattutto i secondi al centro dell’attenzione generale in quanto i più esposti a subire il concreto impatto delle sanzioni USA. Le quali, per il momento, non colpiscono automaticamente nessuno ma potrebbero scattare nel prossimo futuro a danno di quanti figurano nella lista appena resa nota.

La sua pubblicazione ha provocato in realtà le reazioni più diverse. Negli USA e altrove in occidente non sono mancate voci deluse per il rinvio di misure concrete e subito operanti. In Russia, al livello più ufficiale, la novità è stata bollata come un ennesimo atto o gesto americano ostile nei suoi confronti. Putin personalmente si è anzi spinto fino a denunciarla come un attacco anche a Donald Trump, mostrando così di credere ancora, nonostante tutto, che il suo omologo d’oltre oceano resti per il Cremlino un interlocutore meglio disposto di tanti altri connazionali.

Trump, va ricordato, non aveva nascosto di firmare tutt’ altro che convinto la legge approvata dal Congresso, e si deve verosimilmente alla contrarietà presidenziale se a Capitol Hill i repubblicani sono riusciti a ridurre il suo mordente. Putin, dal canto suo, checchè ne pensi davvero di Trump, ha un naturale interesse a distinguerlo e se possibile dividerlo dai suoi avversari e critici interni, se non altro agli occhi dell’opinione pubblica russa.

Il portavoce del presidente, Dmitrij Peskov, aveva addirittura preceduto l’arrivo della notizia da Washington dichiarando che si assiste ad un tentativo di interferire nelle prossime elezioni russe e quindi come ritorsione per quanto rimproverato, naturalmente a torto, a Mosca. Tentativo, però, destinato a fallire, come Peskov si è affrettato a precisare attenendosi ad un modulo ormai rituale secondo cui la Russia è in grado di respingere senza difficoltà anche gli attacchi più pesanti e malevoli. Per il resto, esperti e osservatori moscoviti sono apparsi abbastanza concordi nel giudicare la mossa americana praticamente innocua, giungendo in qualche caso a paragonare la lista in questione al proverbiale topolino partorito dalla montagna e persino ad irriderla in quanto apparentemente ricavata dalla guida del telefono o da Internet nonchè somigliante, come ha detto Dvorkovic a Davos, ad un qualsiasi Who’s who della politica russa.

Non sembra tuttavia che le cose stiano proprio così dovunque e da ogni punto di vista. Certo non da quello degli oligarchi inseriti nella lista “nera” o che temevano di figurarvici; i soggetti a rischio, secondo fonti attendibili, erano non meno di 300. A quanto risulta, i non pochi di loro che operano negli USA e spesso vi risiedono o comunque vi possiedono cospicui beni materiali, titoli e conti in banca erano da parecchie settimane quasi in preda al panico e freneticamente impegnati a cercare appoggi, consigli e vie traverse, comprese offerte di denaro, per scongiurare il peggio.

Altri, invece, si sono affrettati a sbarazzarsi di propri beni immateriali o a troncare rapporti pericolosi come pare abbia fatto Michail Fridman, uno dei maggiori banchieri privati, rescindendo quelli con industrie militari russe. Altri ancora avrebbero modificato i loro programmi per evitare di essere visti o fotografati vicino a Putin.

Il peggio peggiore per ora non è arrivato, ma il solo timore che possa arrivare in futuro basta a mantenere viva l’agitazione degli inclusi nella lista. D’altronde, le autorità americane minacciano di penalizzare anche imprese e istituti occidentali che intrattengono rapporti d’affari con essi, mentre in Gran Bretagna sono già in corso indagini su oligarchi sospettati di corruzione e richiesti di rendere conto della loro ricchezza con annessa minaccia di congelamenti e sequestri, e su società russe accusate di coinvolgimento nel riciclaggio di denaro per oltre 22 miliardi di dollari attraverso la Moldavia.

C’è comunque un’altra faccia del problema, più intrigante dal punto di vista russo e non solo. Accuse e minacce americane potrebbero persino rendere un egregio servizio al Cremlino, resta da vedere se consapevole o involontario. Amici o no di Putin, gli oligarchi sotto tiro costituiscono solo una porzione per quanto cospicua dei tanti possidenti russi protagonisti di una massiccia fuga di capitali all’estero, negli USA e in vari “paradisi fiscali”. Secondo attendibili fonti americane si tratta complessivamente di circa mille miliardi di dollari, una cifra pari a 4 volte il bilancio federale russo per l’anno corrente.

Autorevoli economisti moscoviti intervistati recentemente dalla Komsomolskaja Pravda ritengono che sarebbe forse preferibile parlare di un conseguente ammanco, per il Paese, di 800 milioni. Ma siamo evidentemente lì per quanto concerne l’entità anche politica del problema, tenuto conto che l’economia nazionale si è un po’ ripresa dall’ultima grave crisi ma non sta navigando a gonfie vele.

Che sia difficile correre ai ripari lo ha dimostrato il sostanziale fiasco delle amnistie fiscali già decretate dal governo per incentivare il rimpatrio dei capitali fuggiti. Il citato settimanale, un tempo quotidiano della gioventù sovietica, non si nasconde che i nuovi capitalisti russi, anche qualora attratti dall’offerta, restino sordi ad un richiamo al dovere patriottico perché inguaribilmente timorosi di eventuali ristatalizzazioni ovvero espropri.

A fine dicembre Putin ha preannunciato una nuova amnistia sul cui esito lo scetticismo è di rigore, a meno che il miracolo non lo faccia il Congresso americano in collaborazione o no con Trump o a dispetto della Casa bianca. Sfortunatamente per il Cremlino, tuttavia, il rimpatrio non è l’unica alternativa alla permanenza dei capitali nel Paese che è oggi il principale antagonista della Russia.