Neanche due settimane fa il rieletto Presidente Hassan Rouhani, dopo che la Guida suprema, l’ Ayatollah Alì Khamenei ne aveva ratificato l’ elezione, aveva pronunciato il suo discorso di insediamento di fronte a più di duecento dignitari politici e diplomatici internazionali. In quell’ occasione, buona parte delle sue parole era stata incentrata su quello che, secondo Rouhani, era stato un successo del suo precedente mandato, ossia l’ accordo sul nucleare.

L’ accordo di Ginevra detto 5+1 in quanto aveva coinvolto i 5 paesi del Consiglio di Sicurezza ONU e la Germania, era stato uno dei momenti fondamentali dell’ Amministrazione Obama.Questi aveva intavolato una trattativa durata diversi anni, cui ha lavorato, peraltro, oltre al segretario di Stato John Kerry, in modo attivo, anche l’ Alta Rappresentante per la Politica estera e di sicurezza europea, Federica Mogherini: in cambio del rispetto dell’ accordo, sarebbero state eliminate le sanzioni che da diversi anni gravavano sull’ economia iraniana. Accordo che certamente non aveva entusiasmato gli storici alleati degli USA, Arabia Saudita e Israele.

«Nei mesi scorsi il mondo è stato testimone del fatto che gli USA, in aggiunta ad un costante e ripetitivo tradimento delle loro promesse sull’ accordo nucleare, hanno ignorato alcuni altri accordi globali e hanno dimostrato ai loro alleati di non essere un buon partner o un negoziatore affidabile». Con queste parole Rouhani ha accusato due giorni fa gli Stati Uniti e il loro atteggiamento, considerando la recente approvazione da parte del Congresso americano, di nuove sanzioni contro la Repubblica Islamica (oltre che contro Russia e Corea del Nord, nonostante, come certificato nel mese di luglio da Trump stesso, l’ Iran non sia mai venuto meno all’ accordo.

Rouhani ha poi lanciato un avvertimento a Washington: « L’ esperienza fallita delle sanzioni e della coercizione ha portato la precedente Amministrazione al tavolo dei negoziati. Se vogliono tornare a quella esperienza, in poco tempo – non mesi o settimane, ma entro giorni o ore – torneremo alla precedente situazione».

Proprio in occasione del primo viaggio all’ estero da Presidente, Donald Trump, in visita alla capitale saudita Ryad aveva sottoscritto un accordo di oltre 100 miliardi di dollari per la vendita di armi all’ alleato e successivamente a Gerusalemme aveva condannato, per l’ ennesima volta e senza mezzi termini, l’ attività destabilizzante dell’ Iran e di quegli attori che supportano, direttamente o meno, il terrorismo.

Il risultato delle elezioni presidenziali iraniane di maggio è stato netto: Rouhani, il candidato ‘moderato’, inviso, per l’ accordo sul nucleare del 2015, anche alla Guida Suprema Khamenei, è stato votato da circa il 60% degli aventi diritto, premiato, probabilmente, dagli elettori per quanto realizzato negli anni della sua presidenza. Diversi sono ancora i problemi da risolvere: la corruzione, l’ arretratezza nelle infrastrutture come Internet, l’ insufficienza idrica, ma, certamente, l’ uscita dall’ embargo è parso un segnale di speranza.

E’ anche vero, però, gli effetti della ripresa economica non sono immediati e le nuove sanzioni volute dagli Stati Uniti non fa altro che riaccendere nella popolazione iraniana, soprattutto nei giovani, negli esclusi, pericolosi rigurgiti nazionalisti. In ballo tra le due Nazioni rimane, tra le altre questioni, la Siria. Gli Stati Uniti hanno fatto sapere non più tardi di un mese fa, che la rimozione di Bashar al-Assad non è una conditio sine qua non per la risoluzione del conflitto. Assad, espressione degli sciiti alawiti che costituiscono il 12% della popolazione siriana contro il 74% sunnita, rimane uno storico alleato dell’ Iran, il cui obiettivo odierno sembra essere quello, man mano che l’ ISIS indietreggia, di acquisire terreno fino a creare una sorta di “mezzaluna sciita” che giunga fino al Libano. Si rafforza l’ asse con Ankara, si inasprisce il rapporto con Israele e il progetto di aumentare l’ egemonia nella regione sembra prendere corpo.

Trump, dal canto suo, vorrebbe controbilanciare questa tendenza, a cui, purtroppo, gli Stati Uniti hanno, seppur indirettamente, contribuito: prima con la guerra in Afghanistan e la caduta dei talebani, nemici di Teheran; con la guerra contro l’ Iraq di Saddam Hussein, anch’egli grande rivale della Repubblica islamica; infine con l’ accordo sul nucleare che, per certi versi, ha aumentato il potere negoziale iraniano e depotenziato quello americano.

La speranza che le Primavere arabe e il Movimento Verde del post-elezioni 2009 potessero mettere in moto un cambiamento nella società è forse definitivamente tramontata. Rouhani, nonostante voglia apparire un moderato, si sta adeguando al nuovo registro che Trump in questi mesi ha voluto impostare.

Di questo la Russia non può che avvantaggiarsi. Tant’è che il Ministro degli Esteri Lavrov ha auspicato che «per quanto riguarda le affermazioni del Presidente Rouhanisecondo cui l’ Iran potrebbe uscire dal JCPOA, un risultato raggiunto per risolvere la situazione del nucleare iraniano, spero che ciò non accada. Spero anche che gli Stati Uniti non violino i loro obblighi nel piano d’azione comune globale». Senza dimenticare la crisi diplomatica tra Qatar e Arabia Saudita: proprio quest’ ultima accusa l’ Emirato di appoggiare il terrorismo e di destabilizzare la regione, oltre che di intrattenere rapporti troppo stretti con l’ Iran, il quale, secondo le autorità saudite, starebbe dietro anche alla guerra civile in corso in Yemen.

La politica estera di Trump è diversa da quella del suo predecessore. Ma fino a che punto potrà veramente spingersi? E fino a che punto Rouhani riuscirà a mantenere la situazione sotto controllo?