Fin dalla sua scoperta, il petrolio è stata la maggiore fonte di ricchezza dell’ Arabia Saudita. La grande disponibilità di risorse del proprio sottosuolo l’ ha resa una, se non il primo, dei più importanti, produttori ed esportatori di petrolio al mondo.
Stando alle Elaborazioni Ambasciata d’Italia su dati EIU e IMF, il principale membro dell’ OPEC(Organization of the Petroleum Exporting Countries) si configura come una nazione di 32 milioni di abitanti, con una crescita di PIL dell’ 1,9% al 2016, la disoccupazione al 10,8 % e il debito pubblico al 31,8% del PIL, il tutto accompagnato da un’ inflazione al 3.9%. Nel 2012, però, i dati erano un po’ diversi: infatti la variazione del PIL si attestava al 5,4, la disoccupazione al 12,2% e il debito pubblico 9,5% del PIL, con un’ inflazione al 2.8%.
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Dati economici Arabia Saudita
Ma andiamo con ordine. Dopo l’impegno militare americano in Medioriente e la fine della presidenza Bush, è arrivata la crisi economica che ha colpito l’ Occidente nel 2008 e che ha travolto ogni settore della società capitalista, mettendo in discussione il suo stile di vita, compresa la sua dipendenza dal petrolio. Con l’ inizio del primo mandato del presidente Obama, però, e la sua iniezione di liquidità senza precedenti, inizia la progressiva risalita dell’ economia americana, anche se per l’ Europa i problemi rimangono e rimarranno fino ad oggi.
L’ Arabia Saudita dal canto suo inizia a vivere un periodo di instabilità, anche dovuta all’ inizio delle ‘primavere arabe’ nei Paesi vicini, come ad esempio in Egitto, ma anche in Libia. La gioventù che manifesta in piazza inneggia alla libertà e ad una maggiore partecipazione. Il re Abdullah risponde alle proteste elargendo miliardi di dollari con i quali finanziare la pubblica istruzione, combattere la disoccupazione e proteggere le fasce deboli della società.
La storica alleanza con gli Stati Uniti vive un momento di così bassa temperatura. Infatti, i sauditi incolpano l’ alleato a stelle e strisce dell’ instabilità della regione; contemporaneamente prende vigore in America il cosiddetto ‘shale oil’ che fa concorrenza all’ OPEC e allenta quel laccio che tiene legate le due Nazioni: nel 2015, come è possibile vedere nel grafico sottostante, gli americani sono riusciti a produrre più di quanto hanno importato. Con l’ avvento, sempre nel 2015, di Re Salmān bin ʿAbd al-ʿAzīz, si inaugura una nuova fase della vita del Regno, ma la situazione delle relazioni con Washington non cambia: il Presidente Obama è riuscito a raggiungere un accordo sul nucleare con l’ Iran, la teocrazia sciita, nemica giurata della prima nazione sunnita, l’ Arabia Saudita.
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Le riforme a cui viene dato impulso da Re Salman comprendono anche il settore del petrolio, per la cui comprensione ci siamo rivolti a Lisa Orlandi, analista presso il RIE (Ricerche Industriali Energetiche), che si è avvalsa della collaborazione di Filippo Clò.
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Prezzo del petrolio tra il 2014 e il 2016
Il grafico evidenzia l’ andamento discendente del prezzo del petrolio dal 2014 alla fine 2016, a seguito del rifiuto da parte del Regno di ridurre l’ offerta di oro nero, provocandone un eccesso. La straordinaria crescita dello ‘shale oil’, la fine delle sanzioni all’ Iran, e quindi l’ enorme offerta degli ultimi anni hanno reso necessaria anche la ricerca di un nuovo equilibrio. Per questo a novembre scorso, dopo mesi, Il Segretario generale dell’Opec, ha dichiarato: «Abbiamo l’impegno da tutti i 24 Paesi che intendono onorare i loro obblighi». Si riferiva all’ impegno preso sul finire del 2016 da parte di 13 Paesi membri Opec e 11 Paesi produttori non Opec (primo di questi ultimi la Russia) di ridurre la produzione di petrolio: i primi di 1,2 milioni di barili al giorno (con un tetto cumulato di 32,5 milioni di barili al giorno), i secondi di 558.000, entro il primo semestre dell’ anno in corso.
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Mohammad Sanusi Barkindo
“Ad ogni Paese” – dice l’ analista – “membro è stata assegnata una quota di produzione calcolata applicando un taglio mediamente prossimo al 5% sull’output di ottobre, assunto come riferimento generale. A sopportare gran parte del taglio sono i paesi del Golfo, storicamente ritenuti i più disciplinati in materia di aderenza alle quote assegnate. Insieme all’Arabia Saudita – chiamata a ridurre il suo output di 486.000 bbl/g – Emirati Arabi Uniti, Kuwait e Qatar assorbiranno il 65% della riduzione complessiva. Più complessa è stata la definizione del calo di 210.000 bbl/g spettante all’ Iraq, un calo accettato non senza riluttanza e che apre diversi interrogativi su quali giacimenti ne saranno interessati, essendo la produzione irachena prevalentemente nelle mani di compagnie internazionali. Decisamente più clementi le scelte compiute su Libia, Nigeria e Iran, con le prime due esentate dalla riduzione in ragione delle forti tensioni interne e l’ultimo sostanzialmente ‘graziato’ per consentirgli qualche margine di manovra nel post-sanzioni. Fondamentale a riguardo è stato il vertice ministeriale congiunto che si è tenuto a Vienna, presso la sede ufficiale dell’ OPEC, lo scorso 10 dicembre e che ha visto la presenza – oltre che degli stati membri dell’Organizzazione – di 11 produttori esterni: Azerbaijan, Bahrain, Brunei, Guinea Equatoriale, Kazakhstan, Malesia, Messico, Oman, Russia, Sudan e Sud Sudan. Un vertice di portata storica, il primo dal 2001 di questo tipo”.
Tra le criticità dell’ accordo, Lisa Orlandi segnala “la collaborazione effettiva da parte dei Paesi non-OPEC. Il cartello non vuole e non è più in grado di incidere sull’offerta mondiale in modo duraturo senza coinvolgimenti esterni; questa “dipendenza” dagli altri produttori può complicare la buona riuscita dell’accordo, specie quando l’interlocutore principale è la Russia che sulla questione dei tagli produttivi ha cambiato più volte bandiera; una stretta aderenza alle quote da parte del cartello, condizione che non è mai stata il suo forte: tuttavia, l’istituzione di un Comitato di monitoraggio sembra rappresentare un elemento a favore di un rispetto delle quote superiore al passato; un eventuale aumento produttivo da parte di Libia e Nigeria, esentate dai tagli. In questa ipotesi, correlata ad un allentamento dei disordini interni, diminuirebbe il peso – e quindi l’efficacia – del taglio concordato”.
Per quanto riguarda la tenuta dell’ accordo, l’ esperta del RIE tiene a precisare che “le prime indicazioni da parte dei paesi che hanno aderito al taglio (soprattutto OPEC) hanno mostrato un’aderenza elevata (anche superiore all’80%), con l’Arabia Saudita che ha dichiarato di aver tagliato più di quanto richiesto. Il mercato ha risposto positivamente subito dopo l’annuncio ma successivamente i prezzi si sono stabilizzati mantenendosi fino a metà marzo intorno ai 55 doll/bbl. Pertanto, è apparso subito chiaro che l’accordo stia fungendo più da stabilizzatore dei prezzi che non da stimolo ad un loro rialzo. Il principale “nemico” è infatti ancora una volta lo shale USA che – sulla scia dei prezzi in salita subito dopo la decisione del cartello – ha ripreso a crescere. Il ministro del petrolio saudita Al-Falih si è già pronunciato a favore di una estensione dei tagli oltre i sei mesi programmati anche se ha sottolineato di non voler – come in passato – assumersi il ruolo di produttore residuale mentre gli altri ‘scartellano’. Si ritiene probabile un’intensa attività diplomatica nei prossimi mesi per tentare di far riprendere vigore all’accordo. Un’aderenza al 100% sembra molto difficile ad oggi. Tuttavia, già un segnale di rispetto e impegno da parte della Russia potrebbe favorire almeno la stabilità e la strada del riequilibrio di mercato”.
L’ anno scorso viene annunciata l’ intenzione del Governo saudita di quotare in borsa tra la fine del 2017 e gli inizi del 2018 il 5% della Saudi Aramco, la compagnia petrolifera nazionale legata a doppio filo con la monarchia saudita. La compagnia petrolifera saudita avrebbe incaricato all’ inizio del 2017 dell’audit delle riserve due diverse società indipendenti: la Gaffney, Cline & Associates e la DeGolyer & MacNaughton.
Lisa Orlandi, premettendo che “esprimere un parere sullo stato delle riserve saudite è a dir poco ardito”, sostiene che “le stime ufficiali indicano 266 miliardi di barili di riserve, circa il 15% del totale mondiale: il che significa ai ritmi di estrazione attuali, un rapporto R/P di circa 70 anni. Sulla storia delle riserve saudite, qualche ragionevole dubbio c’è da tempo; almeno da quando si passò bruscamente dai 170 miliardi di barili del 1987 ai 260 del 1989, dato che poi si è mantenuto stabile nonostante consumi/export prossimo a 94 miliardi di barili. In sostanza, se i dati sono accurati, significa che il Regno è sempre riuscito a rimpiazzare ogni barile prodotto con nuove scoperte o con una revisione al rialzo delle stime dell’ammontare recuperabile dai campi esistenti. La seconda opzione sembra quella più plausibile in quanto la maggior parte dei grandi campi del paese sono stati scoperti tra il 1936 e il 1970 e nessuna scoperta equiparabile si è verificata da allora. In generale, vale la pena sottolineare che i profili produttivi “field by field” del Regno sono segreti di Stato noti solo a pochi insider per cui la relativa verifica è sempre risultata impossibile. Le cose potrebbero cambiare con la quotazione in borsa di Saudi Aramco. L’ingresso alla borsa di New York significa la sottomissione alle rigide regole della Securities and Exchange Commission in tema di contabilizzazione delle riserve. La prima di queste riguarda le cosiddette riserve provate non sviluppate che – secondo la SEC – devono muovere verso lo stadio dello sviluppo entro 5 anni per poter essere contabilizzate. Data la vastità delle riserve saudite, molti esperti del settore dubitano che una parte consistente di queste possa rispettare questa regola. Tuttavia, ad oggi, le prime indiscrezioni sull’audit in corso sembrano essere positive”.
Mohammad Bin Salman Abdulaziz Al- Saud
La decisione di quotare il 5% di Saudi Aramco e quindi di ottenerne dei ricavi, rimanda fondamentalmente al tentativo messo in atto da Ryad che, come ci ricorda Lisa Orlandi “ha registrato nel solo 2015 un deficit di bilancio di quasi 98 miliardi di dollari, pari a oltre il 14% del suo PIL”, di diversificare la propria economia, rendendola sempre più indipendente dalla risorsa petrolifera. Un anno fa Mohammad Bin Salman Abdulaziz Al- Saud, Presidente del Consiglio per gli Affari Economici e Sviluppo, annunciava ‘Vision 2030‘, il programma che, rendendo Il Regno, come proclamato dal Re, «un modello di successo globale su ogni fronte», dovrebbe trasformare radicalmente la società saudita, innovandola e ammodernandola, puntando su nuove frontiere, “così da ridimensionare – prosegue l’ esperta – la centralità dell’industria petrolifera e delle quotazioni del greggio sulla politica economica.La vendita del 5% di Saudi Aramco, la più grande compagnia petrolifera del mondo, porterebbe in dotazione circa 100-200 miliardi di dollari da destinare a un fondo sovrano d’investimento con cui promuovere progetti di sviluppo sia in patria che all’ estero. Le conseguenze per l’azienda possono essere positive. Trasformata in una società per azioni, diventerebbe più trasparente e punterebbe all’ ulteriore sviluppo dei segmenti della raffinazione, della distribuzione carburanti e della petrolchimica”.
Ma il progetto di Mohammad sarà di più ampio respiro e coinvolgerà i più svariati settori della società: infatti, come precisa la Dott.ssa Orlandi, “prevede poi la promozione del settore privato interno, sia con misure a favore delle piccole e medie imprese, sia con la privatizzazione di altre società pubbliche che gestiscono servizi come l’acqua e l’elettricità. L’economia saudita dovrà poi diversificarsi, puntando allo sviluppo delle fonti rinnovabili, dell’industria mineraria non petrolifera, dei servizi finanziari, della manifattura tecnologicamente avanzata (ICT e componentistica) e del turismo (pellegrinaggi a La Mecca). Infine, Vision 2030 mira a ridisegnare il patto sociale, riducendo il ruolo dello stato quale datore di lavoro e fornitore di servizi, oltre che imponendo forme (minime) di tassazione (si parla di introdurre una tassa sul valore aggiunto al 5% in coordinamento con le altre economie del Golfo). Il progetto è estremamente ambizioso perché: oggi l’industria petrolifera vale tra il 75 e l’85% delle entrate statali e rappresenta la gran parte delle esportazioni del paese; la popolazione è in forte crescita e ha una bassa età media, cosa che pone un grave problema di occupazione; i sauditi sono abituati a scambiare benefici economici con la fedeltà alla famiglia regnante; esistono resistenze culturali alla modernizzazione della società, in particolare nei confronti del ruolo della donna”.
“Tuttavia” – continua Lisa Orlandi – “ la portata innovativa e lo spazio di manovra politica del principe ereditario sono notevoli, come testimonia la rimozione, ai primi di maggio, del vecchio ministro del Petrolio Ali al-Naimi, in carica dal 1995. Al suo posto è stato chiamato Khalid al-Falih, già amministratore delegato di Saudi Aramco e ministro della Salute dalla primavera del 2015. A cambiare non è stato solo il ministro ma anche il nome e dunque le competenze del Ministero, che ora è il Ministero dell’Energia, Industria e Risorse Minerarie, coerentemente con l’intento del principe ereditario di andare oltre il petrolio”.
Re Salman e il Presidente cinese Xi Jinping
Un ulteriore spunto di riflessione ci proviene dalla stretta attualità: infatti, qualche settimana fa, a seguito del viaggio del Re Salman in Cina, il Regno e la Repubblica Popolare Cinese hanno firmato 14 accordi di cooperazione bilaterale per un valore complessivo in grado di generare fino a 65 miliardi di dollari, molti dei quali nel settore energetico. Alla domanda su quale può essere, oggi, per l’Arabia Saudita, la partnership più strategica, anche in vista del programma di diversificazione della sua economia ‘Vision 2030’, l’ esperta del RIE risponde affermando che “la ‘Special Relationship’ che ha storicamente contraddistinto i rapporti tra Stati Uniti ed Arabia Saudita è andata affievolendosi negli ultimi due decenni, per ragioni sia politiche che energetiche. Sul primo fronte pesa il tema del terrorismo – la maggior parte degli attentatori alle torri gemelle erano sauditi. Sul secondo, conta invece la rivoluzione shale che ha comportato una profonda revisione degli interessi strategici statunitensi, con implicazioni in particolare per l’area mediorientale. Inevitabile l’impatto sulle relazioni con l’Arabia Saudita poiché gli Stati Uniti passano dallo stato di importatore, estremamente bisognoso di assicurarsi le forniture, a produttore che aspira all’ ‘indipendenza energetica’ “.
“Il fatto che” – puntualizza Lisa Orlandi- “ il suo tradizionale ruolo di fornitore degli Stati Uniti sia stato ‘declassato’ alla pari degli altri fornitori, ha spinto il Regno a tutelare con maggior tenacia i propri interessi all’interno di un contesto di puro mercato: anche da qui muove la scelta del novembre 2014 di passare da una strategia di difesa dei prezzi ad una politica di difesa delle quote di mercato, facendo leva sui minori costi di produzione per consolidare la propria posizione di fornitore in mercati rilevanti come quello cinese e statunitense, ma anche europeo, giapponese e indiano. In questi anni di bassi prezzi del greggio, l’Arabia Saudita ha abbassato più volte i propri listini in questi mercati per superare la concorrenza di altri produttori”.
“Anche la scelta di ‘Vision 2030’ ” – aggiunge – “delinea una volontà di svolta in reazione al mutato contesto economico, politico ed energetico internazionale, anche se l’obiettivo di voler affrancare in tempi molto brevi l’economia del Paese dalla dipendenza dalle rendite petrolifere è di certo ambizioso e ottimistico. Cina e Stati Uniti sono entrambi due importanti mercati di sbocco per il business tradizionale saudita, vale a dire la produzione di greggio e derivati. Tuttavia, la minore dipendenza di Stati Uniti a forniture estere a seguito della shale revolution lo rende meno appetibile della Cina. Entrambi rappresentano importanti partner e potenziali investitori, ma entrambi giocano un ruolo diverso ma cruciale nello scacchiere mediorientale. Anche su questo fronte ci si può attendere più un’ alternanza delle relazioni Arabia Saudita-Cina e Arabia Saudita-USA a seconda delle questioni”.
L’ Arabia Saudita è dunque all’ alba di una rivoluzione: sarà in grado di completarla, nonostante i difficili momenti che vive il Medioriente?