«Io non voglio la guerra civile …. (sulla base delle) prerogative presidenziali come capo di Stato convoco il potere costituente originario per ottenere la pace che serve alla Repubblica e per sconfiggere il golpe fascista». Queste le allarmanti parole che ieri il Presidente della Repubblica Venezuelana Nicolas Maduro ha pronunciato, di fronte a numerosi suoi sostenitori in occasione di una manifestazione per il Primo Maggio. La riforma, nelle intenzioni di Maduro,dovrebbe prevedere la riscrittura delle leggi sul funzionamento dello Stato, in particolare di quella parte da lui considerata «marcia», ossia l’Assemblea Nazionale, tentando di estromettere i partiti politici e coinvolgere i cittadini, sicuramente quelli a lui molto vicini, oltre che allontanare, in questo modo, come denunciato su Twitter dal leader dell’opposizione Henry Ramos Allup, la data delle elezioni.
«Dovete prepararvi ad un tempo di massacri e di morte». Una frase che non lascia spazio a dubbi, quella che Maduro aveva urlato ad un’assemblea di militanti qualche mese fa e poi riprese nei giorni scorsi dalla tv di stato e social – media filo-governativi. Sono ormai settimane che le piazze di Caracas e di tutto il Venezuela si tingono del grigio del fumo delle bombe carta e dei lacrimogeni che si lanciano reciprocamente i manifestanti e la Polizia, mentre il Paese, a passo deciso, viene trascinato da Maduro nel tunnel dell’isolamento internazionale. Non sono mancati gli scontri con tragici epiloghi come l’ultimo che avrebbe allungato l’ elenco delle vittime a quasi 40 nomi. A questi disordini avrebbero partecipato anche i ‘colectivos’, gruppi paramilitari che agiscono in modo squadrista, seminando il terrore tra coloro che scendono in strada.
Le proteste continuano e vengono mobilitate anche in altri Paesi, in risposta agli abusi che vengono attuati ai danni della democrazia, dei diritti umani in Venezuela dal Presidente socialista. Per comprendere meglio quanto stia avvenendo in Venezuela e quale potrebbe essere il destino della Repubblica, chiediamo a Mauro Bafile, Direttore responsabile dello storico quotidiano venezuelano in lingua italiana ‘La Voce d’ Italia‘.
La ministra degli Esteri del Venezuela Delcy Rodríguez ha annunciato il ritiro dall’ Organizzazione degli Stati Americani (Osa). Perché il Venezuela ha preso questa decisione e quali possono essere le conseguenze?
E’ evidente che il Governo del Presidente Maduro, nell’annunciare il ritiro del Paese dall’Organizzazione di Stati Americani, rincorre l’obiettivo di attenuare le pesanti conseguenze che deriverebbero dalla decisione, sempre più probabile, dell’applicazione della ‘Carta Democratica’ a seguito della denuncia da parte dell’Organismo di una palese e sistematica violazione dei Diritti Umani in Venezuela. Il Governo, con grande abilità ha accusato l’Osa di essere uno strumento al servizio dell’’imperialismo’ e del grande capitale internazionale al servizio degli Stati Uniti. Ha poi denunciato una presunta manovra della destra orientata a provocare squilibri istituzionali tali da creare le condizioni per un ‘golpe’ come quello che in Cile, l’11 settembre del 1973, si concluse con il selvaggio assassinato del presidente socialista Salvador Allende. Il presidente della Repubblica, nell’ annunciare la decisione di ritirare il Paese dall’ Osa, ha una volta ancora fatto leva sui sentimenti nazionalisti, cercando di vendere come un gesto di coraggio, di difesa della sovranità e della dignità di un popolo un’evidente sconfitta diplomatica. Con questa mossa, dunque, il Governo cerca di minimizzare i danni, in termini di immagine già tanto deteriorata a livello nazionale, sottolineando che una volta consegnata la lettera alla Segreteria dell’Osa, il Paese ritirerà la delegazione diplomatica e non parteciperà più alle assemblee dell’Organismo. Quello che il governo non ha spiegato, e sull’ argomento insistono gli esponenti dell’Opposizione e gli esperti in materia, è che l’uscita del paese dall’ Osa non può essere immediata. In altre parole, come il ritiro della Gran Bretagna dall’ Unione Europea, anche il Venezuela dovrà seguire un iter burocratico. E questo potrebbe durare anche due anni. Inoltre, il Paese dovrà azzerare i suoi debiti con l’organismo, che si calcolano attorno ai 9 miliardi di dollari. Fino a quando il Venezuela non avrà completato il percorso burocratico, continuerà a dover rispettare gli statuti dell’Osa e potrà essere oggetto delle sanzioni che l’organismo decida. Altro aspetto che l’Esecutivo è stato molto attento a sorvolare è che la Costituzione stabilisce tassativamente che un governo non potrà mai, al ritirarsi da un organismo, tornare indietro in materia di diritti umani, rispetto delle istituzioni democratiche e libertà individuali, se quanto stabilito negli Statuti e accordi internazionali offre alla popolazione maggiori garanzie che non la Costituzione stessa. Con il ritiro del Paese dall’Osa, il governo abbandona l’organismo più importante del continente americano ma non per questo resterà isolato, come potrebbe pensarsi. Il presidente Maduro lascia un organismo in cui la propria influenza era andata scemando fino ad essere praticamente inesistente, ma resta in altri in cui la ‘diplomazia del petrolio’ continua ad avere il suo peso. E quando parlo di ‘diplomazia del petrolio’, mi riferisco alla spada di Damocle che pende su quei paesi che hanno aderito a Petrocaribe, l’alleanza in materia energetica che permette alle nazioni caraibiche di ricevere petrolio a prezzi scontati dal Venezuela. La presenza del Paese è ancora importante in seno all’ ‘Unión de Naciones Suramericanas’, alla ‘Comunidad de Estados Latinoamericanos y Caribeños’ e all’ ‘Alianza Bolivariana para los Pueblos de nuestra América’. Bisognerà attendere i prossimi giorni per capire se la manovra del governo avrà successo e se a livello nazionale riuscirà a minimizzare i danni che causerebbe l’applicazione, inevitabile stando agli esperti, della Carta Democratica dell’Osa.
Come stanno agendo e come potranno agire in futuro gli Stati Uniti?
Gli Stati Uniti hanno sempre avuto, negli ultimi 20 anni, atteggiamenti diversi nei confronti del Venezuela. Nell’ambito politico, il Dipartimento di Stato nordamericano non ha perso, e non perde occasione, per criticare, con un linguaggio più o meno pacato, la vocazione autoritaria del governo dei presidenti Chávez, prima, e Maduro, poi. Ha accusato alcuni membri del Governo, ora nella black-list, di incorrere in crimini di lesa umanità, che non prescrivono, e di favorire il traffico di droga. E, in questo senso, non si è fatto scrupolo nell’arrestare, con una operazione congiunta della Dea e della polizia di Haiti, i nipoti del presidente Maduro. Ha proceduto alla loro immediata estradizione e li ha sottomessi a un processo. Ora attendono di conoscere l’entità della condanna che dovrà decidere il tribunale della Contea di New York, che li ha condannati per traffico di stupefacenti. Nell’ambito economico, invece, gli Stati Uniti continuano ad acquistare petrolio dal Venezuela. Ambiguo, comunque, anche l’atteggiamento del governo del Presidente Maduro. Nella sfera politica, attacca duramente, anche in termini assai poco diplomatici, il Dipartimento di Stato e il Governo nordamericano. Accusa gli Stati Uniti di imperialismo e di finanziare presunte frange estreme dell’Opposizione, ma poi continua a rifornirli puntualmente di petrolio.
Anche qui vale la pena sottolineare che i termini con cui si attaccano l’imperialismo, il capitalismo e in generale gli Stati Uniti hanno per obiettivo soprattutto quello di mostrare che il governo non solo ha coraggio ma anche dignità e, quindi, di alimentare i sentimenti nazionalisti dei venezuelani.
La situazione economica è disastrosa. Potrà il Presidente Maduro controllare la situazione?
Credo sia necessaria un po’ di storia. Corruzione e traffico d’influenza, in Venezuela, sono sempre esistiti. D’altronde, sono presenti anche in Italia. Prima dell’epoca ‘chavista’, cioè durante quella che l’estinto Presidente Chávez battezzò ‘Quarta Repubblica’, 1958-1999 per essere chiari, il Paese poteva vantare un’importante infrastruttura produttiva; infrastruttura produttiva che comunque aveva alcune importanti lacune. L’agricoltura nonostante gli investimenti e le politiche portate avanti dai governi socialdemocratici e democristiani, non è mai riuscita a coprire nella sua totalità il fabbisogno del Paese. Si stima che arrivava a soddisfare il 75 per cento della domanda. Al resto pensavano Stato e privati attraverso le importazioni. L’industria dopo il boom degli anni ’60 e ’70, frutto della politica di ‘sostituzione delle importazioni’ predicata dall’economista Raul Prebish attraverso la Cepal e fatta propria dai governi democratici del Paese, aveva cominciato a segnare il passo negli anni 80. Anche il Venezuela, infatti, fu travolto dallo tsunami della crisi del debito che iniziò in Messico e contagiò l’America Latina. Nonostante tutto, però, l’industria produceva, creava valore aggiunto ed era fonte di posti di lavoro. Il settore produttivo privato, è bene dire anche questo, dipendeva in gran misura dall’importazione delle materie prime. Era essenzialmente una industria di trasformazione. A fine degli anni ’90 la crisi politica aveva provocato un livello tale di disaffezione dei venezuelani dai partiti dell’establishment che era evidente la necessità di una svolta. Gli strati più umili della popolazione, poi, risentivano delle politiche economiche imposte dal Fondo Monetario Internazionale, fatte proprie dal presidente Carlos Andrés Pérez durante il suo secondo governo, ma non spiegate in termini comprensivi alla stragrande maggioranza delle famiglie. Il malcontento cresceva e il desiderio di cambio fu interpretato dal Colonello Hugo Chávez Frìas che, dopo il fallito tentativo di colpo di Stato e alcuni mesi di carcere, ha reso pubbliche le proprie aspirazioni presidenziali. L’elezione del Presidente Chávez fu accolta con grande ottimismo dalla maggioranza della popolazione, che aveva dimenticato il tentativo fallito di ‘golpe’, e da una gran parte degli industriali. L’inizio del Governo dell’ex Colonello coincise con il boom dei prezzi del petrolio. Ciò rese possibile una narrativa populista che si tradusse in espropri di aziende agricole, complessi industriali e terre. Non mancarono nazionalizzazioni, invasioni di edifici in costruzione incoraggiate da organizzazioni popolari create su iniziativa di esponenti del partito di governo e dal governo stesso. Il linguaggio aggressivo del presidente Chávez, le politiche economiche contro l’imprenditorialità, il controllo dei cambi e dei prezzi frenarono gli investimenti e obbligarono gli industriali a rivedere i piani di espansione. Fu così che anno dopo anno l’industria privata inizia a contrarsi. Le fabbriche cominciano a chiudere o a ridurre all’osso la produzione, per mancanza di materie prime e valuta per importarle, e mano d’opera. Lo spazio ceduto dall’imprenditorialità era occupato dallo Stato assistenzialista. Infatti, grazie alle ingenti somme di denaro provenienti dalla vendita del greggio, si promuoveva una politica di importazione ad oltranza e ridistribuzione dei prodotti a prezzi politici. Con la contrazione dei prezzi del barile di greggio, che in pochi mesi scesero al di sotto dei 40 dollari, il castello di carta costruito dal ‘chavismo’ cominciò a disfarsi nel nulla. La crisi economica oggi morde tutti i venezuelani, dagli strati meno abbienti a quelli più ricchi. Statistiche ufficiali che possano rendere meglio la proporzioni dell’attuale congiuntura economica e sociale del Paese non ve ne sono. La banca centrale, nonostante sia sua responsabilità, da anni non le rende note. Allora bisogna affidarsi a organismi privati autorevoli e al Fondo Monetario Internazionale. Quest’ultimo stima una contrazione del Pil di poco più del 4 per cento dopo una caduta libera di oltre il 18 per cento negli ultimi due anni. L’inflazione a fine del 2017, sempre secondo le proiezioni del Fondo, dovrebbe aggirarsi attorno al 700 per cento. Il prossimo anno potrebbe superare il 2mila per cento. Sono cifre da paese in guerra, eppure in guerra non siamo. Ci sono poi le statistiche di carattere sociale. Le uniche affidabili, oggi, sono quelle rese note dalle Università ‘Centrale del Venezuela’, ‘Simón Bolívar’ e ‘Cattolica Andrés Bello’ raccolte nel dossier ‘Encuesta Condiciòn de Vida – Encovi 2016‘. Stando alla ricerca realizzata delle tre università, la povertà nel Paese colpisce l’82 per cento delle famiglie venezuelane. Come ho avuto modo di scrivere su ‘La Voce d’Italia‘, siamo più poveri e lo siamo tutti. E’ la prima volta nella storia del Venezuela che l’82 per cento delle famiglie vive in povertà. Ma non è tutto. Il 52 per cento ha superato la soglia della povertà assoluta. Oggi c’è chi riesce a fare appena due pasti al giorno e chi addirittura uno solo. E’ la prima volta, da quando ho uso di ragione, che vedo tanti bambini e adulti cercare nei bidoni della spazzatura un tozzo di pane per appagare la fame. Ed è la prima volta che vedo borse di plastica con resti di cibo lasciate volutamente aperte di fronte alle porte di servizio dei ristoranti per permettere a famiglie intere di scegliere tra gli avanzi cosa mangiare. Chiedeva se il Presidente Maduro potrà continuare a controllare la situazione. Non lo so. Il Venezuela è sull’orlo dell’esplosione sociale e le politiche assistenziali del Governo sembrano oggi inapplicabili. L’economia del Venezuela dipende in un 95 per cento dal petrolio, ma il prezzo del barile di greggio, al di sotto dei 50 dollari, non è più sufficiente a sostenere l’attuale livello d’importazione di beni da vendere a prezzi politici. Il Governo del Presidente Maduro sembra essere arrivato al bivio: continuare con le politiche assistenziali, e così scongiurare un’esplosione sociale che potrebbe rappresentare la fine del ‘chavismo’ o pagare il debito estero, e quindi evitare il default, la chiusura delle pochissime linee di credito sulle quali può ancora contare e il probabile sequestro preventivo dei beni e, quindi, anche delle petroliere con il relativo carico. Sarebbe opportuno un accordo con il Fondo Monetario Internazionale ma è una soluzione inaccettabile per il governo, poiché metterebbe a nudo il fallimento del chavismo.
Ma facciamo un passo indietro. Il 27 Marzo scorso il Tribunale Supremo di Giustizia, sotto il controllo del Governo, si era attribuito il potere legislativo proprio del Parlamento, inaugurando quella che tutto il mondo aveva bollato come una vera e propria svolta autoritaria. Pochi giorni dopo, a fronte delle proteste interne ed esterne al Paese, il Parlamento ha riottenuto i suoi poteri, ma il malcontento non è scemato. Diverse sono state le richieste di aiuto internazionale per medicine e generi alimentari. Janeth Marquez, direttrice nazionale di Caritas Venezuela, ha dichiarato che attualmente «l’80% di persone è in povertà, di cui il 50% in condizioni estreme (…)I bambini e gli anziani sono i più colpiti, ma la situazione difficile riguarda tutti, poveri e classe media».
Maduro, dopo esser subentrato al suo predecessore Hugo Chavez nel 2013, non ha fatto nulla per rimettere in sesto un Paese già così afflitto dalle difficoltà economico-sociali, perpetuando l’ intento di attuare la rivoluzione socialista, non nascondendo la forte insofferenza verso gli Stati Uniti: ha lanciato, a metà aprile, un piano speciale, il cosiddetto ‘piano Zamora’, che prevede una serie di azioni strategico -militari atte a «garantire il funzionamento del nostro paese, la sua sicurezza, l’ordine interno e l’integrità sociale», in difesa dalle azioni imperialiste statunitensi. Venerdì scorso, il Presidente Donald Trump ha incontrato il suo omologo argentino Mauricio Macri, e ha dichiarato che «Il Venezuela è un disastro, vedremo cosa succede». Da sempre, gli Stati Uniti guardano con grande attenzione quanto accade nella vicina America Latina e non è escluso che il loro ruolo nella risoluzione della crisi possa essere fondamentale.
Papa Francesco e Pietro Parolin
Ma numerose sono state, nei mesi scorsi, le invocazioni di un intervento mediatore da parte della Santa Sede. Proprio a fine 2016 risale la lettera del Cardinale Segretario di Stato Pietro Parolin, (che ha vissuto come Nunzio Apostolico proprio in Venezuela prima di assumere la carica che oggi ricopre), nella quale venivano elencati una serie di requisiti perché potesse aver luogo l’ entrata in azione del Vaticano: la liberazione degli oppositori politici, la definizione di un calendario elettorale, il nullaosta all’ arrivo di aiuti umanitari e la riaffermazione dei poteri del Parlamento.
Durante il Regina Coeli recitato in Piazza San Pietro, domenica 30 aprile, Papa Francesco ha rinnovato la sua vicinanza alle famiglie delle vittime degli scontri e ha aggiunto «rivolgo un accorato appello al Governo e a tutte le componenti della società venezuelana affinché venga evitata ogni ulteriore forma di violenza, siano rispettati i diritti umani e si cerchino soluzioni negoziate alla grave crisi umanitaria, sociale, politica ed economica che sta stremando la popolazione», evidenziando una mancanza di unità anche nell’ opposizione. A questa velata insinuazione, il fronte democratico non ha esitato a replicare, mediante una lettera, l’ assoluta assenza di divisioni interne e il leader anti – Maduro, Henrique Capriles, in un’ intervista, ha dichiarato «Noi dell’opposizione a Maduro condividiamo l’appello di pace fatto poco tempo fa da Papa Francesco per il nostro paese. Dobbiamo anche dire però che il Santo Padre dovrebbe essere maggiormente aggiornato sulla reale situazione in Venezuela».
Due giorni fa, con l’ intento di rendere le acque meno tempestose, è stato annunciato dal Presidente Maduro l’ aumento del salario minimo per garantire l’ acquisto di generi alimentari e medicine, senza gravare sui contributi che devono essere versati dalle aziende, non inserendo, però, tra i destinatari di questo aumento, i pensionati.
Le proteste continuano e vengono mobilitate anche in altri Paesi, in risposta agli abusi che vengono attuati ai danni della democrazia, dei diritti umani in Venezuela dal Presidente socialista. Per comprendere meglio quanto stia avvenendo in Venezuela e quale potrebbe essere il destino della Repubblica, chiediamo a Mauro Bafile, Direttore responsabile dello storico quotidiano venezuelano in lingua italiana ‘La Voce d’ Italia‘.
La ministra degli Esteri del Venezuela Delcy Rodríguez ha annunciato il ritiro dall’ Organizzazione degli Stati Americani (Osa). Perché il Venezuela ha preso questa decisione e quali possono essere le conseguenze?
E’ evidente che il Governo del Presidente Maduro, nell’annunciare il ritiro del Paese dall’Organizzazione di Stati Americani, rincorre l’obiettivo di attenuare le pesanti conseguenze che deriverebbero dalla decisione, sempre più probabile, dell’applicazione della ‘Carta Democratica’ a seguito della denuncia da parte dell’Organismo di una palese e sistematica violazione dei Diritti Umani in Venezuela. Il Governo, con grande abilità ha accusato l’Osa di essere uno strumento al servizio dell’’imperialismo’ e del grande capitale internazionale al servizio degli Stati Uniti. Ha poi denunciato una presunta manovra della destra orientata a provocare squilibri istituzionali tali da creare le condizioni per un ‘golpe’ come quello che in Cile, l’11 settembre del 1973, si concluse con il selvaggio assassinato del presidente socialista Salvador Allende. Il presidente della Repubblica, nell’ annunciare la decisione di ritirare il Paese dall’ Osa, ha una volta ancora fatto leva sui sentimenti nazionalisti, cercando di vendere come un gesto di coraggio, di difesa della sovranità e della dignità di un popolo un’evidente sconfitta diplomatica. Con questa mossa, dunque, il Governo cerca di minimizzare i danni, in termini di immagine già tanto deteriorata a livello nazionale, sottolineando che una volta consegnata la lettera alla Segreteria dell’Osa, il Paese ritirerà la delegazione diplomatica e non parteciperà più alle assemblee dell’Organismo. Quello che il governo non ha spiegato, e sull’ argomento insistono gli esponenti dell’Opposizione e gli esperti in materia, è che l’uscita del paese dall’ Osa non può essere immediata. In altre parole, come il ritiro della Gran Bretagna dall’ Unione Europea, anche il Venezuela dovrà seguire un iter burocratico. E questo potrebbe durare anche due anni. Inoltre, il Paese dovrà azzerare i suoi debiti con l’organismo, che si calcolano attorno ai 9 miliardi di dollari. Fino a quando il Venezuela non avrà completato il percorso burocratico, continuerà a dover rispettare gli statuti dell’Osa e potrà essere oggetto delle sanzioni che l’organismo decida. Altro aspetto che l’Esecutivo è stato molto attento a sorvolare è che la Costituzione stabilisce tassativamente che un governo non potrà mai, al ritirarsi da un organismo, tornare indietro in materia di diritti umani, rispetto delle istituzioni democratiche e libertà individuali, se quanto stabilito negli Statuti e accordi internazionali offre alla popolazione maggiori garanzie che non la Costituzione stessa. Con il ritiro del Paese dall’Osa, il governo abbandona l’organismo più importante del continente americano ma non per questo resterà isolato, come potrebbe pensarsi. Il presidente Maduro lascia un organismo in cui la propria influenza era andata scemando fino ad essere praticamente inesistente, ma resta in altri in cui la ‘diplomazia del petrolio’ continua ad avere il suo peso. E quando parlo di ‘diplomazia del petrolio’, mi riferisco alla spada di Damocle che pende su quei paesi che hanno aderito a Petrocaribe, l’alleanza in materia energetica che permette alle nazioni caraibiche di ricevere petrolio a prezzi scontati dal Venezuela. La presenza del Paese è ancora importante in seno all’ ‘Unión de Naciones Suramericanas’, alla ‘Comunidad de Estados Latinoamericanos y Caribeños’ e all’ ‘Alianza Bolivariana para los Pueblos de nuestra América’. Bisognerà attendere i prossimi giorni per capire se la manovra del governo avrà successo e se a livello nazionale riuscirà a minimizzare i danni che causerebbe l’applicazione, inevitabile stando agli esperti, della Carta Democratica dell’Osa.
Come stanno agendo e come potranno agire in futuro gli Stati Uniti?
Gli Stati Uniti hanno sempre avuto, negli ultimi 20 anni, atteggiamenti diversi nei confronti del Venezuela. Nell’ambito politico, il Dipartimento di Stato nordamericano non ha perso, e non perde occasione, per criticare, con un linguaggio più o meno pacato, la vocazione autoritaria del governo dei presidenti Chávez, prima, e Maduro, poi. Ha accusato alcuni membri del Governo, ora nella black-list, di incorrere in crimini di lesa umanità, che non prescrivono, e di favorire il traffico di droga. E, in questo senso, non si è fatto scrupolo nell’arrestare, con una operazione congiunta della Dea e della polizia di Haiti, i nipoti del presidente Maduro. Ha proceduto alla loro immediata estradizione e li ha sottomessi a un processo. Ora attendono di conoscere l’entità della condanna che dovrà decidere il tribunale della Contea di New York, che li ha condannati per traffico di stupefacenti. Nell’ambito economico, invece, gli Stati Uniti continuano ad acquistare petrolio dal Venezuela. Ambiguo, comunque, anche l’atteggiamento del governo del Presidente Maduro. Nella sfera politica, attacca duramente, anche in termini assai poco diplomatici, il Dipartimento di Stato e il Governo nordamericano. Accusa gli Stati Uniti di imperialismo e di finanziare presunte frange estreme dell’Opposizione, ma poi continua a rifornirli puntualmente di petrolio.
Anche qui vale la pena sottolineare che i termini con cui si attaccano l’imperialismo, il capitalismo e in generale gli Stati Uniti hanno per obiettivo soprattutto quello di mostrare che il governo non solo ha coraggio ma anche dignità e, quindi, di alimentare i sentimenti nazionalisti dei venezuelani.
La situazione economica è disastrosa. Potrà il Presidente Maduro controllare la situazione?
Credo sia necessaria un po’ di storia. Corruzione e traffico d’influenza, in Venezuela, sono sempre esistiti. D’altronde, sono presenti anche in Italia. Prima dell’epoca ‘chavista’, cioè durante quella che l’estinto Presidente Chávez battezzò ‘Quarta Repubblica’, 1958-1999 per essere chiari, il Paese poteva vantare un’importante infrastruttura produttiva; infrastruttura produttiva che comunque aveva alcune importanti lacune. L’agricoltura nonostante gli investimenti e le politiche portate avanti dai governi socialdemocratici e democristiani, non è mai riuscita a coprire nella sua totalità il fabbisogno del Paese. Si stima che arrivava a soddisfare il 75 per cento della domanda. Al resto pensavano Stato e privati attraverso le importazioni. L’industria dopo il boom degli anni ’60 e ’70, frutto della politica di ‘sostituzione delle importazioni’ predicata dall’economista Raul Prebish attraverso la Cepal e fatta propria dai governi democratici del Paese, aveva cominciato a segnare il passo negli anni 80. Anche il Venezuela, infatti, fu travolto dallo tsunami della crisi del debito che iniziò in Messico e contagiò l’America Latina. Nonostante tutto, però, l’industria produceva, creava valore aggiunto ed era fonte di posti di lavoro. Il settore produttivo privato, è bene dire anche questo, dipendeva in gran misura dall’importazione delle materie prime. Era essenzialmente una industria di trasformazione. A fine degli anni ’90 la crisi politica aveva provocato un livello tale di disaffezione dei venezuelani dai partiti dell’establishment che era evidente la necessità di una svolta. Gli strati più umili della popolazione, poi, risentivano delle politiche economiche imposte dal Fondo Monetario Internazionale, fatte proprie dal presidente Carlos Andrés Pérez durante il suo secondo governo, ma non spiegate in termini comprensivi alla stragrande maggioranza delle famiglie. Il malcontento cresceva e il desiderio di cambio fu interpretato dal Colonello Hugo Chávez Frìas che, dopo il fallito tentativo di colpo di Stato e alcuni mesi di carcere, ha reso pubbliche le proprie aspirazioni presidenziali. L’elezione del Presidente Chávez fu accolta con grande ottimismo dalla maggioranza della popolazione, che aveva dimenticato il tentativo fallito di ‘golpe’, e da una gran parte degli industriali. L’inizio del Governo dell’ex Colonello coincise con il boom dei prezzi del petrolio. Ciò rese possibile una narrativa populista che si tradusse in espropri di aziende agricole, complessi industriali e terre. Non mancarono nazionalizzazioni, invasioni di edifici in costruzione incoraggiate da organizzazioni popolari create su iniziativa di esponenti del partito di governo e dal governo stesso. Il linguaggio aggressivo del presidente Chávez, le politiche economiche contro l’imprenditorialità, il controllo dei cambi e dei prezzi frenarono gli investimenti e obbligarono gli industriali a rivedere i piani di espansione. Fu così che anno dopo anno l’industria privata inizia a contrarsi. Le fabbriche cominciano a chiudere o a ridurre all’osso la produzione, per mancanza di materie prime e valuta per importarle, e mano d’opera. Lo spazio ceduto dall’imprenditorialità era occupato dallo Stato assistenzialista. Infatti, grazie alle ingenti somme di denaro provenienti dalla vendita del greggio, si promuoveva una politica di importazione ad oltranza e ridistribuzione dei prodotti a prezzi politici. Con la contrazione dei prezzi del barile di greggio, che in pochi mesi scesero al di sotto dei 40 dollari, il castello di carta costruito dal ‘chavismo’ cominciò a disfarsi nel nulla. La crisi economica oggi morde tutti i venezuelani, dagli strati meno abbienti a quelli più ricchi. Statistiche ufficiali che possano rendere meglio la proporzioni dell’attuale congiuntura economica e sociale del Paese non ve ne sono. La banca centrale, nonostante sia sua responsabilità, da anni non le rende note. Allora bisogna affidarsi a organismi privati autorevoli e al Fondo Monetario Internazionale. Quest’ultimo stima una contrazione del Pil di poco più del 4 per cento dopo una caduta libera di oltre il 18 per cento negli ultimi due anni. L’inflazione a fine del 2017, sempre secondo le proiezioni del Fondo, dovrebbe aggirarsi attorno al 700 per cento. Il prossimo anno potrebbe superare il 2mila per cento. Sono cifre da paese in guerra, eppure in guerra non siamo. Ci sono poi le statistiche di carattere sociale. Le uniche affidabili, oggi, sono quelle rese note dalle Università ‘Centrale del Venezuela’, ‘Simón Bolívar’ e ‘Cattolica Andrés Bello’ raccolte nel dossier ‘Encuesta Condiciòn de Vida – Encovi 2016‘. Stando alla ricerca realizzata delle tre università, la povertà nel Paese colpisce l’82 per cento delle famiglie venezuelane. Come ho avuto modo di scrivere su ‘La Voce d’Italia‘, siamo più poveri e lo siamo tutti. E’ la prima volta nella storia del Venezuela che l’82 per cento delle famiglie vive in povertà. Ma non è tutto. Il 52 per cento ha superato la soglia della povertà assoluta. Oggi c’è chi riesce a fare appena due pasti al giorno e chi addirittura uno solo. E’ la prima volta, da quando ho uso di ragione, che vedo tanti bambini e adulti cercare nei bidoni della spazzatura un tozzo di pane per appagare la fame. Ed è la prima volta che vedo borse di plastica con resti di cibo lasciate volutamente aperte di fronte alle porte di servizio dei ristoranti per permettere a famiglie intere di scegliere tra gli avanzi cosa mangiare. Chiedeva se il Presidente Maduro potrà continuare a controllare la situazione. Non lo so. Il Venezuela è sull’orlo dell’esplosione sociale e le politiche assistenziali del Governo sembrano oggi inapplicabili. L’economia del Venezuela dipende in un 95 per cento dal petrolio, ma il prezzo del barile di greggio, al di sotto dei 50 dollari, non è più sufficiente a sostenere l’attuale livello d’importazione di beni da vendere a prezzi politici. Il Governo del Presidente Maduro sembra essere arrivato al bivio: continuare con le politiche assistenziali, e così scongiurare un’esplosione sociale che potrebbe rappresentare la fine del ‘chavismo’ o pagare il debito estero, e quindi evitare il default, la chiusura delle pochissime linee di credito sulle quali può ancora contare e il probabile sequestro preventivo dei beni e, quindi, anche delle petroliere con il relativo carico. Sarebbe opportuno un accordo con il Fondo Monetario Internazionale ma è una soluzione inaccettabile per il governo, poiché metterebbe a nudo il fallimento del chavismo.
Dal punto di vista interno, le piazze si infuocano e comincia a farsi sempre più lungo l’ elenco dei periti durante le manifestazioni. E’ corretto dire che è in atto una guerra civile?
No, assolutamente no. Non credo che si sia in presenza di una guerra civile. Non conviene a nessuno. Sono convinto, invece, che si assiste a manifestazioni di forza tra Governo e opposizione, tra chi ha le armi e chi no. Una specie di lotta tra Davide e Golia, e sappiamo come andò a finire allora. L’opposizione ha ancora tanti problemi da risolvere. Crepe interne dovute a incomprensioni e aspirazioni personali e legittime di alcuni leader. D’altronde è una coalizione eterogenea, un enorme contenitore dove convivono movimenti di destra e di sinistra. Il collante, per il momento, è il desiderio di un cambio di Governo. Dopo le elezioni parlamentari, nelle quali è riuscita a strappare la maggioranza assoluta, pareva aver perso le piazze e il potere di convocare migliaia e migliaia di cittadini in strada. Ebbene, la realtà delle ultime settimane ha dimostrato il contrario. Non solo i cittadini, ormai stanchi per una situazione insostenibile, sono disposti ad accompagnare il Tavolo dell’Unità Democratica ma hanno perso la paura e fanno fronte a una repressione sempre più violenta. 28 morti in 20 giorni di proteste. Stando ai principali istituti demoscopici, la popolarità del presidente Maduro è oggi ai minimi storici, mentre cresce quello dei leader dell’opposizione. Non credo che si arrivi a una guerra civile. Credo invece ci sia il pericolo di un’esplosione sociale spontanea perché ormai anche chi continua a credere nel ‘chavismo’ ritiene che il Governo non è all’altezza della situazione e reclama una svolta. La dissidenza in seno al ‘chavismo’ e al partito di Governo cresce ed è probabile che in un futuro prossimo riesca a contrastare le frange estreme che sono quelle che oggi dominano la scena.